Insieme ai Pooh ha realizzato alcuni capisaldi della musica italiana. Forte delle esperienze vissute con la band dei record e pronto a lanciarsi in nuove avventure musicali, Roby Facchinetti ha pubblicato Symphony, in cui ricanta gli evergreen realizzati con i Pooh, ma pure pezzi composti da solista e cinque inediti. La novità? È che sono in chiave sinfonica grazie all’Orchestra Ritmico Sinfonica Italiana e alla Budapest Art Orchestra. Ma la chiacchierata con Roby tocca vari temi: dal ddl Zan ai no vax, da Sanremo alla reunion dei Pooh. Va detto che Facchinetti è uno che sa mettere a proprio agio tutti. Chiama dal suo telefono e si presenta con un «Buongiorno, sono Roby Facchinetti». Umile e simpatico. Qualche convenevole e si parte.
Roby, iniziamo subito con Symphony. Com’è partito tutto?
La scintilla è stata accesa grazie al direttore d’orchestra e amico Diego Basso: in pieno lockdown, a settembre del 2020, decise di fare un concerto al Castelfranco Veneto, davanti al castello, senza pubblico.
E poi?
Il mondo sinfonico mi ha sempre emozionato. Ce l’ho dentro da bambino perché mia mamma ascoltava musica classica e operistica tutto il giorno. Ho accettato il concerto per reagire, per cominciare a fare qualcosa anche senza pubblico, per dire che la musica c’è, esiste.
E dopo?
Alla fine ero talmente preso emotivamente che ho pensato fosse il momento giusto per realizzare il sogno di un progetto sinfonico con pezzi dei Pooh e canzoni incise da singolo, con l’aggiunta di cinque inediti. Mi sono messo a lavorare e abbiamo inciso. Sono soddisfatto per aver realizzato questo desiderio.
Il primo singolo Uomini soli, se possibile, assume ancora di più il significato di una preghiera…
È un’invocazione: Dio delle città, dell’immensità, vedi se riesci a fare qualcosa per noi. L’orchestra sinfonica nobilita il brano, trova la propria giusta collocazione. Con la potenza sonora riesce a esprimere le corde dell’emozionalità, anche rispetto a un arrangiamento rispettoso: è come se il pezzo tornasse a casa. Uomini soli diventa più avvolgente, arriva nella sua completezza. È quello che deve essere: giunge nella giusta collocazione. Le canzoni con questa veste hanno una nuova vita.
Uomini soli cosa rappresenta per te?
La vittoria a Sanremo. Decidemmo di andare al festival nel 1990. A quell’epoca volevano un brano acchiapparello, che doveva arrivare al pubblico. E Uomini soli, per quegli anni, era abbastanza impegnativo. Abbiamo pensato di portare un pezzo diverso rispetto a quello che c’era in giro, con un testo di Valerio Negrini che è un capolavoro: ogni parola, ogni frase, permetterebbero di fare un altro testo a sé stante. Andammo a Sanremo con Dee Dee Bridgewater e fu una benedizione. Non pensavamo di vincere, ma per la nostra storia rappresenta qualcosa di unico, di straordinario.
Ma c’era un brano che i discografici volevano portaste a Sanremo al posto di Uomini soli?
Sì, Donne italiane. Ci dicevano: «I Pooh, a Sanremo, con quel titolo, è già vincente!». Fortunatamente non li ascoltammo, visto com’è andata.
Senti, ma una curiosità me la devi togliere: quando canti “Dio delle cittuààààà” e “Non si puaaaaa” un po’ ci marci…
No, anzi, ci sto attento! Ora canto “Dio della cittàààààà” (intona la strofa, nda). In Symphony la interpreto correttamente. Quel “Dio delle cittuààààà” non era voluto, era uscito così, diventando una caratteristica inconsapevole. Adesso ci sto veramente accorto perché è meglio dire “cittààààà” piuttosto che “cittuààààà”.
Vabbè ma a noi piaci pure se dice “cittuà”.
Allora farò un po’ e un po’, va bene? (ride)
Nel disco hai inserito anche Pierre. Che valore assume, oggi, in un’Italia che ha affossato il ddl Zan?
È attualissima. All’epoca, quando Negrini mi disse di voler parlare di omosessualità, quella era una parola che nemmeno si pronunciava. Gli chiesi se era sicuro…
Come mai?
Non che non fossi d’accordo, ma bisognava capire come affrontare un tema simile, sicuramente rischioso. Passarono due anni e, un giorno, mi nacque una composizione, la feci ascoltare a Valerio e gli dissi che poteva essere ideale per il brano che voleva scrivere.
Che successe?
Mi disse pure il titolo, Pierre, e riuscì a parlare di omosessualità con una poesia e una delicatezza impareggiabili. È diventato un vero classico dei Pooh. Amo cantarlo per come è strutturato. Ai concerti non posso non inserirlo in scaletta, guai a non farlo: i fan mi aspetterebbero sotto casa.
Ma rispetto all’oggi che mi dici?
Che era di scottante attualità nel 1976 e continua a esserlo. Dopo l’affossamento della legge Zan mi auguro si possa fare qualcosa. Sarebbe socialmente un passo in avanti, per un Paese civile. Trovo sia giusto, ci possono essere cose da perfezionare, ma ne abbiamo bisogno. Ce lo meritiamo, sarebbe un esempio per tutti.
Parliamo di un altro pezzo importantissimo: Pensiero.
Lo ricollego al grande successo, ai Pooh che avevano voglia di arrivare al grande pubblico. Pensiero ha, in sé, un’anima straordinaria. Se tu in un ristorante, in una piazza, in una toilette urli «Non restare chiuso qui…».
Pensiero!
Ecco, hai visto? (ride). Sai che sulla Muraglia cinese – perché mi piace fare queste cose un po’ pazze – ho urlato «non restare chiuso qui…» e a 100 metri c’era un gruppo di torinesi che ha risposto «pensiero!». È un brano che mi ha regalato episodi bellissimi, straordinari.
E che mi dici di Chi fermerà la musica?
È il nostro slogan, con cui chiudevamo i concerti. Viene spesso usato come sigla, anche a Castrocaro, per esempio. Una pietra miliare del nostro repertorio.
Non dimentichiamoci La donna del mio amico.
Il testo di D’Orazio è intenso e trovo emozionante che, in questo brano, l’amicizia vinca, per la prima volta, sull’amore. Un uomo rinuncia a una donna per amicizia.
Nella tua vita artistica, c’è qualcosa che non hai mai raccontato a nessuno?
Un rimpianto.
Quale?
Mi è nato in questi giorni. I Måneskin hanno vinto Sanremo e l’Eurovision Song Contest. Noi, nonostante avessimo vinto Sanremo, all’Eurovision non andammo.
Motivo?
Non avevamo il pezzo pronto, per immaturità, per pigrizia. Insomma, non partecipammo anche se ci dovevamo andare di diritto. Ci andò Toto Cutugno e lo vinse. E Toto ci ringrazia ancora, per questo regalo. È stata imperdonabile la nostra scelta. Tra essere o non essere presenti a una kermesse europea era meglio esserci.
Nel disco c’è anche Grande Madre, scritta con Stefano D’Orazio. C’è un ricordo che vuoi condividere?
Ci sono tanti ricordi su Stefano. Lo sentivo tutti i giorni perché abbiamo realizzato l’opera moderna Parsifal, che dura oltre due ore, e verrà rappresentata nel 2022. Dicevo a Stefano di stare attento, di non aprire nemmeno la finestra. Forse avrei dovuto insistere di più, fargli fare più attenzione. È una mia remora di coscienza, forse anche immotivata, ma se avessi insistito di più, in modo più convinto, magari non avrebbe fatto delle leggerezze che lo avrebbero portato a non esserci più. Invece, purtroppo, ha incontrato questa bestiaccia che non lo ha perdonato.
Quando lo hai sentito l’ultima volta?
L’ho sentito alle 5 del pomeriggio del giorno in cui ci ha lasciati. Mi ha detto che aveva la febbre e aveva appena ricevuto l’esito del tampone positivo. Poi alle 11 di sera è stato ricoverato. E la sua battuta è stata: «Guarda, ho il covid, ma tutto il resto sta bene». Stefano era così.
E tu, quando ti ha detto che aveva contratto il virus, come hai reagito?
Ho esclamato: «Ma che cazzo stai dicendo, Stefano? Ma cosa dici? Ma sei matto? Mi stai prendendo in giro». Non volevo crederci, ma era così.
Quindi Grande Madre assume un valore tutto particolare.
Mi emoziona molto. Quando sono uscito con il progetto Inseguendo la mia musica, Stefano mi chiese di mettere, tra gli inediti, anche Grande Madre, realizzato un po’ di anni prima. Non riuscii a farlo perché il lavoro era quasi completo, ma gli feci la promessa di inserirlo nel prossimo album. Così, quando ho scelto gli inediti, ho tenuto fede alla promessa.
A marzo parti in tour dalla tua Bergamo che, nella prima ondata di Covid, è stata messa in ginocchio. Cosa pensi dei no vax?
I no vax non capiscono l’importanza del vaccino per loro stessi e per gli altri, con la vaccinazione salvano la propria vita. Stiamo vedendo che la gente intubata e in pericolo di morte è quella che non si fa inoculare. E questa è una cosa che non si comprende. Detto questo tornare a Bergamo, al rinato Teatro Donizetti, dopo quello che è successo, ha un sapore diverso.
Cioè?
C’è voglia di ricominciare, di rimboccarsi le maniche, si pensa a come affrontare al meglio la situazione dopo l’esperienza con questa brutta bestia. Si avverte grande forza e voglia di lasciarsi alle spalle, senza dimenticare, quello che è accaduto. Guardiamo avanti.
Senti, Roby, ma i Pooh ritornano o proprio no?
Non c’è nessuna possibilità.
Perché?
I Pooh non esistono più. Se ne sono andati Valerio Negrini – fondatore della band e uno dei poeti della formazione – e Stefano. Con quale spirito possiamo risalire sul palco? Anche perché la reunion con Riccardo Fogli e Stefano D’Orazio, che ha chiuso i 50 anni insieme, ha realizzato 550 mila paganti con una spinta emotiva forte. Ho rispetto per quello che abbiamo fatto, per il nostro gran finale, per la nostra storia. E per quello che abbiamo detto e promesso al pubblico. Poi, nella vita, mai dire mai: fra un anno potrebbero nascere cose imprevedibili e impensabili che, magari, ci indurranno a risalire sul palco.
Che mi dici dei rumors che ti vorrebbero a Sanremo?
Non mi passa manco per l’anticamera dell’anticamera dell’anticamera del cervello (ride). È molto improbabile.
Capito. Non ti sei fatto mancare nemmeno la tv: The Facchinettis, The Voice of Italy…
Sono contento di aver fatto quelle esperienze. Ho promesso a me stesso, mentre scendevo dal palco dopo l’ultimo concerto con i Pooh, che da quel momento in poi avrei fatto solo e unicamente le cose che mi piacciono e mi divertono.
Perché con i Pooh facevi cose che non ti piacevano?
È successo, per carità. Magari a volte si faceva più fatica. Del resto abbiamo avuto una vita impegnativa e complessa, venduto 80 milioni di dischi senza staccare mai. È capitato che si decideva di fare una cosa e poi magari, una volta iniziata, capiva che non era come ci si immaginava.
Se dovessi fare un bilancio della tua vita?
Sono un uomo con un’esistenza fortunata. Sono grato ai Pooh che mi hanno permesso di esprimermi al massimo, ho una famiglia straordinaria con cinque figli e sei nipoti. Ho ricevuto cose bellissime. A volte ho fatto scelte affrettate, di cui mi sono pentito, ma ci sta.