Rettore sta per tornare a Sanremo con Ditonellapiaga, sarà in gara per la quinta volta, a distanza di 28 anni dall’ultima. La raggiungo per farmi raccontare un po’ di questo ritorno a partire dalla sua grandiosa storia di cantautrice e performer fedele a sé stessa, alle Lamette come al sentimento, al rischio come alla passione e a un sodalizio amoroso e artistico lungo quasi mezzo secolo. Iniziamo a parlare e stiamo già ridendo, mentre penso se chiamarla soltanto Miss Rettore, se certe pubbliche richieste valgano decenni, se il nome proprio vada eliminato anche da qui, lei mi legge nel pensiero e mi chiede solo di darle del tu.
Come stai? Sei pronta?
Sono stanchissima, è da ottobre che facciamo su e giù e poi il Veneto è lontano da tutto, andare a Sanremo è come andare in Francia, la verità è che si arriva al Festival già fisicamente stanchi… ma sono felice di tornarci.
L’ultima volta per te, duetto dell’anno scorso a parte, è stata nel ’94. Con che spirito ci torni, dopo tutto questo tempo?
Già quando ci sono stata nel ’94 l’atmosfera era meno rissosa del solito, senza le malvagità tipiche di tutti gli ambienti ma che lì avevo sempre avvertito molto, nell’86 era insopportabile, tutti si parlavano attraverso i manager e c’era nell’aria una cattiveria allo stato puro che io non sopportavo, una specie di continua battaglia, competizione costante. Ora è cambiato il clima, tra gli artisti ci si parla, ci si confronta, ci si dicono cose semplici tipo «ci vediamo dopo», mi pare che siamo tutti più rilassati, forse è perché non si vendono più dischi, non lo so, ma Sanremo oggi è più felice di allora.
La tua prima volta è stata nel ’74, ci andasti da vera esordiente con la tua Capelli sciolti.
Avevo mandato tramite un tagliando un provino in cassettina per andare a Castrocaro, cantavo accompagnata al pianoforte una delle mie composizioni, la spedii a Ravera, che organizzava appunto il Festival di Castrocaro, che però quell’anno c’era già stato, un mese prima. Ravera la ascoltò e mi disse che cantavo bene ma che dal Veneto non veniva mai fuori nessuno – come ti dicevo poco fa il Veneto, e in generale il nord-est, sono un’isola, e a parte Milano è difficile raggiungere tutto. Lui comunque mi trovò una casa discografica, io stavo facendo la maturità e mi chiese se volevo andare a Sanremo: non avevo fatto nulla, non ero certamente pronta anche se avevo iniziato a cantare a 3 anni. Sentii un’altra esordiente prendere una nota altissima e pensai: ma che ci faccio qui? Lei era bravissma, ma poi comunque arrivò ultima.
Tu invece ci tornasti nel ’77 con un pezzo bellissimo, Carmela. Nella canzone si diceva che “Carmela regalava caramelle…” e tu una sera lanciasti caramelle sul pubblico, cose che si potevano fare nei pazzi Sanremo di fine anni ’70. Poi il pezzo finì nel tuo album omonimo.
Pensa che in streaming solo da pochissimo, a distanza di 45 anni, è uscito questo disco, le canzoni erano poesie scritte da un’adolescente, piene di pathos, all’epoca mi volevano far fare solo un 45 giri ma io piansi, insistetti molto, volevo fare l’album, lo feci con l’orchestra diretta da Natale Massara, era un disco con i più importanti musicisti di quegli anni, alla batteria c’era Tullio De Piscopo e c’erano tanti grandi che poi mi avrebbero accompagnata a lungo. Quel Sanremo era organizzato da Salvetti, lui mi disse che era importante che continuassi a studiare, di prenderla come un’avventura, io gli dissi che per me era una cosa seria, poi negli anni vinsi pure due dei suoi Festivalbar… lui mi ha sempre voluto bene e protetta, specialmente da me stessa.
Ne avevi bisogno?
Sì, sono stata una spericolata, purtroppo Vita spericolata l’ha scritta Vasco Rossi altrimenti avrei potuto scriverla io.
In cosa sei stata spericolata?
In tutto, ero una che si faceva male, io non ragionavo, come sai è anche una questione caratteriale, da sempre ho detto che se non si risica non si rosica, ho vissuto sempre così.
E oggi? Va ancora così?
Sì, se ci pensi anche nel fare questo Sanremo ora rischio, non sono né giovane, che se pure arrivo ultima mi va bene, né una come la Zanicchi che ha già vinto tutto ed è sostenuta e amatissima e quindi in qualche modo non ha nulla da perdere. Una volta un croupier del casinò di Sanremo amico di Elton John mi ha detto che il banco vince sempre, ha ragione. Io ho fatto una gavetta dolorosa, dura, la gavetta è sempre così, sei senza una lira, mangi quello che trovi, io mangiavo solo carboidrati perché costavano poco.
Quest’anno vai in coppia con Ditonellapiaga, si aggiunge una collaborazione nuova alla lunga lista dei tuoi duetti con artiste italiane e non, mi piace ricordarne due: il primo è quello con Caterina Caselli.
Ho fatto con lei una cover per un disco di natale della CGD, si tratta di Little Drummer Boy, che ha la sua versione famosa fatta da Bowie e Crosby, io avrei scelto Driving Home for Christmas o I’ll Be Home for Christmas, ma fu lo stesso bello. Io appunto sono sempre stata fan della Caselli, era un mito per me, l’ho sempre amata e cantata.
La cantavi quando eri nei Cobra? Che fa sorridere visto il tuo grande successo col brano quasi omonimo dell’80, ma è stata la tua prima band…
Sì, cantavo lei, Caterina Caselli, ma anche Patty Pravo, l’Equipe 84, i Rokes, tutto quello che andava di moda allora, era roba grandiosa, se ci penso adesso… “è la pioggia che va”, che pezzo fantastico!
L’altro duetto da ricordare è quello con Giuni Russo, con cui avete cantato la bellissima Adrenalina.
Sì, Adrenalina aveva qualcosa di vicino a Lamette, lei mi chiamò e mi chiese di ascoltare il brano per sapere se mi piacesse e se mi andasse di farlo insieme, io le dissi naturalmente di sì, aveva un testo bellissimo, è un pezzo adrenalinico davvero, come è anche questo che portiamo a Sanremo ora, si intitola Chimica e dice che in fondo il sesso è chimica e non dobbiamo essere mai bacchettoni, che il sesso è solo rispetto è libertà.
Siamo bacchettoni? Cose come quelle che facevi tu io non le vedo da molto, nonostante certe goffe trovate in quella direzione, ti trovavano tutti molto “provocatoria” e se penso alle tue esibizioni e a un disco come Kamikaze Rock’n’Roll Suicide mi viene naturale chiederti se siamo andati indietro.
Io ho sempre fatto quello che credevo, mi vedevano come una provocatoria, è vero, ma non sono mai stata provocatoria, se si sentivano provocati non era certo a causa mia, ma del loro modo di osservare la realtà. Certo è che si potevano fare cose che non si possono fare più ora, ora non si può certamente più dire “è andata a casa con il negro la troia” come faceva Vasco nel descrivere un mondo e dunque la lingua di quel mondo, ora c’è un’attenzione alla lingua che non c’era e c’è sempre il rischio che mentre cambia la lingua le cose non cambino; noi donne per esempio siamo sempre l’ultima ruota del carro, “troia” non si può dire, ma ce lo dicono eccome.
Comunque tu avevi anche un forte lato romantico, il tuo primo LP si intitola Ogni giorno si cantano canzoni d’amore; io, quando qualche anno fa ho scritto un libro sulla canzone d’amore italiana, ho deciso di inserire anche un brano dal tuo album Brivido divino del 1982, il brano si intitola La mia più bella canzone d’amore e lo hai scritto tu, che sei una cantautrice da sempre. Girando l’Italia a presentare il libro mi sono accorta che quasi nessuno sapeva che tu fossi non un’interprete, ma un’autrice dei tuoi brani.
Sono la cantautrice di cui nessuno si è mai preso la briga di leggere i testi, io non sono una paroliera, una parolaia, sono sempre stata l’autrice del mio mondo, dei miei pezzi, e nessuno si è mai soffermato prima su tutto questo, non mi prendevano sul serio, adesso ho più di 60 anni, quindi penso che magari sia arrivato anche il momento. Di me passava sempre il lato easy, sono stata sempre quella divertente, che faceva casino, un po’ punk, un po’ di rottura, l’idea che fossi una di pensiero dava fastidio, in più certamente non incarnavo l’immagine stereotipata di quella che si figuravano come la cantautrice, appunto uno stereotipo, portavo le mie minigonne vertiginose, i pantaloni di pelle, si sa com’è stato… non c’era la voglia di andare oltre, non ne avevano voglia i tuoi colleghi più anziani, allora.
A un certo punto provarono pure a scrivermi dei testi ma non era cosa per me, non ero fatta per le canzoni degli altri, ci provò Mogol, lui è un maestro ma quello che scrisse non era attinente a quello che volevo dire io: lui aveva scritto un brano che si chiamava Giulio ha un’idea ma io ero altrove e così al suo posto scrissi Femme fatale. Comunque ecco, erano sempre tutti molto interessati alla performance e poco alla sostanza.
Tuttavia la tua performance passava prima di tutto sempre molto dai contenuti, dai testi.
Sì, il mio personaggio cantava le mie canzoni, io nasco con mamma attrice, lei odiava la musica leggera, io le dicevo: «meglio leggera che pesante», lei aveva tutta un’idea della canzone pop come una cosa che per forza doveva parlare di amori estivi, cosa di cui non mi sono occupata mai, certamente la madre attrice mi ha abituata alla mise-en-scène su cui mi sono concentrata molto, ma sempre con un contenuto preciso, che era mio.
Tuo e di tuo marito, Claudio Rego, con cui vivi un sodalizio sentimentale e artistico da decenni, direi quasi da sempre.
Il mio sodalizio con mio marito è tempestato da liti furibonde, ma i contrasti e le liti ci vogliono, poi uno resta anche con le sue idee ma lo scontro è essenziale, è un sodalizio che nasce dalla musica, ci siamo incontrati in sala di registrazione e abbiamo avuto subito un alterco sugli ascolti, della serie: «io ascolto Jethro Tull e Led Zeppelin e tu Gino Paoli e Branduardi», «ma io ascolto anche un sacco di musica inglese e americana», gli dissi. Ci siamo mandati a quel paese lì e poi ci siamo ritrovati in un tour successivo con vari artisti, c’era Alan Sorrenti che cantava Dicitencello vuje, c’erano Rino Gaetano, Stefano Rosso e molti altri. Claudio faceva parte di un gruppo pop sperimantale che si chiamava L’Era dell’Acquario, io ero l’unica cantautrice e siccome ero l’unica femmina mi hanno anche fatto presentare, pensa te… In quella settimana mi fece una corte serrata, una sera mi invitò a bere una limonata e a guardare il mare dal porto di Taranto, poi mi chiamò molto, ci incontravamo a vedere concerti di altri, uscivamo, poi partì militare e mi scrisse lettere d’amore. Il prossimo 22 aprile sono 45 anni che stiamo insieme, a unirci sono ancora oggi la passione per la musica, per gli animali, per i concerti. Io l’ho sempre indirizzato a scrivere anche per qualcun altro, a proporsi, abbiamo scritto per altri insieme ma lui ama scrivere per me. Ci unisce anche la passione per l’ambiente, specie ora che siamo tornati a vivere a Castelfranco Veneto, la regione è molto inquinata e non si fa nulla per migliorare la situazione, a Sanremo qualche giorno fa c’era aria cristallina, qui l’aria puzza, il Veneto che io ho lasciato a 15 anni era un’altra cosa, ora si muore di tumore, con questa storia del Prosecco viviamo nei diserbanti, io dico: bere di meno e inquinare meno, si pensa solo ai soldi, ma i soldi al cimitero non te li porti. A parte questo abbiamo la musica.
Dopo Ditonellapiaga con chi ti piacerebbe collaborare?
Con Eugenio Finardi, lo adoro e vorrei fare un duetto con lui da molto, come cover quest’anno mi sarebbe anche piaciuto fare Musica ribelle, mi emoziona sempre quando canta: “E le strofe languide di tutti quei cantanti / con le facce da bambini e con i loro cuori infranti” e anche quando dice “mollare le menate e mettersi a lottare”, un invito, una chiamata verso l’altro, verso l’amore, un invito al confronto. Era il ’77, io in quegli anni mi confrontavo con i miei coetanei di mezza Europa, da Annie Lennox a Bonnie Tyler, sarebbe bello che i ragazzi oggi cercassero sempre tutti un modo per confrontarsi, starsi vicini, ascoltarsi.
Qual è l’album preferito di Rettore?
Goodbye Yellow Brick Road di Elton John
Ma chi è Rettore oggi?
Una signora romantica, allegra e malinconica.
E Donatella?
Donatella non c’è.