On the road. Pensiamolo così, il Rossetti, durante questa lunga chiacchierata mentre viaggia da Roma verso Nord, travolto da un’insolita giornata di sole, distante dalla cupezza dei Dpcm e degli amori ingabbiati che una sera gli hanno ispirato la sua Bicicletta. Un brano d’esordio che era nell’aria da tempo e che mette nero su bianco, tra pianoforte, chitarre e violini, quelli che potrebbero essere già i temi forti del suo primo album (che arriverà: lui non lo dice a chiare lettere, ma voi intanto segnatevelo).
Cosa c’è di più celeste di un cielo che ha vinto mille tempeste, o di due amanti che attraversano il Paese in bicicletta per ritrovarsi durante una pandemia? In macchina, con tanto di cane al seguito, adesso è diretto in Trentino, dove girerà la sua prossima serie per la Rai (attenzione, perché il suo nuovo ruolo vi sorprenderà davvero). Tra caselli, gallerie e una fiammata di romanesco qua e là, Rossetti cita i grandi: Kate Winslet, Tenco, Vasco, ma pure De Rossi. Li cita ma poi quasi si pente di averli scomodati per parlare di sé: altro che bello e dannato, Marco è un inquieto, un romantico, un corazzato. Che poi bello e dannato lo è in ogni caso, e forse perfino più dannato che bello, ma sembra averci fatto pace. Saggio. Oltre quindici anni di carriera tra alti e bassi (com’è che si dice? Normalizziamo questo concetto: la vita dell’attore è una roulette russa), battezzato da Mediaset e rilanciato dalla Rai, probabilmente il suo “qui e ora” sarà questo: tra DOC – Nelle tue mani e quello che verrà. On the road, sempre controvento ma sulla strada giusta, col braccio fuori dal finestrino e lo stereo alto. E che venga anche molta, moltissima musica.
Te lo posso dire? Con Speravo de morì prima e poi DOC c’è stata una crescita evidente nelle tue interpretazioni. Io ti trovo molto più centrato.
È verissimo, non dici una sciocchezza. Perché ora sono sicuramente più centrato come persona, e questo forse si nota anche nel lavoro. Da attore interpreti un personaggio, ma un po’ ti sveli anche come persona. Senti, io continuerò a dirlo anche se può sembrare brutto, ma a me la pandemia ha fatto molto bene. Ho combattuto demoni che mi portavo dietro da tanto.
In effetti ti sento meno incazzato.
(Ride) Less is more, mi verrebbe da dire. Damiano Cesconi è uno che sta un po’ dietro le quinte, ma quando si affaccia dice la cosa giusta. E se non la esageri, se non stai sopra le righe come attore, questo arriva.
Una mia amica attrice una volta mi ha detto che anche i cavalli di razza, se non li fai gareggiare, perdono potenza. Te la butto là…
La colgo. Sicuramente c’è bisogno che qualcuno ti aiuti, che ti avverta se stai scalciando contro la stalla. È come la questione di genio e sregolatezza: se qualcuno non ti contiene rischi di far peggio. Sono anche qui d’accordo con te. Ma infatti facciamo così: tu fai sempre queste domande e io rispondo “Sì, la penso allo stesso modo”.
Andata. Allora torniamo alla storia dei demoni: come procede la battaglia?
Guarda, secondo me è tanto pesante quanto semplice. Se è vero che bisogna solo ascoltarsi, ascoltarsi vuol dire non scappare. Vuol dire che se hai paura, anziché cercare qualcosa per distrarti, affronti quello che sta succedendo. Probabilmente io nella mia vita sono scappato spesso. Il Covid è stato un muro: sei solo anche se sei in coppia o con gli amici. Io avevo già fatto un percorso di analisi con la psicoterapia, quindi sono arrivato a quel punto con gli strumenti giusti. Oggi mi do una pacca sulla spalla: daje Marco, non sei scappato.
Il bello e dannato appartiene ancora all’identikit dei ruoli che ti assegnano (vedi DOC). Ti sta andando un po’ a noia o stai volentieri al gioco?
Ci gioco, ma da una parte discutiamone anche. La verità? Tu sei intelligente e non mi stai provocando a caso. Ma spesso nelle interviste si rimanda a questa storia cercando la dichiarazione fine a se stessa. Invece a te dico: quell’etichetta in una sceneggiatura è un ruolo. Ci deve stare, come ci sono gli innamorati, lo sregolato, l’antagonista, i genitori, e via dicendo. È in primis la fisionomia a determinare il ruolo. Ecco, io non voglio essere additato, ma in questo cast serviva questo ruolo e quindi va bene così. Io ci metto la mia firma.
Che poi DOC è un cast di fichi. Se partecipi alla fiera dei belli, allora quale valore aggiunto devi portare?
Il pubblico di DOC adesso mi scrive: “Mi sa che Damiano è uno stronzo”. Questa è l’etichetta immediata. Quindi non che il personaggio è cinico perché la sanità pubblica lo ha ferito, ma neanche che è bello e basta. È già un valore aggiunto, no? E poi se ci pensi bene, io non sono mica il classico bello. Non rientro nella simmetria o nella sezione aurea. Però tendenzialmente è vero, quello sono. Se mi chiedi di fare il nerd, forse dobbiamo solo lavorarci un po’ di più.
Ora però parliamo della scena della mostra in DOC, tra Damiano e Giulia? Ovvero quella che ha fatto pensare a mezza Italia: “Ok, qualcuno può organizzarmi la stessa cosa nella vita reale, grazie?”.
Che poi chi te la fa una cosa del genere nella vita reale? (ride). Me lo chiedono tutti: “Ma tu nella vita fai così?”. Tra l’altro pensa quanto sarebbe stato potente il contrario: Giulia che faceva sfilare Damiano.
Anche meglio. Quindi ormai possiamo dire che la storia d’amore c’è?
Ah boh, io non lo so se c’è la storia d’amore…
Ma dai, è uscito ovunque.
È uscito anche che avrò una storia sia con il personaggio di Matilde Gioli che con quello di Elisa Di Eusanio. Ma se la caposala si è appena baciata con Enrico Sandri!
Non spoileri proprio, eh? Peccato, speravo fossi come Spollon.
Io fingo sempre di non ricordare. Mia madre mi odia per questo: “Ma te pare che non lo dici a me? Non lo dico a nessuno!”. Stacco: eccola in una sala piena di gente, in vivavoce.
Cosa è cambiato a un certo punto? È sotto gli occhi di tutti che la tua carriera sta prendendo una piega diversa. Scaramanzia a parte.
Ho smesso pure di essere scaramantico, sai? È capitata una serie di coincidenze. Innanzi tutto ho smesso di pregiudicarmi certe occasioni, con gli addetti ai lavori ho iniziato ad essere più leggero.
Hai anche cambiato team, no?
Decisamente. Nuovo agente, nuovo ufficio stampa, nuove strategie che inizialmente non condividevo, ma che invece si sono rivelate vincenti. Da quel momento non ho più smesso di lavorare.
Io ci metterei dentro anche il passaggio necessario da Mediaset dei primi anni Duemila (con R.I.S. e Distretto di polizia) alla Rai dei primi anni Venti (con Il cacciatore e DOC), non pensi?
Sicuramente. Però posso dirti? Io ero un cane totale, sono un cane totale. Com’è che dice Kate Winslet? “La mia paura più grande è che poi qualcuno si accorga che non sono una brava attrice”. No dai, questo non lo scrivere, citare Kate è troppo.
Dai, fammelo scrivere. Su Rolling ci piacciono queste turbe.
(Ride) Che poi è la verità, è un’ansia che secondo me hanno tutti gli attori. Se ci pensi, qual è la paura atavica di andare in scena a teatro? È quella di sottoporsi a un giudizio, e che allora qualcuno possa dirti che no, non sei in grado. Detto questo, in R.I.S. ero oggettivamente acerbo e mi hanno permesso di fare una palestra incredibile che nessuna accademia mi aveva mai offerto. Se fossi stato più maturo avrei affrontato quei progetti in maniera diversa, ma non potrò mai sputare nel piatto dove ho mangiato per anni.
Me li racconti gli alti e bassi di questi… quanti sono, oltre quindici anni?
Oddio, più di quindici. Ammazza, so’ fortunato. Ho iniziato a ventitré anni, ne sto per fare trentasette. Che storia.
Un percorso a singhiozzi?
Sì, e ora sto viaggiando su ritmi alti perché la fortuna è dalla mia. Nei primi anni avevo iniziato a lavorare tanto, in Mediaset Valsecchi mi aveva preso in squadra, un po’ come fa la Lux. Poi insieme a Taodue ho rallentato pure io. Le reti fanno quel gioco che se stai dall’altra parte, allora è no. Anche se per me è più il pubblico a deciderlo. A volte per gli spettatori sei quello e basta, allora devi un po’ rieducarli a vederti anche altrove, con una faccia nuova. Ma ci sono stato male, non ero consapevole di certe dinamiche. Adesso sono più calmo. Oggi penso che il vero lavoro dell’attore, alla fine dei conti, sia quello di riuscire a riempire gli spazi vuoti quando non lavora.
Che poi se non lavori non guadagni nemmeno, no?
Sostanzialmente sì. Bellissima l’arte, da paura, stupenda. Ma quando stai fermo non paghi neanche l’affitto.
È vero che hai perso la testa per la Sicilia?
Guarda, grazie a Il cacciatore ho capito da dentro il sistema mafioso di quegli anni, il sistema di caccia nella polizia giudiziaria, i turni faticosissimi di una guardia del corpo e l’assenza di una vita privata. Ma quella serie mi ha dato anche la possibilità di conoscere Palermo, la Sicilia e i siciliani. Non è poco, perché io ce li ho nel cuore. Roba che se un giorno dovessi pensare di lasciare Roma e cambiare meta, andrei in Sicilia. Un’isola col vulcano: che altro puoi volere? Vediamo ora il Trentino cosa mi riserverà.
Ma infatti, adesso me lo dici cosa stai andando a fare in Trentino?
A girare Blackout, una serie Rai con Alessandro Preziosi e la regia di Riccardo Donna. È la storia di un gruppo di persone che rimangono isolate all’interno di albergo a causa di una valanga, un po’ ispirata alla tragedia di Rigopiano. Sarà la base di un thriller, e il mio personaggio è un padre di famiglia con l’obiettivo disperato di riconquistare l’affidamento di sua figlia.
Il tuo primo ruolo da padre, quindi. E io che stavo ancora qui a parlare di stereotipi…
Esatto, sarà uno step importante soprattutto a livello anagrafico. Sottolineo: sarò padre di una figlia adolescente. Infatti mi sto cagando sotto.
Senti, ma poi De Rossi ha approvato la tua interpretazione oppure no?
Mi aveva fatto l’in bocca al lupo per il ruolo, pur sapendo benissimo che io sono della Lazio. Non a caso sul set è nato subito uno sfottò simpatico, con le maestranze romaniste che mi ridevano dietro: “A’ merda, non te lo meriti ‘sto ruolo”. Alla fine succede che con Daniele ci ritroviamo a cena e mentre mangio mi sento abbracciare da dietro. Una montagna, è enorme, un torello. Mi dice che ero stato forte e che stava in fissa con Il cacciatore. “Non vedo l’ora di tornare a casa a guardarmelo”. Il romanista vero De Rossi ce l’ha dentro, nella pancia. Lui è uno che a noi laziali c’ha fatto soffrire tantissimo, ci guardava in curva dopo aver segnato al derby e ce la faceva pesare forte. Ed è stato pure quello che ha fatto un campionato del mondo da pazzo, è rientrato in finale e ha segnato il gol decisivo. È una grande persona, uno sportivo caparbio e capace.
Poi, colpo di scena, il debutto come cantautore: quand’è che ti sei deciso?
Torniamo sempre lì. È nato tutto dalla necessità di analizzare, e quindi di scrivere. Finché una volta non mi sono trovato a musicare un mio scritto, ed è stato quasi un colpo di fortuna. Chiariamo: io non sono un cantante, non seguo nessuna regola di metrica giusta, seguo piuttosto la formula del cantautore. Ho capito una cosa: se avete qualcosa da dire, ditela. Senza vergognarvi.
In Bicicletta hai scelto di affidare l’apertura e l’atmosfera del brano al pianoforte, anche se tu suoni la chitarra. Come mai?
Tutte le mie canzoni partono dalla mia chitarra, ed è un casino: cambi di tempi strani e anarchia totale, con gli altri che mi dicono: “Marco, qua non si può fare, qui cambia il beat”. Il piano è di Moris Pradella, musicista incredibile con un orecchio assoluto. Un giorno mi dice: “Senti un po’, ma se proviamo a metterci un pianoforte?”. Niente, me la fa ascoltare e io non ci penso due volte: “Ragazzi, per me possiamo andarcene tutti a casa. Lasciamo il pianoforte e bella, se semo visti“.
Stretta di mano per non aver esordito con un pezzo solo voce e chitarra con i soliti quattro accordi, che ci ha pure un po’ stufato.
Sono d’accordissimo. L’acustico è bello, ma forse solo Eric Clapton ci può creare un mondo sonoro.
Senti, a me il testo di Bicicletta piace parecchio. Tutta la storia del gin tonic e del corteggiamento. Eri ubriaco quando l’hai scritta?
(Ride) Non ero ubriaco, ma è nata di getto. È uscita fuori un po’ da sola, come ci insegna Vasco. Ero a casa, alla scrivania, col mio cane sotto i piedi. Ma con la testa stavo ovunque. Era appena uscito un Dpcm che in sostanza diceva: non si può fare niente, non puoi uscire dal comune… a meno che non prendi la bicicletta, e che poi ritorni al luogo di residenza. Allora ho pensato: se ci fossero due innamorati, uno abita a Roma e l’altro a Firenze, in bicicletta potrebbero raggiungersi. Pazzesco, no?
Qualcuno sotto il video ha scritto che il pezzo “profuma di romanticume d’altri tempi”. Mi piace perché il romanticume è quasi sciropposo. È un termine che enfatizza i vezzi dell’atteggiamento romantico.
Ma che bello! Romanticume sa un po’ di cerume, però mi piace davvero. Mi fa pensare a Luigi Tenco. C’è chi mi ha detto che ascoltando il pezzo ha avuto voglia di prendere la bicicletta e andare a trovare qualcuno che non vedeva da tempo.
“Mi piacerebbe essere un bravo genitore, un padre ideale”: la mia parte preferita. Ti stai ponendo questa domanda?
Eh, a chi lo dici. A me piace l’idea che nella fase del corteggiamento non conosci l’altro, e quindi speri che l’altro non ti giudichi. Come apparirò? Sarò all’altezza? Finisce che ti chiedi che padre saresti ma anche che figlio sei. Dai, sai che questa è una domanda impossibile.
Comunque hai accennato di avere già pronte altre canzoni, non puoi più negarlo. Ma quindi dov’è che vuoi arrivare, Marco Rossetti?
Adesso in Trentino, ma mi mancano ancora cinque ore di macchina. Non lo so dove voglio arrivare. So che sulla scia di questo bel momento vorrei farmi conoscere anche a livello musicale, per poi riuscire a promuovere il mio spettacolo e avere gente che venga a vederlo. Teatro musica, dove si parla d’amore. O meglio, di quella crisi che Hermann Hesse porta in tutti i suoi libri: il passaggio dall’adolescenza alla fase adulta. Mi rappresenta, sono io.