Primi di gennaio, interno giorno. In un orario imprecisato dello smaltimento gastrico post-prandiale, qualcuno (difficile essere più precisi in questi dì di festa) ti dice che Ficarra e Picone hanno fatto la loro prima serie tv: Incastrati (dal 1°gennaio su Netflix). «Capirai», nicchi. «Sì, ma è su Netflix ed è un crime», insistono. E lì, in quella astrusa associazione tra corpi estranei (Ficarra e Picone + Netflix + crime), la tua mente resta – lei sì – incastrata regalandoti una malsana fantasia futurista. Ti convinci che vedrai, che so, una Gomorra della risata o Il Padrino in versione LOL: qualcosa di assolutamente spassoso, originale, che destrutturi il genere giallo aprendo nuove frontiere narrative. Invece il debutto seriale di Ficarra e Picone non è, né più né meno, che quello che hanno fatto sempre: una commedia leggera leggera, pulita, che replica la rodata formula dei loro film.
In Incastrati Ficarra e Picone interpretano infatti due tecnici della televisione, che oltre a essere colleghi sono pure amici e parenti: Salvo ha sposato la sorella di Valentino, Ester (Anna Favella). Quest’ultimo invece vive ancora con la mamma: un’ex insegnante di scuola che tende a bocciare tutti i pretendenti dei loro figli, in primis il cognato Salvo. I due trascorrono le giornate tra un intervento tecnico e l’altro e, nel tragitto, Salvo si ostina ad aggiornare il disinteressato Valentino sugli sviluppi della serie tv The Touch of the Killer: un crime lunghissimo, giunto all’ottava stagione. E indovinate cosa succede? I due si ritrovano incastrati in un vero crimine, dopo che in un appartamento trovano un cadavere, fresco di ammazzatina (per dirla alla Montalbano): è l’uomo che li aveva chiamati per riparare la tv. Ecco, su per giù questa è la trama la cui declinazione si svolge all’insegna della commedia degli equivoci: insomma, tanti cari saluti al mio sogno proibito di vedere una Gomorra della risata. D’altronde era solo un mio desiderio, peraltro frutto delle maratone culinarie festive, mica quello di Netflix la cui mission sembra guardare nella direzione opposta: sfruttare Ficarra, Picone e tutto l’immaginario che si portano dietro per realizzare un prodotto largo, in grado di attrarre il pubblico generalista nel Regno dello Streaming.
Da un po’, infatti, Netflix ha deciso di scommettere non solo sugli eccessi alla Baby (che, però, cavolo se era originale…) per correre e primeggiare anche sullo stesso terreno della tv generalista. Qualche bel gol lo ha messo a segno, come con il teen drama Summertime, il guilty pleasure Guida astronomica per cuori infranti e… spiacenti, onestamente non ci sovviene altro di epocale. La vera domanda quindi non è se Incastrati sia una buona serie tv ma se sia davvero la serie giusta per Netflix. Perché mai il pubblico generalista dovrebbe migrare sulla piattaforma per vedere prodotti che, sotto altri titoli e con altri interpreti, sono più o meno analoghi? Il guizzo, la rottura degli schemi, la sperimentazione spinta non premierebbero invece di più? Per dire, un sacco di gente ha dato una sbirciatina a Squid Game, non foss’altro che per non rimanere esclusa dai dibattiti sociali che esulano dai vaccini. Ora, non voglio certo sostenere che dovremmo scodellare uno squid Game all’italiana (sono una sognatrice, ok, ma fino a un certo punto) ma semplicemente faccio notare che il coraggio narrativo paga, sia in piccole che in grandi dosi.
L’impressione invece è che Incastrati sia un compitino ben eseguito: sta nella tradizione dei due comici siciliani, non fa concessioni alla volgarità o al cinismo, schiera buoni attori (uno su tutti, Domenico Centamore aka il Piccionello di Makari) e non ci ruba nemmeno troppo tempo esistenziale perché gli episodi sono sei, ognuno sotto la mezz’ora. Però nulla di più. La comicità è tra l’altro molto soggettiva: per dire, se non ami l’ironia dei due comici siciliani rischi di annoiarti discretamente guardando Incastrati. Il ritmo narrativo non è esattamente adrenalinico. A rallentare è la stessa commistione tra i generi: i classici equivoci possono assurgere a svolta narrativa (godibile) in una commedia; in un crime, che vive di colpi di scena, no, pena la previdibilità.
Infine, concedetemi una riflessione sul finale. Senza fare spoiler, la storia non chiude, i conti non tornano e l’incongruenza che era ovvia fin dall’inizio viene promossa a grande enigma da risolvere nella prossima stagione. Forse è l’ennesima ironia sul mondo di Netflix: per tutto il tempo, Ficarra e Picone canzonano in modo bonario ma on point la piattaforma, snocciolando battute sulle serie tv e i malati di binge watching. Il “non finale” potrebbe dunque inquadrarsi come una provocazione comica per denunciare la lunghezza mostruosa delle serie tv che giocano a tenerci sul filo del rasoio per millenni. Inoltre è sempre utile tenersi aperta una porticina per eventuali rinnovi. Peccato che qui si tratti di un portone spalancato per tir e autocarri. Il problema è che il finale aperto funziona poco nei gialli: se realizzi un drama o una comedy, puoi rifugiarti nella paraculissima spiegazione in stile “non vogliamo dare risposte, lasciamo che sia lo spettatore a decidere il finale della storia”, ma se fai un crime tale alibi non regge. Ficarra e Picone vogliono insomma incastrare il pubblico. Soprattutto quello generalista. Chissà se ci riusciranno…