House of Mucci
Con ‘A casa tutti bene – La serie’, Gabriele Muccino porta in tv il suo linguaggio, il suo (modo di stare al) mondo, le sue nevrosi. Quelle che lui stesso ha risolto esorcizzandole sullo schermo. E che restano il «motore incandescente» che guida le sue storie. Una lunga chiacchierata tra cinema e vita, ovviamente senza filtri. Perché come lui nessuno mai
Foto: Joseph Cardo
«È un periodo molto intenso, ma sono euforizzato da tutto questo magma di cose che sto facendo contemporaneamente. Ho dovuto missare la serie, e consegnarla, e far uscire il libro, e ora parte la promozione della serie che si confonde con quella del libro… Non ho un giorno libero per me, ma va bene così. Oggi dovevo andare a cena con Sabrina Impacciatore ma me n’ero dimenticato, mi ha appena scritto “Stasera allora confermato?” e non ho il coraggio di dirle che non ce la faccio, mi sento una cacca, le avevo detto “Sicuro la settimana prossima sono più tranquillo”, e invece…». Con Gabriele Muccino è sempre così, si viene subito risucchiati dentro le parole e le cose. Ed entrare a casa Muccino – per questa lunga intervista su Zoom, per le foto che vedete qui, per qualsiasi suo film (ora pure serie) che da una casa parte sempre, o quasi – fa lo stesso effetto. È come una mano che ti afferra e allora si va, si corre (meglio se in piano sequenza), si balla anche, si cade, e se non ci si rialza meglio ancora. A casa tutti bene – La serie (dal 20 dicembre su Sky Serie e in streaming su NOW) è uguale. È lo spin-off, ma anche il prequel, ma anche il reboot di quella delizia affilatissima uscita al cinema tre anni fa. C’è sempre la famiglia Ristuccia, stavolta non più sull’isola ma nel ristorante che gestisce a Roma. E ci sono tutte le tensioni possibili dai capifamiglia (Francesco Acquaroli e Laura Morante) in giù, figli, zii, cugini, allargamenti vari e male assortiti, pure loro sempre in movimento, e sì – anticipo le vostre battutine – sempre urlando molto. (Ma basta con ’sta storia che nei film di Muccino urlano troppo: non è che siamo noi, nella vita, a farlo troppo poco anche quando si dovrebbe?) Pure Muccino è sempre in movimento. Su sfondo di consueta libreria – si vedono grossi volumi su Fellini, sui Beatles, sugli Oscar: il cinema italiano, la cultura pop, Hollywood, praticamente una sintesi di quel che è lui – mette la felpa, toglie la felpa, beve acqua a litri, soprattutto gioca molto con una clessidra, che tornerà nel corso della nostra chiacchierata: un caso? Non credo.
Partiamo dall’intensità che dicevi, e che mi pare il sentimento con cui vivi tutte le cose, pure il lavoro. E visto che nel lavoro ti ci butti sempre visceralmente, la prima domanda è: chi te l’ha fatto fare di girare una serie, che – credo io – quell’intensità la moltiplica per cento?
La prima risposta sta nell’horror vacui, nella botta clamorosa che ho avuto perché Gli anni più belli era in sala da due settimane quando le sale le hanno chiuse. Ed era il film della mia vita, era venuto anche bene, parecchio secondo me… Manco a dire: cazzo, era un film demmerda, è andata così. Era arrivato davvero dopo tutta una vita, era il film che avevo portato a Harvey Weinstein, si stava per fare con Nicole Kidman, ha avuto una genesi assurda. Il fatto che la sua uscita abbia coinciso con questo momento storico unico mi ha dato un senso di fragilità pazzesca. E qui arriva la seconda risposta: la serie l’avevo sviluppata già da tempo, era nata mentre giravo A casa tutti bene il film. E quel film fu un set magico, perché c’erano 19 star che segnavano il mio ritorno in Italia, mi accoglievano con una sorta di celebrazione laddove io venivo da un bel po’ di macerie: gli ultimi anni americani furono difficilissimi, li ricordo come un incubo veramente profondo.
Leviamoci subito il capitolo Hollywood.
Partenza più alta di così era impossibile immaginarla, con la Columbia, con Will Smith, e il box office, le critiche, la nomination all’Oscar… Son partito talmente in alto che poi il resto ha prodotto una confusione dello spirito molto forte. Ma non tanto per il quarto film – quello con Russell Crowe (Padri e figlie, 2015, nda) – che ebbe altri problemi e non di gestione, perché con Russell mi son trovato molto bene; se mai, stavano più nelle sollecitazioni dei produttori per far piangere gli spettatori a tutti i costi, e quindi nella sceneggiatura un po’ troppo mélo, nelle musiche che non erano proprio autentiche… La confusione, l’ho sempre detto, veniva dal film che mi aveva davvero devastato, quello antecedente con Gerard Butler (Quello che so sull’amore, 2012, nda), per me è stato come andare in Vietnam. Non finiva mai, me l’hanno fatto girare quattro volte, Gerard era un essere insopportabile, contestava ogni mia scelta registica ed era spalleggiato dai produttori, che quindi arrivavano come un esercito a proteggere questo che peraltro era un attorino in confronto a Russell e a Will. Il più sfigato è stato il più velenoso. In tutto ciò, per una congiunzione assurda, proprio in quel momento il sistema Hollywood stava entrando in crisi, arrivavano le piattaforme e non sapevano più che cazzo fare, le persone saltavano, fino al giorno prima pensavi fossero un riferimento e poi, prendi Amy Pascal (presidente della Columbia Pictures fino al 2015, nda), non c’erano più. E io all’improvviso mi sono sentito solo, spaventato dall’idea di non avere più una collocazione come regista. Col fare film non scritti da me mi era andata bene due volte (La ricerca della felicità e Sette anime, nda), ma a un certo punto questo mettersi al servizio di una storia non tua ti toglie quella che per me è la funzione fondamentale del cinema, e cioè la possibilità di esistere attraverso i film che faccio, di risolvermi i miei cazzi, quelli veri, quelli pesanti, quelli che vengono dall’infanzia, da un’adolescenza labirintica in cui non sapevo bene che identità avessi… Raccontare chi ero attraverso i film, mescolando magicamente un po’ le carte, mi ha risolto problemi anche grossi, mi ha fatto prendere confidenza in me stesso. Ero figlio di una famiglia particolare, mio padre era severissimo nel disincantarmi dall’idea di fare cinema, quindi avevo poca fiducia in me stesso ma testardaggine, ambizione e forza di volontà inaffondabili, per cui ho lottato contro tutto e tutti – anche contro me stesso – per dimostrarmi che valessi qualcosa. E poi è arrivato Come te nessuno mai, e L’ultimo bacio, che mi ha travolto non facendomi più capire tanto bene quale fosse il mio limite tra vita privata e vita pubblica. E quello è stato un altro elemento fuori dagli schemi che mi ero prefigurato di rappresentare: io volevo fare cinema, non essere un personaggio pubblico, essere un personaggio pubblico implica un sacco di distorsioni della tua realtà.
E veniamo a A casa tutti bene, il film ma anche la serie: era la storia migliore per tornare a raccontare te stesso – e non è una domanda.
In realtà venivo, lo sai, dall’Estate addosso, che era un film dichiaratamente piccolissimo, e anche molto esile, ma che mi serviva come ponte levatoio per scappare dall’America. Avevo bisogno di un film piccolo che giustificasse il fatto che ancora lavoravo, e intanto però iniziavo a staccare la spina: sentivo che il mio tempo lì era finito, che la clessidra aveva finito i suoi granelli. Per cui feci L’estate addosso proprio perché pensavo che un film così semplice, privo di grandi conflitti, mi avrebbe aiutato a ritrovarmi, cosa che un po’ fece. E poi in dieci secondi ho avuto questa folgorazione, la maggior parte dei miei film è nata veramente nel giro di dieci secondi: è stato così con L’ultimo bacio, e con Ricordati di me, e con A casa tutti bene sicuramente. Andai al pranzo per le nozze d’oro dei miei genitori, che avevo visto molto poco perché stavo in America da dodici anni, e nel frattempo c’erano state delle fratture famigliari anche pubbliche e fortissime, per cui mancava un elemento a quella tavolata, mancava mio fratello, che aveva smesso i rapporti con tutti quanti. Per cui c’era un morto a tavola, e poi però tutti i cugini, i nipoti, gli zii, mia sorella, un gran pastrugno di parenti che esemplificavano quanto, nonostante tutto, ci somigliassimo, quanto il legame di sangue non fosse una banalità. C’era qualcosa che mi legava a loro, ma che mi faceva sentire anche molto estraneo. E soprattutto sentivo che la soglia di tolleranza della maschera che ti metti quando vai a queste cerimonie collettive di famiglia ha un timer. Per quattro, cinque ore riesci a tenere quella maschera che ti sei messo tu, o che forse ti hanno messo loro e che tu hai indossato per tutta la vita. Poi, quando vai a casa, la maschera cade, e allora ho pensato: cosa succederebbe se invece restassi bloccato con questa famiglia per un tot numero di giorni in un posto da cui non posso andare via? Quella caduta delle maschere avverrebbe per forza, e quindi verrebbe meno il mantenimento del gioco delle parti, e vedremmo il disvelamento delle miserie umane. Perché in ogni famiglia ci sono disfunzioni che hanno radici a volte talmente lontane per cui non si è più in controllo. Queste due cose messe insieme mi hanno fatto tornare a casa dicendo: c’ho il film.
Il film però era tutto su un’isola, la mossa intelligente che fa la serie è riportare i personaggi nella città, nella loro dimensione di vita quotidiana: e dunque il “luogo” che li blocca, che li imprigiona, diventa la famiglia stessa.
Già nel film c’era questo fantomatico ristorante romano in cui due dei tre fratelli lavoravano. Non ho fatto altro che trovare quel ristorante, e farlo quindi diventare il centro di aggregazione e anche di disintegrazione di tutte le forze famigliari: quelle che hanno bisogno di questo ristorante, quelle che lo rinnegano, o che lo hanno subìto nel tempo perché è stato foriero di accadimenti traumatici o persino funesti. Il ristorante è l’oggetto del benessere ma anche dell’infelicità della parte benestante della famiglia, e invece per quelli più indigenti è tutto quello che la vita non gli ha dato, quindi c’è il rancore, e il risentimento, e la voglia di riscatto. La prima pedina a cadere mette in moto un effetto domino micidiale. Tutto quello che vediamo accade perché il cugino perde quei 50mila euro a poker: quest’idea strutturale mi sembrava molto interessante, molto forte, perché è ciò che sancisce quanto i legami di sangue e la famiglia esistano nonostante noi possiamo far finta che non sia così. Ma prima o poi arriva il momento della resa dei conti, e quel filo che lega tutti diventa una prigione, un limite esistenziale fortissimo, tanto da portarsi dietro tutti quanti, come in un tiro alla fune. E lì si iniziano ad aprire delle porte che sarebbero forse rimaste chiuse per sempre, e si aprono un po’ secondo la struttura di Sette anime, dove lo svelamento di una morte accidentale veniva distribuito durante l’arco del racconto attraverso piccolissimi frammenti di flashback. Nella struttura di questa serie c’è lo stesso criterio.
È, quindi, un po’ la sintesi fra le tue storie italiane e la lezione americana?
Forse sì, io sono tutto quello che ho vissuto, anche inconsapevolmente. Come diceva Fellini, il prodotto dell’ostrica è la perla, io produco tutto quello che ho immagazzinato a livello anche inconscio, tante cose sono dentro di me e non so bene perché ci siano finite.
Da regista di star – alcune anche fabbricate da te – quale sei diventato, che effetto fa avere un cast di volti in alcuni casi anche noti, ma per la maggior parte piuttosto nuovi, certamente per te?
Mi dà una spinta vitale molto bella, hai a che fare di nuovo con quell’incanto, quell’assoluto, quella voglia di misurarsi con questo mestiere, di darsi letteralmente al regista. Non che non avvenga con Favino, e Accorsi, e Micaela Ramazzotti, e Santamaria, e Pasotti, perché con loro è lo stesso, anzi ci sta in più un legame proprio di conoscenza talmente lontano… Ma ci sono tante stratificazioni che ognuno di loro si porta dietro per le cose che ha fatto, e per quelle che non ha fatto. E per il successo, che comunque sposta sempre un pochino l’asse terrestre, ti fa osservare le cose da un punto di vista che diventa un po’ deviato. Pure se te lo vivi in maniera non avvelenante, come invece è successo a me.
Di questo veleno hai detto spesso.
Sono stato avvelenato dal successo, senz’altro, ma non modificato, il successo non ha cambiato il mio sguardo sul mondo, cosa che invece capita molto frequentemente, perché il successo ti disorienta. E allora avere tra le mani tanti attori che il grande successo ancora non l’hanno raggiunto, quello mi stimolava molto. Anche perché alla base c’era la paura di non trovarli, questi attori, di non trovare un cast che fosse all’altezza dell’originale, pur non volendo scimmiottare il film. Però volevo attori di grande talento, perché da me è richiesto fortemente: non faccio film di genere in cui basta sparare e te la cavi, devi mettere in moto tutta la tua esistenza perché quelle relazioni umane siano vita e non simulazione di vita. Il talento è un meccanismo del motore che fa partire o meno la macchina, e perché un film – o una serie – funzioni ha bisogno che queste auto vadano, e non perdano strada nelle curve, non perdano olio, che siano letteralmente macchine da guerra. Il talento è una forma indecifrabile che ti permette di andare in guerra e di vincerla.
Una volta per tutte: ’sta cosa che Muccino farebbe recitare anche i sassi – ed è vero – come avviene, come si produce?
In questo caso, anche grazie a un nuovo, bravissimo casting director (Antonio Rotundi, nda), che non conoscevo e che ho scelto dopo averne incontrati vari perché epidermicamente mi sembrava quello più sensibile. E anche grazie a lui il cast si è composto in alcuni casi splendidamente, in quelli peraltro più difficili. Per esempio, per il personaggio, molto complesso, di Riccardino, che nel film era di Gimbo Tognazzi, ha trovato questo ragazzo (Alessio Moneta, nda) con una faccia normalissima che a un certo punto però diventa maschera della tragedia e della comicità insieme. Lui l’ho visto e letteralmente non ho più incontrato nessun altro per quel ruolo, e così è andata anche con Silvia D’Amico (nella serie Sara, nda) e Laura Adriani, che ha il ruolo di Ginevra, pensato nel film proprio per Carolina Crescentini, dunque era un altro dei casi difficili. In generale, con tutti gli attori faccio tantissimi provini, e tantissimi provini incrociati tra loro, perché per me è fondamentale capire, attraverso questi provini che sono come i raggi X per un attore, quanto riescono a tirare fuori la loro indole e quanto invece la tengono compressa, quanto controllo riescono a esercitare su loro stessi nonostante lo stress che provoco in loro proprio perché perdano il controllo: quando perdi il controllo, a un certo punto vai solo col movimento delle emozioni; se invece le emozioni le controlli in modo metodico, attoriale, sei sempre un po’ plastico, un po’ meccanico, non sei mai in preda a un vero furore, che sia amore, che sia rancore, che sia avidità. Io cerco una forma di furore assoluta, un abbandono totale, per me sono quelli i linguaggi primari della vita. È per arrivare a questo che chiedo molto ai miei attori.
E poi sono sempre tutti in scena insieme: anche quello è un elemento cruciale, nelle fondamenta che reggono la casa di Muccino.
Avendo girato spesso film corali, sottovalutavo quanto fosse complicato farli (ride, nda), e soprattutto in forma seriale: lavori quattro mesi invece che otto settimane, la pressione che ho avuto è stata altissima. Prima hai iniziato dicendomi “Ma chi te l’ha fatto fare?”: secondo me il fatto che per un momento ho avuto davvero paura. A quale film avrei potuto pensare in quei mesi bui di lockdown, dopo che il mio ultimo film aveva avuto quella sorte infausta? Cioè parzialmente infausta, dài, non ha fatto il milione e mezzo di spettatori previsti, ma comunque ne ha fatti 900mila…
Ma infatti, guarda il lato positivo: potrai comunque dire che è stato l’ultimo successo italiano nelle sale prima del Covid.
È la fine di un’era, forse. Oggi nessuno sa come funzionerà il meccanismo delle sale, è uno dei più grossi enigmi. Finché ci saranno le mascherine le sale non riusciranno ad essere fruite come prima, vai al ristorante proprio perché te le puoi togliere. Perché devi andare al cinema se poi respiri male, se hai ancora quel senso di sofferenza anche psicologica? E quindi, forse anche per questo, mi sono buttato sulla serie, e all’inizio avrei dovuto fare due episodi e basta, solo che mi sono scontrato facilmente con l’impossibilità di delegare a un altro regista un linguaggio così personale. La serie la faccio se la posso fare a modo mio, mi sono detto, girare una serie con una grammatica convenzionale mi avrebbe annoiato terribilmente. La bellezza era portare il mio cinema in televisione con quello stesso linguaggio così personale, così mio. Ma non per vezzo compiaciuto, proprio perché è il mio modo di raccontare certe relazioni. Se non ci sono personaggi nevrotici che fanno da motori incandescenti, io so diventare anche molto classico: prendi La ricerca della felicità, che ha un linguaggio molto classico perché non c’è nevrosi; c’è sofferenza, sì, ma non nevrosi. Ma spesso i miei film hanno come motore le nevrosi di personaggi che sono inquieti, che hanno paura di perdere tempo, di perdere la vita, quella vita che letteralmente gli sfugge via di mano. Hanno questa pulsione febbrile che li porta a reagire a volte impulsivamente, a volte irrazionalmente, e quindi a provocare continui incidenti ferroviari.
L’altra cosa che ti hanno riconosciuto poco è la dimensione politica del tuo cinema, e intendo di percezione di quel che accade socialmente, no: antropologicamente. Direi che possiamo dare ormai per assodato che Ricordati di me è un film sui social prima dei social.
Se l’avessi saputo, guarda…
A casa tutti bene, il film e ancora di più la serie, mi sembra invece il racconto della nostra implosione: quello che c’è fuori – la politica, ma qualsiasi altra cosa – è scomparso, restiamo solo noi, accartocciati su noi stessi.
Vedo, nel mondo di oggi, tanta sofferenza, e l’incapacità diffusa di metterci alla guida delle nostre vite. Il denominatore comune è che nessuno è in controllo del proprio destino, a partire dalle generazioni più adulte.
Tornando all’avvelenamento di prima, e con la spudoratezza che contraddistingue anche te, ti chiedo: hai fatto una serie anche per la delusione procurata dai mancati premi al tuo cinema?
Non faccio mai le cose per dimostrare agli altri di essere bravo. Per molti anni mi è dispiaciuto venir giudicato non candidabile per scendere in campo e giocare. Mi è proprio dispiaciuta la mancanza di nomination al David di Donatello, il nostro premio ancora oggi più ambito, e che è stato ambitissimo negli anni ’50 e ’60. In quegli anni erano tanti i registi italiani che vincevano l’Oscar, sono avvenute cose mirabolanti, il nostro cinema si posizionava come il secondo più importante al mondo. Quando sono andato la prima volta alla Columbia per fare La ricerca della felicità, la cosa che mi colpì di più è che c’era questa bacheca molto grande piena di Oscar per film come Lawrence d’Arabia, e poi un’altra tutta di David, non c’erano Palme, Orsi o Bafta, solo una trentina almeno di David. Il che mi fece capire quanto il nostro cinema avesse davvero indicato la rotta, cosa che racconta Scorsese appena può, e che dice ovviamente anche Tarantino, riferendosi a un altro tipo di cinema. Abbiamo fatto delle cose che gli altri hanno solamente guardato con ingordigia, compresi i francesi. E poi a un certo punto ci siamo autoinflitti questa morte ideologica senza senso, ho fatto spesso anche i nomi dei colpevoli creandomi altri nemici. Gli anni ’70 in Italia sono stati la morte del rapporto tra cineasti e pubblico, mentre dall’altra parte c’era il cinema americano che sfornava capolavori a cui io stesso ho attinto e ancora attingo. Quello che mi ha dato Ladri di biciclette, o Umberto D., o Una giornata particolare, o Una vita difficile me l’hanno dato anche Un uomo da marciapiede, Kramer contro Kramer, Io e Annie, Manhattan, c’è molto Woody Allen nella mia formazione, perché era un po’ il Truffaut americano, raccontava le piccole cose e in un modo che tra l’altro, proprio come in Truffaut, era profondamente legato a un linguaggio cinematografico che si differenziava a seconda della storia che sceglieva.
I nomi e i cognomi, penso quest’anno ai Fratelli D’Innocenzo, li fai sempre, crei dibattito, ti butti nella mischia, e in questo sei davvero spregiudicato, alla maniera dei “match” di Arbasino che non vanno più di moda: ora hanno tutti paura ad esporsi, specie nel tuo mondo. Solo che sei sempre solo.
C’è tanto bisogno di vitalità reattiva, di scontro, di confronto, di dialogo, di riflessione, tutte cose che mancano. C’è un pallore che è rimasto lo stesso di quando sono cresciuto io sognando di fare cinema, e attorno c’era già questo paesaggio apocalittico. A parte La famiglia, e C’era una volta in America, e Nuovo Cinema Paradiso, io posso dire che il cinema italiano degli anni ’80 non ha null’altro che sia memorabile (ride, nda). Solo tre film, quando prima ne sfornavano a decine, nel ’61 ci saranno stati almeno trenta film importantissimi.
Del cinema italiano anni ’80 continui a non salvare nemmeno Nanni Moretti.
Nanni Moretti… Nanni Moretti… Nanni Moretti… (lo ripete tre volte, nda)… Che dire? Mi emozionò molto quando fece La stanza del figlio, ma resta totalmente antitetico rispetto al cinema che amo. È che a lui piace così, gli è piaciuto distruggere i grandi maestri, ne fece la sua battaglia. E ognuno è sacrosantamente legittimato a combattere quelli che ritiene colpevoli di aver equivocato quello che secondo lui è il cinema. Secondo Moretti i colpevoli erano Monicelli e gli altri, per me La grande guerra è un film che sta al livello di Orizzonti di gloria di Kubrick.
Chi sono i “mucciniani” oggi?
Ci sono alcuni che sono un po’ nati sotto il cinema che ho fatto io, ma non sono strutturati. C’è solo l’aspetto estetico più superficiale, cose molto piccole, frivole, non sono riusciti a portare avanti un’idea di cinema, un linguaggio. Perché la mia idea di cinema non nasceva così tanto per, nasceva pensando ai grandissimi maestri, cosa che loro non fanno, evidentemente sono proprio le fonti acquifere che sono diverse. È come raccogliere l’acqua con un cucchiaino: non riuscirai mai a riempire un serbatoio come quello che ho riempito io. Ma io l’ho fatto attingendo a fonti importanti, a un cinema anche molto lontano da me generazionalmente.
Le tue nevrosi oggi sono pacificate, o per fare il cinema che fai tu vanno continuamente alimentate?
Molte delle nevrosi che io racconto sono quelle che ho risolto. La famiglia per me è stata terreno di grandissime delusioni, di vuoti affettivi, se oggi faccio un bilancio ci metto il meno davanti, è un bilancio innegabilmente triste. Ho risolto quella forte necessità di avvicinarmi alla mia famiglia riproducendo i meccanismi insani di un’intera vita dentro i film, film su persone che non stanno bene e che, quando stanno insieme, riproducono quei meccanismi nevrotici e insalubri che sono quelli a loro più familiari. È una cosa che ho elaborato freudianamente drammatizzando quei meccanismi, come se andassi in una seduta di analisi, come faceva Shakespeare, che metteva davanti agli occhi del pubblico Amleto e quel dramma lo esorcizzava, lo rendeva distante, accettabile, decodificabile. È quello che faccio io con i film, ma l’ho fatto per vocazione, non per incidente. Ho deciso di fare il regista a diciott’anni perché non riuscivo a parlare, balbettavo troppo, non venivo ascoltato, le persone a cui volevo comunicare chi fossi si distraevano. Siccome ero un cinefilo senza saperlo, vedevo film tutti i giorni al Cinema Labirinto sotto casa, e tutti i giorni mi nutrivo moltissimo di cinema, pensando che in realtà avrei fatto il veterinario. A un certo punto, grazie a una recita scolastica in cui facevo l’attore, sentii che il mio modo di comunicare non era quello di mettere fisicamente me stesso al centro dell’arena, ma di far parlare al posto mio personaggi incaricati di portare il mio pensiero e il mio sguardo sul mondo. Il mio modo di stare al mondo. Che è anche nevrotico, e impulsivo, e impetuoso. Come i miei film. I miei film mi assomigliano molto.
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Foto: Joseph Cardo
Total Look: Giorgio Armani
RS Producer: Maria Rosaria Cautilli