L’intervista con Mosè Cov – vero nome Mussie Tesfay, rapper meneghino di origini eritree – è prevista per le 12, ma inizia con mezz’ora di ritardo perché non si è svegliato in tempo, avendo passato le ultime 72 ore a montare il video di Nuovo killer, un lavoro iper cinematografico che nonostante un budget contenuto ha molto poco da invidiare a quelli dei colleghi americani, in quanto a creatività.
Alcuni amici che vivono nel suo stesso quartiere, zona Maciachini/Imbonati – amichevolmente definita Imbonatistan da parecchi milanesi, per la casbah multietnica e multiforme che ormai popola le sue vie da qualche anno – si offrono volontari per andare a citofonargli, e così finalmente riusciamo a parlarci. Ha le occhiaie di chi non dorme da giorni, il cappuccio in testa e le treccine un po’ scompigliate, ma il sorriso è quello di chi sa di avere per le mani una piccola bomba come il suo primo album ufficiale, Loyalty. Nel weekend successivo, racconta, ci saranno anche le riprese di un cortometraggio. E l’entusiasmo con cui lo dice compensa la stanchezza e qualsiasi altra considerazione, perché la sua capacità di trasmettere entusiasmo è enorme, e la sua allegria davvero contagiosa.
Palesemente, Mosè Cov non vede l’ora di fare ascoltare a tutti ciò che è riuscito a realizzare «grazie a un lavoro di squadra», come ci tiene a sottolineare a più riprese. Il suo non è un nome sconosciuto: è uno di quelli da tenere d’occhio già dal 2018, quando una major (la Warner) lo aveva messo sotto contratto e i suoi primi singoli avevano cominciato ad attirare l’attenzione di addetti ai lavori, colleghi e pubblico. Dopodiché, come spesso succede, quella che sembrava essere la strada verso un sicuro e meritato successo ha subìto qualche deviazione lungo il percorso.
Tre anni più tardi è pronto a riprendersi la scena, letteralmente e in senso figurato, da indipendente. Durante la lavorazione di Loyalty, che vanta i featuring di Emis Killa, Jake La Furia, Ghemon e Quentin40, ha scritto una settantina di tracce. «I miei produttori continuavano a dirmi che in un disco ce ne entrano massimo 12 e io mi incazzavo. Alla fine sono diventate 16» ride. Prima che io possa iniziare a chiedergli alcunché, è lui che ci tiene a sapere che tipo di emozione mi ha suscitato l’ascolto dell’album («Scusa se ti faccio le domande io e non viceversa, ma sono davvero curioso»). L’emozione è più che positiva: in un panorama che spesso appare desolantemente piatto, Mosè Cov spicca per talento, capacità di scrivere e musicalità, acquisita quando era il frontman di una band crossover. Se si parla di rapper emergenti, ci troviamo davvero di fronte a uno dei dischi più interessanti e originali del 2021.
Perché è così importante il concetto di emozione, per te?
Perché la gente oggi ne è privata. Per fare quest’album ci ho messo anche più del dovuto, forse, ma mi sono detto che o mi aprivo completamente o non avrebbe avuto senso. Non che con le mie canzoni precedenti non lo avessi fatto, ma non ero ancora abbastanza in confidenza con il pubblico da raccontare vicende troppo personali. Avevo paura che sembrasse un modo per attirare l’attenzione. Però mi sono reso conto che bisognava rischiare: quasi ogni volta che sentivo un nuovo disco rap, alla fine non mi rimaneva nulla, a parte l’hype. Non volevo fare quella fine.
L’ultima volta che ti abbiamo intervistato eri sotto contratto con una major, avevi pubblicato un paio di singoli di successo e ti apprestavi a metterti al lavoro sul tuo album di debutto, che però non è mai uscito. Cos’è successo?
Te lo racconterei davanti a una birra, ma non durante un’intervista (ride)! Diciamo che… (lunga pausa di silenzio, nda) è stata dura. Io sono una persona molto testarda, però, e non mi abbatto. Non ne ho neanche il tempo, sono sempre troppo impegnato a pianificare il passo successivo. È stata un’esperienza importante, è servita, ho imparato tante cose che prima non sapevo, e se non fosse successo tutto quello che è successo, Loyalty non lo avrei mai scritto. Nelle varie tracce del disco mi tolgo parecchi sassolini: non faccio mai nomi e cognomi, ma credo che i diretti interessati si riconosceranno. Sono riuscito a sfogarmi e sono veramente contento del risultato. La mia curiosità più grande è sapere come verrà recepito, se scatenerà le stesse sensazioni che ho io quando di notte mi metto a riascoltarlo in cuffia.
Nella prima traccia, Fuoco dal cielo, dici “Pompa questo disco per dire che io c’ero / quando le possibilità erano meno di zero”. Ti senti ancora così, come se le possibilità fossero meno di zero?
Mio fratello mi dice sempre questa frase: «Se non metti il corpo a difesa delle tue parole, è inutile». Come a dire che se non sei disposto a rischiare per ciò in cui credi, non vale niente. Ragion per cui mi sono ripromesso di dire sempre la verità, sia nelle mie canzoni che adesso. E la verità è che in quanto a capacità di scrittura non mi sento da meno di nessuno, in Italia. E non mi sento un rapper emergente, perché per la passione che io e il mio team abbiamo messo in questo disco siamo già emersi dalla massa. Sono così orgoglioso di chi ha lavorato con me e mi ha aiutato a superare tutte le difficoltà possibili, dei miei amici che mi hanno sostenuto fin qui, e sì, anche di me stesso, che non potrò mai sentirmi come se stessi ripartendo da zero. C’è troppa gente che ci crede insieme a me.
Il titolo Loyalty viene da questo?
L’ho scelto dopo aver scritto già un po’ di pezzi: avevo notato che questo concetto di lealtà, di esserci sempre per gli altri, tornava in quasi tutte le canzoni. Anche in quelle che apparentemente non c’entrano nulla con il tema: in Rita, dedicata a mia madre, ad esempio dico “non mi hai mai tradito”.
Davvero è dedicata a tua madre? L’avevo scambiato per uno storytelling…
Nulla di quello che ho scritto è storytelling: tutto ciò che racconto è realmente avvenuto, non voglio riascoltare il mio disco tra dieci anni e vergognarmi di quello che ho detto o non ho detto. Vale anche per pezzi come Mio padre vota Lega, che parla di una ragazza di Varese, o Dede, il vero nome di un ragazzo del mio quartiere che tutti conoscono. Anche Rita è il vero nome di mia madre. È una donna straordinaria, ogni volta che ci penso mi stupisco della sua forza. Non so se sarei mai riuscito a fare la vita che ha fatto lei.
È una storia molto dura, quella che racconti in quel brano. La storia di una donna scampata a un destino di bambina soldato, arrivata in Italia da ragazzina, che cresce tre figli con grandi principi nonostante un marito violento, e che diventa la colf di una donna molto ricca che le nasconde le perle sotto il tappeto per vedere se pulisce bene.
A casa mia si cerca di raccontare le cose pesanti sdrammatizzandole un po’, perché siamo tutti abituati a lottare per sopravvivere, e quell’episodio delle perle ne è un ottimo esempio. La tipa lo faceva per dispetto: quando le trovava, mamma le portava a casa e le conservava in un barattolo, che è uno dei ricordi più vividi della mia infanzia. La cosa che fa più ridere è che un bel giorno le ha fatte infilare per farne una collana, e si è presentata al lavoro indossandola sotto il naso della signora. È fatta così, lei: non puoi scalfire il suo orgoglio o umiliarla, terrà sempre la testa alta.
Cos’ha pensato quando ha sentito la canzone?
Non gliel’ho ancora fatta sentire, anzi, non sa neanche che ho scritto una canzone su di lei. So che l’unico regalo che posso farle non è una canzone, ma riuscire a fare ciò che sognavo. Mi ha visto così tante volte passare le notti sveglio per la mia musica che vorrei poterle dare qualche soddisfazione.
Prima accennavi a una delle tracce che, già dal titolo, è destinata a far parlare maggiormente di sé: Mio padre vota Lega. Cronaca (vera) del tuo incontro con i genitori di una tua ex, non propriamente felicissimi delle tue origini eritree…
Esatto, quella storia è vera dall’inizio alla fine, ed è diventata una specie di leggenda metropolitana tra i miei amici, che mi chiedono sempre di raccontarla ai nuovi arrivati. Fa morire dal ridere tutti: io che sono a letto con una che si rivela essere figlia di un leghista, e che poi decide di invitarmi a cena da suo padre… Una situazione assurda! Non ho mai voluto fare canzoni inerenti alla politica, anche se ovviamente ho le mie idee e non sono una persona priva di senso civico. Con questo pezzo ho cercato di raccontare qualcosa di reale, che in qualche modo parlasse anche di politica. L’ho fatto come se fosse un film, un cortometraggio. Una formula che non avevo mai sperimentato, e che mi ha divertito molto.
Hai mai pensato a quale potrebbe essere la reazione di Salvini, viste le sue precedenti discussioni a distanza con altri rapper come Ghali, Salmo, Gemitaiz e Fedez?
In realtà io non insulto nessuno, quindi non credo ci saranno problemi. In ogni caso non mi interessa, l’ho scritta per me e soprattutto per chi mi ascolta. Volevo che sapessero chi sono, e volevo poterci parlare come parlo ai miei amici, quando racconto questa storiella davanti a una birra.
In Facile dici “A volte non cedere alla tentazione significa vivere di rimpianti”. Tu ne hai, di rimpianti?
No, più che altro ho qualche problema con le tentazioni a cui cedo (ride). Il mio vuole essere un consiglio, ed è mirato: in quest’album ci sono tracce che sono rivolte a persone specifiche, che so per certo lo ascolteranno e si riconosceranno. Diciamo che è come se stessi rispondendo ad alcune domande che mi sono state poste, magari anche parecchio tempo fa. Come quando a fine serata ti ritrovi parcheggiato sotto casa in macchina a fare discorsi sul senso della vita.
A proposito di senso della vita, Loyalty si chiude con una delle tue tracce più belle, Il peso dell’anima, un brano super epico ed evocativo. Com’è nato?
Uno dei miei artisti preferiti è Kanye West; non per una questione di hype momentaneo, lo è sempre stato. I suoi album sono un’esplosione di idee, da quel punto di vista. Ho sempre cercato di seguire le sue orme, dal punto di vista della sperimentazione sulle sonorità. Quando ho sentito il beat di Il peso dell’anima, mi sembrava una marcia che mi accompagnava verso una battaglia da vincere: mi ricordava roba tipo gli Oasis o Moby, di cui sono super fan. Ero solo in studio e continuavo a canticchiare una linea melodica – quella del ritornello – pensando che avrei potuto rifarla con una chitarra, ma alla fine l’ho tenuta così, con la mia voce. Sentivo che stavo per creare qualcosa che non avevo mai fatto prima. Ci ho messo l’anima, letteralmente e in senso figurato: la barra “Sputala fuori” si riferisce proprio a quello. Dovevo sputare fuori il peso di tutto ciò che avevo dentro. All’inizio avevo un po’ il timore che piacesse solo a me, ma quando l’ho fatta ascoltare ai miei producer sono impazziti. Eravamo gasatissimi! (ride)
Ora che l’album sta per uscire e tutti lo ascolteranno, sei più emozionato o più teso?
Molto emozionato. L’ho fatto con e per i miei amici, e vedo che ci sono persone che lo aspettano da tanto. Non vedo l’ora di dimostrare qualcosa a tutti: è un momento magico, per me. Me lo voglio godere appieno, anche se sto lavorando talmente tanto che mi sembra di non averne il tempo.