Si può parlare oggi di una scena elettronica italiana? Esiste? Ha ancora senso utilizzare termini come scena ed elettronica nel 2021? Qual è lo spazio che questo panorama musicale ha nell’industria dell’intrattenimento italiana? E all’estero? Quali sono le sue possibili ambizioni? Qual è lo stato di salute di questo microcosmo?
L’occasione per aprire un dialogo sul tema arriva da Manifesto, festival dedicato all’elettronica, alla sperimentazione e alle arti visive con performance musicali di Whitemary, Go Dugong, Nava, Imaginaria e Alessandro Adriani e dj set di Populous e Jolly Mare, in calendario venerdì 26 e sabato 27 novembre al Monk di Roma.
Con alcuni degli artisti del festival – Populous, Jolly Mare, Go Dugong e Whitemary – abbiamo organizzato una tavola rotonda digitale, una conversazione aperta, ricca di stimoli e spunti sul panorama elettronico italiano. Un flusso di idee, pareri, commenti e proposte da artisti molto differenti tra loro, che ben rappresentato varie sfaccettature di questo movimento sonico e che in questi anni si sono ritagliati uno spazio di rilievo in questa geografia sonora.
Partiamo dalla base, per far ordine con il lessico: esiste davvero una scena elettronica italiana? E ha ancora senso parlare di scene e di elettronica nel 2021?
Populous: Sì, direi subito che scena è un termine improprio. Utilizzerei il termine panorama. In Italia ci sono persone che fanno musica elettronica e che son ben recepite all’estero, dove l’elettronica ha una differente (e migliore) percezione. Diciamolo subito: l’elettronica italiana non è mai stata così in salute. Continuano a uscire dischi che aggiungono qualcosa al panorama musicale mondiale, dischi con personalità e con radici nella tradizione italiana. La conferma di questo la puoi sentire nel disco di Go Dugong o in quello di Jolly Mare. Stiamo ascoltando, finalmente, qualcosa di nuovo.
Jolly Mare: Concordo. A me però fa strano che si parli ancora di elettronica. L’elettronica è solo una parte del quadro generale.
Go Dugong: Io non penso nemmeno di aver fatto un disco di elettronica!
Jolly Mare: Non saprei però definire questa scena-che-non-è-una-scena. Siamo in mezzo a un vortice, senza più punti di riferimento. Forse l’unico punto di riferimento sono i festival. È lì che ci troviamo, parliamo e condividiamo il palco. Il festival è l’aggregatore.
Populous: L’elettronica oramai è un mezzo per produrre musica, ci sono dei cantautori o trapper che usano più elettronica di noi. Pensiamo ai beat, ai synth, all’Auto-Tune. La “novità”, e lo dico tra virgolette, è diventato chi non ne fa uso, come i Måneskin che sono così fuori dal mondo, così fuori dal contesto storico, da funzionare tantissimo.
Whitemary: Il termine scena non è sbagliato, ma è ha dei connotati ben precisi che qui da noi mancano. È interessante quello che dice Populous; gli artisti italiani di questo panorama non scimmiottano più quello che sentono dall’estero, ma hanno caratteristiche molto personali. Proprio per questa diversità però è difficile fare scena, mancano quei canoni chiari che vai a ripetere per affermarti, come ad esempio è successo con l’indie. Manca anche forse un pubblico forte, o una città di riferimento come Roma e Bologna furono dell’indie.
Ai tempi l’indie si formava e si aggregava attorno a festival come il Mi Ami. Quello era il momento reale in cui ci si trovava nel panorama. Vedo analogie tra l’indie che fu e l’elettronica – usiamo questo termine finché non ne troviamo di migliori – di oggi. E quindi mi viene da chiedervi: qual è il rapporto di questo mondo elettronico con i media? Mi pare ci sia davvero poca attenzione come ai tempi ce ne fu ben poca per l’indie.
Go Dugong: I media italiani sono molto influenzati da ciò che va per la maggiore, e di sicuro non siamo noi. Ho la sensazione che questo sia un periodo di maturazione di questo ambiente. Sto percependo un chiaro salto di qualità. All’estero se ne stanno accorgendo, in Italia non ancora, forse perché qui c’è meno sensibilità verso quello che facciamo.
Whitemary: Questo ambiente non può passare dai media come primo step per crescere perché non c’è grande attenzione per le cose più piccole rispetto a ciò che fa tendenza. I media non portano qualcosa di nuovo, ma ribadiscono ciò che è affermato, ciò che il pubblico chiede. Forse manca un circuito underground di blog, fanzine, eccetera, piccole cose seguite da circoli ristretti, ma capaci di creare una certa affezione. Mancano i posti dove incontrarsi, dove ascoltare un certo genere di musica con una continuità, ok i festival, ma hanno cadenza annuale. Mancano i locali piccoli in cui cominciare a creare una cerchia, una comunità.
Populous: Penso tu ti riferisca anche alla cultura dei club, che in Italia non esiste. Certo, forse c’è stata negli anni ’70, ma poi è stata sostituita dalla discoteca che, se ci pensiamo oggi, è un concetto che si riferisce a cose oggettivamente discutibili. Non pensiamo mai a cose belle quando usiamo la parola discoteca, nonostante club e discoteca dovrebbero essere parole capaci di evocare dei mondi molto fighi.
Tempo fa un collega di Le Monde mi chiese informazioni per un suo articolo sulla discoteca in Italia. Mi fece notare come le grandi discoteche degli anni ’90 fossero spesso luoghi legati a una certa cultura di estrema destra, soprattutto con riferimenti all’impero romano, a una certa cultura fascista.
Populous: Ah, ma è vero, non ci avevo mai pensato. Oltretutto noi leghiamo sempre la discoteca a grandi spazi con grandi capienze. Dovremmo puntare sui club piccoli (in Italia sono molto pochi), dove poter far ricerca e sperimentare senza ambizione di grandi numeri. Perché si sa che i grandi numeri richiedono proposte quantomeno più facili.
Whitemary: Mancano i club a misura. Per un progetto come il mio, ad esempio, c’è difficoltà a trovare luoghi dove suonare.
Go Dugong: Ma voi intendete in Italia in generale, o nelle città?
Populous: In generale, anche se nelle città qualcosa ovviamente c’è.
Whitemary: io vengo dall’Aquila e lì non esiste questo tipo di dimensione. E non esisteva nemmeno mentre crescevo e avevo bisogno di trovare e scoprire certa musica.
Jolly Mare: Volendo collegare i discorsi tra media e locali, noto che l’attenzione arriva quando c’è una vox populi importante. È solo così che i media si svegliano; lo stesso succede anche per il mondo del club. Prima serve una volontà popolare, solo così poi, magicamente, qualcosa si smuove. Questo è ancora più evidente nei club dove il rapporto interesse/guadagno è molto più chiaro. Se un artista non fa numeri è meglio non chiamarlo.
Go Dugong: Ho la sensazione che oramai siano gli artisti a portare linfa ai media e non viceversa.
Credo che la poca attenzione dei media sia figlia anche di una certa ambiguità linguistica, di come si parla di questo mondo. Se elettronica è un termine improprio, se scena è un termine improprio, come si può raccontare questo panorama? Ancora legando all’indie, lo step ci fu quando si vennero a creare delle community (la vox populi di cui parlava Jolly Mare) che coniarono nuovi termini come it-pop. Quando fai chiarezza è più semplice che ci sia un allineamento e, quindi, qualcosa di più evidente su cui scrivere o parlare.
Jolly Mare: Quando un linguaggio penetra, in effetti, si tende ad allinearsi.
Questo panorama elettronico, invece, essendo fluido, liquido, ha altre ambizioni rispetto all’indie/it-pop. È un universo che si nutre di sperimentazioni, ricerca, futuribilità sonora. Qual è quindi il futuro di questo ambiente/panorama a vostro parere?
Whitemary: Tutto ciò che manca nella comunicazione, nei media, nei club è un po’ compensato dal gusto delle persone che ascoltano questa musica. Non so però dove possiamo andare, datemi voi degli spunti.
Go Dugong: Non credo che la situazione cambierà tantissimo per questo ambiente. Vedo una maggiore attenzione dall’estero e spero ci possano essere più opportunità per noi di uscire dai confini. L’Italia è una trappola per gli artisti. All’estero nascono etichette, label, realtà aperte a produzione di progetti esterni al proprio Paese – un’etichetta inglese può benissimo produrre un progetto italiano, ad esempio – mentre le realtà del nostro paese sono molto più chiuse alle produzioni locali. Manca uno scambio con gli altri Paesi. Noi siamo chiusi da tanto tempo. Forse uno dei pochi esempi fu la Homesleep Records, ma parliamo di più di dieci anni fa. Quando rimani chiuso in un Paese piccolo come il nostro è un attimo che si esauriscono stimoli e risorse. Non ci siamo mai aperti a uno scambio con l’estero da questo punto di vista.
Jolly Mare: Come generazione di contenuto musicale non c’è un interesse verso l’estero mentre nei cartelloni dei festival italiani troviamo molte proposte interessanti dall’estero, è strano.
Go Dugong: Abbiamo progetti italiani prodotti all’estero, ma non abbiamo progetti esteri prodotti in Italia.
C’è un’incapacità dell’industria italiana di rapportarsi con l’estero. Manca l’idea e la convinzione di poter essere qualcosa di appetibile per il pubblico estero quanto l’estero lo è per noi. I vostri sono progetti internazionali, esportabili. Anche quello di Whitemary, che è quello più “pop” e con il cantato italiano, ha il potenziale per uscire fuori. Dobbiamo anche iniziare a sdoganare lo stigma che l’italiano non sia vendibile, soprattutto ora che francese e spagnolo (per parlare dei nostri vicini di casa) non hanno confini. C’è un problema con la lingua secondo voi?
Populous: La questione della lingua penso sia alla base di questa discussione. Perché gli artisti spagnoli hanno varcato i confini dei loro territori? Perché hanno personalità molto forti, sincere, credibili da riuscire a farsi apprezzare in nazioni che di quella lingua non capiscono nulla, semplicemente perché la loro musica ha senso e contiene una radice culturale rispettata e, in molti casi, ri-modernizzata. Un esempio su tutti è Rosalía. Solo una parte del pubblico sa quello che dice, ma tutti la consideriamo credibile. Bisognerebbe capire come essere congrui con le proprie radici e rappresentare comunque qualcosa di nuovo. In quel caso la percezione che potremmo dare a uno straniero sarebbe diversa. Mi viene in mente il ritorno dell’Italo disco, una linea di confine tra musica italiana e pubblico estero.
Go Dugong: L’Italo disco è diventata un culto in effetti.
Populous: Perché non potremmo essere noi artisti italiani ispirazione per qualcun altro? È un discorso complesso, è vero, e riguarda le radici culturali del Paese.
Go Dugong: Se un’etichetta italiana iniziasse a produrre progetti fighi dall’estero attirerebbe l’attenzione di media stranieri, generando un’attenzione su tutto il background e il catalogo dell’etichetta. Questo darebbe una possibilità di risonanza estera ai nostri progetti.
Populous: Allargherebbe la percezione.
Go Dugong: È tutto molto chiuso ora.
Whitemary: Per noi musicisti sarebbe uno stimolo a non limitarsi a fare solo ciò che funziona e potrebbe funzionare in Italia, allargando i nostri confini e le nostre possibilità.
L’industria italiana musicale si è arroccata sul made in Italy. Musica italiana per ascoltatori italiani, non c’è spazio per altri e per altro. Basta veder le classifiche per capire quanta poca musica straniera mastichiamo oggi.
Whitemary: Ci mischiamo poco volentieri.
Populous: Dovremmo fare come con la cultura del food, il nostro vero vanto d’esportazione: quando eccelli in qualcosa riesci ad esportarla. Quanto siamo bravi a fare progetti di qualità per stuzzicare il pubblico straniero?
Jolly Mare: Credo non ci sia momento migliore per lavorare a contenuti qualitativi validi nella nostra lingua d’appartenenza. La musica è sempre uno specchio di ciò che succede all’esterno. I modelli da cui eravamo stati assorbiti culturalmente hanno dimostrato di aver ampiamente fallito. Il tornare alla base per dare un segnale è una risposta che arriva proprio dalla musica. Il modello americano fallisce dal punto di vista sociale, politico, climatico e quindi per me fallisce anche dal lato musicale. Il sogno americano degli anni ’80, ecco, mai più nella vita.
Tirando delle somme: radici italiane e ambizioni internazionali. A tal proposito i vostri dischi suonano italiani, non suonando italiani. Un concetto antitetico, lo so, ma che penso ben descriva voi e questo panorama.
Populous: L’onestà intellettuale è alla base della riuscita di un progetto. Quando un progetto è onesto lo si capisce. E stiamo certi che lo capiscono anche da fuori pur non capendo le parole esatte. L’onestà intellettuale è fondamentale per l’arte di tutti noi.
Whitemary: Penso poi che le persone si siano un po’ stancate di tutta questa over-produzione di stampo americano attorno all’artista, questo sovraccarico di immaginario ed estetica.
Jolly Mare: Aggiungo uno spunto: come è cambiata tutta la situazione da prima che ci chiudessero in casa a ora? Perché a me ora sembra di vivere in un’altra dimensione. Ora in Italia c’è un enorme entusiasmo ai live e non capisco se è una pura riconnessione con noi stessi o se deriva da una grande carenza.
Populous: Un mix?
Jolly Mare: Forse ce ne dovevamo privare per poterlo capire. E aggiungo una cosa: spero che le serate, i live, i dj set rimangano con questi nuovi orari più consoni, meno tardivi, più vicini a una sensibilità europea. Quando le serate non cominciano alle 3 del mattino, c’è una vibe differente. È un contesto a cui non siamo abituati, ma da cui dovremmo imparare.
Populous: Assolutamente.
Chiudo con una domanda a Whitemary. Tu sei dentro Poche, un collettivo di produttrici italiane. Cosa significa per te far parte di questo collettivo?
Whitemary: Con Poche volevamo dare un segnale. Spesso si dice che noi produttrici donne siamo poche, ma poche non siamo. Da quest’anno ho iniziato ad insegnare musica elettronica al conservatorio Saint Louis di Roma…
Populous: Adoro!
Whitemary: E su 45 studenti ho solo due ragazze. A me dispiace molto. Le bambine, da piccole, vengono spesso direzionate sul canto perché non c’è l’idea che possano diventare delle producer. A noi Poche serve per far gruppo, per darci una mano. È un segnale di rappresentanza, non vogliamo essere un’eccezione, ma una normalità. Fossimo un collettivo di produttori maschi, sarebbe la norma, no?