In Amori moderni del 1907, il premio Nobel Grazia Deledda diceva che il silenzio «è la quiete atavica di tanta parte del paesaggio, è il senso di malinconia e di inquietudine che pervade la natura e gli esseri umani nello scorrere lento delle stagioni e del tempo, è la solitudine e l’oscurità che avvolge vicende e destini ma è anche profondo senso di pace interiore». In Antidawn di Burial esistono tutte queste cifre – insieme – ed esiste una simile esigenza di amplificare il senso di distanza dal reale, che solo il vuoto di parole e di rumore può raccontare. L’EP segna un allontanamento piuttosto deciso dal suono di Chemz / Dolphinz e Shock Power of Love (in combutta con Blackdown) della scorsa primavera e in buona parte anche all’ultimo vero e proprio LP Tunes 2011-2019, aggregatore dei suoi mondi uscito alla fine del 2019. Ma a conti fatti mai, davvero, dalle idee che l’hanno fatto emergere negli ultimi quindici anni.
Sin dal debutto con Burial nel 2006, il mondo dell’enigmatico musicista e produttore del sud di Londra (vero nome William Emmanuel Bevan) ha seguito una narrativa che in poco tempo ha attratto critica, letteratura post moderna (leggasi Mark Fisher) e adepti della nuova cultura rave (o di ciò che ne era rimasto), vagando per un’insolita terra di mezzo fatta di spettrali campioni vocali, sample difficilmente riconoscibili e crepitii di vinile. La sua malinconica futuribilità aveva reso Untrue un caposaldo degli anni ’10 che ci faceva vedere il futuro svanire mentre lo ascoltavamo.
Nonostante a primo acchito sembri complesso trovare una semplice chiave di lettura di Antidawn – ancora una volta (e come sempre) pubblicato sulla britannica Hyperdub dell’amico Kode9 – nei suoi lunghi e riflessivi spazi (in una durata di fatto da album, concentrata in oltre 43 minuti) l’EP rappresenta una sintesi dell’estetica di Burial, esaltando una sempreverde visione less is more della scrittura. Ovvero, a conti fatti, l’opposto di una musica contemporanea che vuole fin troppo da sé stessa, finendo per risultare in alcuni casi artificiosa.
Strange Neighbourhood è l’ambientazione perfetta per la ricerca di un abbraccio che sembra non arrivare, disperso nella nebbia notturna e nel buio dei pensieri. La title track alimenta l’insicurezza, spostando l’accento sulla ricerca di un posto in cui rifugiarsi, che Shadow Paradise sembra incarnare ancora meglio (“Lascia che ti abbracci per un po’ / Nel buio della notte”), dove c’è qualcuno a cui far conoscere intimorite consolazioni: “Ti ho trovato lì / Camminando verso il nulla”. È la parte più densa, quella centrale: non è ambient, non è davvero musica (troppo) sperimentale, non è elettronica, ma è in parte tutte queste cose. E prima del congedo dalla realtà spettrale che ci si presenta in Upstairs Flat, quasi esclusivamente tra soundscape e sottrazioni ancora più nette, New Love sembra chiudere il cerchio con un’insistente nenia per un nuovo (o immaginario?) amore a cui aggrapparsi, nel nulla attorno.
Non ci sono che introspezione, paura e solitudine: niente è affrettato e ogni secondo è speso per guardare sempre più vicino ciascun dettaglio, tra l’immancabile crepitio di vinile e il gelo di voci stregate. Insomma, più che il futuro a questo giro Bevan evoca qualcosa di molto vicino alla cronaca dell’immediato. Nel gelido buio in cui voci sussurrano non c’è luogo adatto per nascondersi (“nowhere to go”), la luce è fioca e non c’è consolazione. Burial ci racconta la stasi delle possibilità, anche fosse un sinistro vocal ritoccato al sequencer a confermarcelo (“no place left to go”). Al di là di ogni cervelloticità con cui si cercherà di trovargli una cornice, mai come in questo caso siamo di fronte alla sua trasposizione della vita qui e ora, in una descrizione di un paesaggio invernale dove sembra non sia rimasta traccia d’umanità e in cui Burial è intento a vagare in cerca di salvezza da un mondo svuotato di anime.
E poi c’è una similitudine (cercata? casuale?) con il racconto del vuoto e della paura setacciato da videogame e letteratura fantascientifica alla fine dello scorso secolo. Nel primo Silent Hill uscito per PlayStation nel 1999, Harry Mason si muove per punti di salvataggio rappresentati da taccuini, in cui lascerà le sue tracce mentre si trova alla disperata ricerca della propria figlia adottiva, per le strade di una sinistra città-fantasma: «Un giorno, qualcuno potrebbe sperimentare questi eventi bizzarri. Spero possa trovare utili i miei appunti», recitava la ricorrente scritta in sovraimpressione. Si tratta di una citazione di David Drayton, protagonista del romanzo di Stephen King La nebbia a cui il gioco era dichiaratamente ispirato. Curiosamente, Silent Hill prevedeva cinque diversi finali di gioco, a seconda delle scelte compiute e delle azioni intraprese dal protagonista. Cinque, così come le tracce – e chissà, i finali alternativi – di Antidawn.
Burial gioca da sempre a scacchi con la dimensione del tempo e in quest’occasione sembra voler assecondare il suo naturale e incerto decorso. Rimanendo fedele al suo percorso, ha scelto di fare evolvere la musica elettronica attraverso una lunga conversazione con spettri che non arrivano più dal passato e che non sono un miraggio del futuro: come nel capolavoro della Deledda, sono il racconto di uno sgomento e concitato presente.