A un film che parte come Olmi e finisce come Herzog non si può non volere bene, fosse solo per l’ambizione che muove e sostiene. Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis, nomi bellissimi, parlano però come il cinema italiano presente, quello di cosiddetta nuova generazione: Alice Rohrwacher, i D’Innocenzo, Jonas Carpignano, quella leva integralista ma sempre dialogante che guarda dichiaratamente e precisamente al passato ma parla la lingua dell’oggi.
Mi son perso il titolo del film in questione. Re Granchio – presentato all’ultima Quinzaine des Réalisateurs, poi al recente Torino Film Festival, dal 2 dicembre nelle sale – inizia come la leggenda di un bevitore non troppo santo (Gabriele Silli), il matto del paese che boicotta i nobilotti locali e s’innamora di una contadina (Maria Alexandra Lungu) promessa sposa al principe.
Fino a qui tutto, italianamente, classico. Siamo somewhere in Tuscia (tardo ottocentesca) e ci sono anche gli zappatori un po’ Albero degli zoccoli, il vino rosso in osteria (bianco solo per i gendarmi), le lavandaie alla vasca fuori dal villaggio, tutto come in quei quadri di Fattori e dei fratelli Induno.
Poi, la volata favolistica. Perché Re Granchio, lo dice il titolo, è prima di tutto una fiaba, una leggenda non di bevitori nostrani ma di corsari dell’altro mondo, la Terra del Fuoco dove – non vi diciamo perché, anche se fortunatamente questo è cinema che se ne fotte degli spoiler/no spoiler – il protagonista finisce a cercare nuovi tesori. Che forse son gli stessi dell’inizio, di sempre.
Rigo de Righi e Zoppis vengono dal documentario e per una volta non si vede, nel senso che sì, c’è la precisione del reale, ma con la loro sontuosa regia vanno più dalle parti della favola magica dove tutto è possibile, un Kaspar Hauser che diventa Fitzcarraldo; ma pure verso la fotografia narrativa di Salgado, il cinema libero di viaggio ed escursione, insieme a un gusto molto nostrano (un po’ garroniano?) per le facce, la materia, l’artigianato che si deve toccare sempre.
Re Granchio è cinema che resta per pochi ma che ha l’aspirazione di parlare a tutti. È tutto più semplice e meno ostico di quanto possa sembrare (anche al pubblico del cinema festivaliero che oggi preferisce lo streaming e, per mille motivi pure comprensibili, diserta le sale). È tutto bellissimo (la fotografia di Simone D’Arcangelo, la musica di Vittorio Giampietro, le scene di Fabrizio D’Arpino, i costumi di Andrea Cavalletto) e accessibile, collocato in un luogo sempre più raro del cinema (e dell’industria) ma mai pedante o presuntuoso.
E, torniamo al principio, ha quello spirito di racconto che oggi torniamo ad avere anche qua, alla maniera dei registi pittori/narratori di un tempo. Si dovrebbe chiudere con “la favola bella del giovane cinema italiano”, ma non lo farò, ci siamo capiti lo stesso.