Dal 2005 Roberto Angelini e Rodrigo D’Erasmo si sono fatti carico di una precisa missione: portare a conoscenza del pubblico italiano il lascito artistico di Nick Drake. Dopo avere scoperto la comune passione per il cantautore inglese autore di tre album indimenticabili e morto a soli 26 anni a causa di un’overdose di farmaci, i due musicisti si sono dati da fare per riproporre le sue canzoni in dischi e concerti con estremo rispetto, delicatezza e trasporto da veri appassionati.
Dopo il primo album in coppia PongMoon Sognando Nick Drake, Roberto e Rodrigo hanno realizzato nel 2019 per Sky Arte un documentario chiamato Songs in a Conversation nel quale compiono un pellegrinaggio nei luoghi di Nick Drake, in special modo nel suo paese natale Tanworth-in-Arden, placida cittadina a sud-est di Birmingham. Lì hanno modo di incontrare personaggi fondamentali per la storia del cantautore tra cui il fonico John Wood, con il quale arrivano anche a registrare una serie di brani. Il viaggio di Roberto e Rodrigo non contempla solo l’Inghilterra ma arriva anche nelle campagne italiane, luoghi nei quali i due vengono raggiunti da altri seguaci di Drake quali Andrea Appino, Manuel Agnelli, Niccolò Fabi, Piers Faccini e Adele Nigro/Any Other.
Ora Songs in a Conversation diventa anche un disco pubblicato a cinquant’anni esatti dall’ultimo lavoro di Nick Drake, Pink Moon. Contiene i brani registrati con John Wood, altri realizzati a Roma e le canzoni con i contributi degli ospiti. Al disco seguirà a partire dal 27 febbraio un tour (qui le date) che unirà la riproposizione delle canzoni a tutta una serie di racconti e video utili a introdurre il pubblico al mondo di Nick Drake.
Da quanto vi conoscete voi due?
Roberto Angelini: Ci siamo incontrati nel 2005 in occasione di una grigliata, in quel di Sacrofano, vicino Roma, e ciò che ci ha fatti avvicinare è stato proprio l’amore per Nick Drake. All’inizio siamo rimasti anche un po’ stupiti, in quel periodo non si parlava molto di lui, ricordo che dissi a Rodrigo: «Veramente ti piace? Nick Drake eh, non Nick Cave» (ride). Abbiamo passato l’intero pomeriggio a parlarne.
Come nasce la vostra passione per Drake?
Angelini: Nel 1999 avevo appena firmato il mio primo contratto discografico e stavo registrando un EP per la Virgin, erano brani prevalentemente acustici per i quali avevo avuto l’idea di coinvolgere un quartetto d’archi. Ero convinto di avere trovato la giusta chiave, qualcosa di nuovo, originale. Durante i mix Pino Marino mi ha chiesto: «Ma tu sei un fan di Nick Drake?». Non avevo la più pallida idea di cosa stesse parlando. Tornato a casa ho ascoltato Five Leaves Left. L’entusiasmo per l’originalità degli arrangiamenti è venuto meno, in compenso è amato un amore smisurato per questo autore, per i suoi arpeggi, gli arrangiamenti d’archi, la voce delicata, i testi introspettivi.
Rodrigo D’Erasmo: Mi hanno dato una sua cassetta. L’ho messa su, ma evidentemente non era il momento giusto, dopo solo due pezzi sono passato ad altro. Un giorno in auto avevo finito di ascoltare tutte le cassette che avevo, così ho dato una seconda chance a quel cantautore inglese. Sulla cassetta c’erano Five Leaves Left e Pink Moon. Fin dalle prime note è scattato qualcosa: la voce, gli arrangiamenti, tutto si sposava meravigliosamente col paesaggio delle campagne del viterbese che vedevo. Da violinista e arrangiatore mi sono accorto che lì dentro c’era tutto, la musica classica, Bach, romanticismo ma anche modernità, una freschezza compositiva che faceva sembrare quelle canzoni composte ieri o addirittura domani. Tra l’altro mi ero fatto la fantasia che Pink Moon fosse il primo album di Nick Drake, non avevo capito che la sua è stata una parabola involutiva, che lo ha portato a chiudersi sempre più e a tornare all’essenza, alla nuda voce e chitarra. A quel punto mi è venuta un’idea pazza: provare ad aggiungere arrangiamenti di archi in Pink Moon, registrando dei violini sopra il disco, come se stessi suonando con lui. A seguito di questa operazione un po’ naïf, con mezzi di fortuna, sono arrivati i complimenti di Roberto ed è proprio da lì che è nata l’idea di fare qualcosa che potesse avere come base la musica di Nick Drake, progetto che poi è sfociato, nel 2005, in PongMoon.
Come mai a distanza di oltre 15 anni siete tornati a Drake?
Angelini: La passione non è mai venuta meno e oltre alla musica poi abbiamo sentito il desiderio di raccontare la storia di Nick, trasformare anche il modo di presentare il suo repertorio dal vivo, uscire da una sorta di messa per Nick Drake, a luci soffuse, con la testa bassa a eseguire i pezzi in religioso silenzio, per fare qualcosa di più divulgativo, che possa essere utile a scoprire la sua arte per di chi non la conosce grazie a racconti, qualche spiegazione tecnica sulla sua musica, sul suo stile. Anche qualche risata, perché no?
Immagino che nei concerti avrete modo di incontrare fan di Nick Drake, ma anche persone che vengono a vedervi perché conoscono voi e non lui.
Angelini: Esatto, ci sono due tipologie di pubblico: quelli che conoscono a menadito la sua produzione, che magari hanno comprato i dischi all’epoca e pensano «Ma chi cacchio sono questi, come si permettono?», i quali però spesso alla fine ci fanno i complimenti per come il materiale è stato trattato con rispetto, delicatezza e amore. Poi ci sono quelli che non sanno assolutamente chi sia Drake, sono capitati perché magari sono fan degli Afterhours o mi hanno visto a Propaganda Live. Rimangono però incantati dalla bellezza di queste canzoni e diventano fan. Questo è il massimo.
Le canzoni di Nick Drake sono caratterizzate da arrangiamenti chitarristici tutt’altro che banali, con accordature aperte e un grande uso del fingerpicking, come ti sei trovato ad affrontarle, Roberto?
Angelini: Lo studio delle canzoni di Nick ha rappresentato per me un po’ un percorso di redenzione, se così possiamo chiamarlo. Dopo il successo di Gattomatto nel 2004 ero un po’ frastornato: era veramente quello ciò che sognavo di fare? I playback in tv, il mondo dorato del pop con tutti i suoi lustrini? Sono stato preso da una specie di crisi esistenzial-musicale e la mia via di fuga è stata proprio concentrarmi a capire come suonava la chitarra Nick Drake. In questo cimento sono stato aiutato da un tizio che si chiama Chris Healey, il quale gestisce un sito che raccoglie tutti gli studi dei vari chitarristi sparsi per il mondo sulla tecnica e le accordature usate da Drake nelle sue canzoni, con materiale vario e tablature. È stato fondamentale, perché è molto difficile comprendere a orecchio come si svolge un suo brano, ci sono accordature assurde, spesso utilizza un capotasto che bisogna capire in che punto del manico della chitarra è piazzato, è molto complesso. Questo studio va avanti ancora oggi, non si finisce mai di scoprire le particolarità della sua musica che a conti fatti è molto vicina al jazz, non è mai uguale a se stessa. Se si ascoltano diverse take dello stesso brano ci si accorgerà che Nick aveva un canovaccio, un’idea di base, ma poi ci girava intorno come potrebbe fare un sassofonista quando suona uno standard, non ci saranno mai due esecuzioni simili. Da appassionato di jazz questa è una cosa che mi ha sempre affascinato molto.
D’Erasmo: Lui ha intersecato diversi generi senza in realtà appartenere a nessuno, ha creato uno stile unico.
Una delle caratteristiche più importanti del suono di Nick Drake è rappresentato dagli arrangiamenti di archi di Robert Kirby.
D’Erasmo: Pensare che un ragazzo di appena vent’anni all’epoca potesse avere la maturità e la creatività per scrivere le parti che ha scritto è sorprendente. Ai tempi del primo disco avevano paventato a Nick la possibilità di collaborare con arrangiatori ben più titolati di Kirby, che era un esordiente. Uno di questi, Henry Robinson, è stato anche usato in River Man. Si intuisce che Robinson aveva in mano i ferri del mestiere, le cose scritte da Kirby però mantengono un’innata freschezza, sono sempre attuali, hanno in sé la meravigliosa inconsapevolezza della gioventù, quando non temi di mischiare Bach, il romanticismo, qualche accordo jazzato, mescolando i generi senza la minima preoccupazione. Il lavoro di Kirby ha influenzato generazioni di arrangiatori, per citarne uno: il papà di Beck, David Campbell, che ha lavorato sul bellissimo Sea Change del figlio facendo un lavoro chiaramente in debito con quello di Kirby.
Nick Drake era da una parte chiuso e schivo, dall’altra desideroso di arrivare al grande pubblico con la musica. Come vi spiegate questa dualità?
Angelini: Era circondato da una squadra: un’etichetta, un produttore, un fonico, dei musicisti… Le persone vicine a lui raccontano di un clima di esaltazione, una grande aspettativa, specie per Five Leaves Left, si aspettavano facesse il botto perché le premesse c’erano tutte. Invece l’album uscì e non accadde nulla, questo secondo me ha creato un urto, una caduta e un dolore profondo per Nick…
D’Erasmo: Ce lo ha confermato anche John Wood, erano tutti stupiti ed esaltati dalla qualità delle canzoni, sia dal punto di vista musicale che letterario. John ha insistito molto sul sottolineare il valore dei testi di Nick Drake, non gli era mai capitato di sentire una forma di poesia così alta nelle canzoni. Non era un caso: Nick era un ragazzo di buona famiglia, con ottime letture alle spalle, appassionato di Camus, di William Blake… Sapeva unire il mondo musicale e quello letterario in maniera perfetta. Quindi tutti lo vedevano come the next big thing, erano pronti al grande successo. Purtroppo però il primo album vendette appena 5000 copie, che per quei tempi non erano nulla, ed ebbe poche recensioni nemmeno così entusiaste. Col secondo album, Bryter Layter, l’investimento da parte del team che stava intorno a Nick si fece ancora più ingente. Joe Boyd, che lo aveva scoperto, continuava a essere convinto della sua grandezza, e continuerà a esserlo per sempre. Peccato che anche quel disco fallisca, nonostante arrangiamenti più alla portata del grande pubblico, meno cameristici e maggiormente improntati su una eventuale resa live. Qui si è creato un vero crack interiore, è come se Nick avesse pensato che tutti i grandi complimenti, la stima e l’aspettativa fossero mal riposti, di non meritare tutta questa attenzione, di non essere all’altezza.
Angelini: Mi viene da pensare che l’avere ridotto all’osso le canzoni del disco successivo, Pink Moon, questo denudare i suoi brani e ricondurli a solo voce e chitarra, sia stato per Nick anche il modo per dire: «Guardate chi sono nella mia essenza». Lui in quel momento era rimasto veramente solo, Joe Boyd si era trasferito in America, c’era un senso di abbandono del progetto, dopo tutti i tentativi. Poi Nick aveva già da tempo rinunciato a suonare dal vivo essendo stato messo innanzi a difficili situazioni, come l’apertura a concerti altrui, con il pubblico che aspettava un altro artista e si disinteressava di lui. Lui che aveva bisogno di tempo per accordare la chitarra secondo il suo modo, che cantava con un filo di voce mentre la gente rumoreggiava, parlava, beveva… Tutto questo deve avere ferito in maniera profonda uno sensibile come lui. Attenzione però, da quello che ci hanno raccontato Nick Drake non era un uomo triste e cupo, era una persona gioiosa, anche divertente. Col tempo però questi lati del suo carattere sono stati messi in ombra dallo scarso interesse che avvertiva nei confronti della sua musica. Mi interessa molto questa forma di depressione da incomprensione artistica, in giro c’è molta gente che soffre di ciò ma pochi lo danno a vedere…
D’Erasmo: Per fortuna nella nostra epoca molti artisti si sono esposti a parlare del tipo di disagi che possono scaturire a causa dell’insuccesso. All’epoca però era impensabile, non una cosa che si potesse esternare…
In quegli anni la proposta musicale era ampia e frastagliata, c’erano anche molti cantautori intimisti, mi viene in mente John Martyn, che riescono a catturare l’attenzione del pubblico. Come mai a Nick Drake questo non succede?
D’Erasmo: Da una parte c’era il rock che aveva una presa e un impatto diversi, scatenava emozioni e adrenalina nel pubblico. Il cantautorato era, soprattutto in Inghilterra, o indirizzato verso la protesta, con chitarre suonate con intensità e voci potenti, o verso la riscoperta del folk tradizionale che aveva comunque una grossa presa. Nick Drake era diverso da tutti, una mosca bianca, uno avanti coi tempi, la sua musica così soffusa e delicata era qualcosa di unico, anche diversa dalla proposta di un John Martyn, che era più in direzione folk. Bisognerà attendere gli anni ’90, dopo il grunge, per il ritorno della musica acustica, da Elliott Smith e proseguendo con Damien Rice, i Kings of Convenience… Riemergono gli arrangiamenti di archi, i testi introspettivi… È qui che viene riscoperto Nick Drake che diventa un faro per tutti, l’artista di riferimento. È stato veramente la persona giusta al momento sbagliato.
Angelini e D’Erasmo suonano ‘Place to Be’ con Manuel Agnelli. Dal documentario ‘Songs in a Conversation’ prodotto da Sky Arte per la regia di Giorgio Testi
Mi raccontate del documentario che vi ha portato a Tanworth-in-Arden?
Angelini: Ricordo che parlando con Rodrigo durante quel nostro primo incontro a Sacrofano ci era venuto in mente che non esiste alcuna testimonianza video di Nick Drake, una cosa impensabile per i nostri giorni. Così abbiamo pensato di creare delle serate per mostrare al pubblico quella che poteva essere l’atmosfera durante un’esibizione di Nick. Siamo partiti per questo viaggio che ha stimolato tantissimi incontri, anche importanti: Rodrigo ad esempio è entrato negli Afterhours proprio grazie a uno dei nostri concerti, io ho suonato la chitarra in uno spettacolo diretto da Robert Kirby. L’ho abbracciato con emozione dicendogli quanto lo stimassi e quanto amassi i suoi arrangiamenti, in particolare quello per River Man. Mi ha ringraziato dicendomi che quello era l’unico pezzo sul quale non aveva lavorato (ride).
D’Erasmo: Il documentario è stato girato tutto all’aperto, in mezzo alla natura, facendo dialogare il paesaggio con i vari artisti che abbiamo coinvolto. Questa è stata una scelta vincente, anche se abbiamo dovuto affrontare diverse difficoltà: non avevamo amplificazione e suonavamo in mezzo ai boschi provando a non farci sovrastare dai suoni della natura, c’erano delle cicale che facevano un chiasso assordante. Volevamo che fosse un viaggio condiviso, una tappa del pellegrinaggio che ci portava in Inghilterra nel quale passavamo a trovare un po’ di amici ai quali eravamo uniti anche grazie all’amore per Nick Drake. Abbiamo unito le performance con loro alle riprese della campagna inglese, nei dintorni di Tanworth-in-Arden. Lì abbiamo capito quanto Nick fosse stato influenzato dai bellissimi paesaggi da cui era circondato, i loro colori, la potenza e anche il timore degli eventi naturali. C’è tutto nella sua musica.
Angelini: Quei luoghi erano anche una sorta di guscio protettivo per un giovane sensibile come Nick.
D’Erasmo: Oggi Tanworth è un luogo per benestanti, abbiamo visto automobili incredibili posteggiate, ci sono ville, molta ricchezza. All’epoca magari non era così, ma è sempre stata una zona ricca, lo stesso padre di Nick era un ex funzionario del governo britannico, la loro era una famiglia agiata. Il rovescio della medaglia è che tutto il benessere e la vita in campagna potrebbero averlo allontanato dalle problematiche della vita vera. Forse non aveva le spalle abbastanza forti per affrontare le pressioni durante il suo trasferimento a Londra.
Parlando con John Wood quali aneddoti sono usciti fuori?
D’Erasmo: John è un signore di oltre 70 anni che ha quasi smesso di fare il suo lavoro se non per cose che realmente lo appassionano, ed è molto critico con i metodi di registrazione odierni, gli strumenti separati sempre e comunque, le varie stanze, i metronomi, le sovraincisioni. Five Leaves Left è stato registrato con una piccola orchestra sistemata nella stessa stanza di una band e di Nick che suonava la chitarra e cantava, con giusto un minimo di isolamento rispetto al resto. Tutto in presa diretta e con un grande senso di responsabilità da parte di ogni musicista per dare il meglio di sé ed effettuare la migliore take possibile. Ognuno doveva fare il massimo per far sì che quella registrazione rappresentasse un momento indelebile nella storia della musica. Quella magia non la ricostruisci in nessun’altra maniera, ed è anche per quello che poi quel tipo di dischi sono diventati eterni.
Wood vi ha raccontato delle due nottate per la registrazione di Pink Moon?
D’Erasmo: Sì, ma ha un po’ sfatato il mito di Nick oramai in preda alla depressione che arriva nel cuore della notte. Niente di così maledetto o romantico, semplicemente Drake voleva registrare le sue nuove canzoni prima possibile. Wood stava lavorando a un altro disco, ma non sapeva dirgli di no, quindi si è reso disponibile solo dopo le 10 di sera. Nick ha cominciato a suonare brani che il fonico pensava fossero provini. Wood ha poi capito, per il modo in cui le canzoni erano eseguite e per come stavano in piedi anche solo con chitarra e voce, che quello sarebbe stato il disco. John ci ha detto che le take di Nick non erano mai più di cinque, e nelle prime tre c’era sempre quella buona. Considerando la difficoltà tecnica di molte canzoni e la responsabilità di avere un gruppo e un’orchestra che suonano insieme è un qualcosa di miracoloso.
Tra l’altro Nick era un chitarrista autodidatta…
Angelini: Sì, è incredibile.
Ed è difficile capire se qualcuno abbia influenzato il suo modo così peculiare di suonare.
Angelini: Andando a cercare a ritroso chiaramente si trovano delle influenze, all’epoca c’erano un sacco di chitarristi folk molto forti a cui lui probabilmente ha fatto riferimento. Un po’ di tempo fa in uno studio di registrazione ho trovato un disco del chitarrista Davy Graham, si intitolava Hat e in copertina c’era lui con un buffo cappello messicano. Ho messo su l’album e sono rimasto stupito, Graham aveva un modo di suonare molto simile a quello di Nick. Andando a leggere in rete ho scoperto che Drake era stato influenzato proprio da Davy Graham che nel suo album inserì anche ritmiche africane e momenti jazz. Poi Nick aveva una madre pianista, quindi c’era anche l’influenza del mondo classico, sarà sicuramente stato colpito dalla passione di Robert Kirby per Bach. In questo variegato tessuto di influenze c’è poi la voce che entra sempre in punti particolari dei brani e in modi che non ti aspetti: allunga una nota, ne accorcia un’altra… mi ricorda anche un po’ certi cantautori genovesi che univano la canzone al mondo del jazz: Gino Paoli, Tenco… con melodie vocali sempre imprevedibili.
Fosse ancora vivo, secondo voi cosa farebbe oggi?
Angelini: Forse farebbe lo scrittore, isolato in campagna si dedicherebbe romanzi o poesie. Viste le grandissime capacità letterarie che possedeva si sarebbe staccato dal veicolare le parole col tramite della musica, le avrebbe liberate, evitando così anche quel rapporto con il pubblico musicale che così tanto lo aveva amareggiato.
Siete in partenza con il tour, sarete soli sul palco o vi accompagnerà qualche musicista?
Angelini: Per le prime due date, Roma e Milano, abbiamo deciso di farci accompagnare dai nostri amici Fabio Rondanini alla batteria, Gabriele Lazzarotti al basso e Andrea Pesce al pianoforte. Con loro avremo la possibilità di ampliare la tavolozza sonora dello spettacolo che per il resto sarà un po’ diverso rispetto a quello che abbiamo portato in giro in passato: si avvarrà di alcuni contributi video estrapolati dal documentario e di un ulteriore filmato realizzato da un amico che si è occupato di una serie di animazioni con la plastilina.
D’Erasmo: Dopo l’esperienza del documentario abbiamo nuovi racconti e una nuova consapevolezza grazie ad alcune esperienze che abbiamo vissuto in maniera profonda, vedi l’incontro con John Wood. La parte divulgativa quindi si farà ancora più importante, sempre con lo scopo di mandare a casa le persone con la voglia di riascoltare Nick Drake.