Sappiamo cosa state pensando: oggi è l’8 marzo, la festa della donna, e pure Rolling Stone si mette a sventolare le mimose. In realtà no. O meglio: le mimose ci piacciono (anche se, è vero, “puzzano”), la festa della donna è sacrosanta, ma quella che stiamo per raccontarvi è una rarissima iniziativa a impatto zero retorica. Non a caso si svolge a Washington D.C. e non in Italia. Si tratta di One of Us: una serie di documentari prodotti e diretti da Chiara Tilesi, con protagoniste alcune donne italiane, di successo, che vivono in America. Dunque storie narrate in presa diretta e che daranno poi vita a un inedito database di volti, donne e memoriali all’insegna del vero empowerment femminile: quello ottenuto con la determinazione e l’impegno, senza concessioni al vittimismo. La prima stagione è andata così bene che, quest’anno, la docu si è sdoppiata in due filoni: One of Us 2 East Coast e One of Us 2 West Coast. Si spazia quindi per aree geografiche ma anche per settori: le testimonianze coinvolgono attrici come Gabriella Pession e Isabella Rossellini, scienziate (un nome su tutti, Elisabetta Cassetti del team del dottor Anthony Fauci) e persino politici, capitanate dalla prima ambasciatrice donna a Washington Mariangela Zappia. E questo è solo l’inizio, visto che, come ci anticipa Tilesi, il database dovrebbe arrivare a contenere oltre cento storie… «Quando parliamo di immigrati, immaginiamo sempre un universo al maschile», spiega Tilesi, «invece ci sono molte donne che lasciano l’Italia per ragioni lavorative e che si trasferiscono a vivere negli Stati Uniti. Se è difficile per un uomo italiano affermarsi in America, immaginatevi per una donna…».
Il mito del self-made man varrebbe dunque solo per gli uomini?
Lo dice la parola stessa: man. Mica woman. La risposta è già contenuta nella frase (ride).
Ma l’America non era la grande terra della meritocrazia, dove chi vale viene premiato?
Purtroppo no. La disparità di genere è molto forte, in Italia come in America o in qualsiasi altro posto del mondo. Secondo gli ultimi dati rilasciati dal World Economic Forum, per colmare il gender gap mondiale ci vorranno almeno altri 136 anni. Centotrentasei! Poi, certo, in America c’è molta più offerta di lavoro, il mercato è dinamico, quindi magari sei fortunata e riesci a sfondare lavorativamente, ma le difficoltà sono ancora tantissime. Mi ha per esempio molto colpito il discorso del Segretario generale delle Nazioni Unite: secondo lui, se la pandemia avesse un volto sarebbe di donna. L’universo femminile è stato infatti il più colpito: pensiamo per esempio all’impennata di casi di violenza domestica, o alla mole di licenziamenti che ha colpito in primis le donne. E ancora: c’è tutto un sommerso di badanti e baby-sitter che, lavorando in nero, non hanno avuto modo di ricevere alcun sostegno. C’è ancora parecchio da fare, compreso in America dove, per inciso, non è ancora stato eletto un presidente donna. Proprio perché è necessario promuovere un cambiamento, abbiamo deciso di raccontare queste storie di successo che, ci auguriamo, possano essere fonte di ispirazione e dare vita a un immaginario più fedele dell’universo rosa.
Mi ha molto colpito il titolo: One of Us, una di noi. Quindi la solidarietà femminile non è una pia illusione, come alcuni vogliono farci credere?
La mancanza di solidarietà femminile è uno dei tanti esempi di narrativa sbagliata sulle donne. E lo dico per esperienza diretta: nei momenti bui della mia vita, molte colleghe e amiche mi hanno teso una mano. Non dico che gli uomini se la siano svignata, anzi. Però l’aiuto delle donne c’era, eccome! La presunta competizione tra donne è semmai legata al modello Cenerentola, quello dove il principe ne sceglie solo una e noi ce lo contendiamo, facendoci la guerra. Direi che ormai non è più così da un pezzo. Il principe non sceglie nessuna perché non abbiamo più bisogno di lui: oggi ci auto-scegliamo il nostro destino. Ti dirò di più. Ho scelto di coinvolgere come produttrici le colleghe Debora Guetta, eccellente fotografa, e Silvia Chiave, console italiana a Los Angeles, per raccontare le storie di One of Us 2.
Non dirmi che ha fondato l’ennesima società di produzione composta da sole donne per raccontare esclusivamente storie in rosa…
Sarò sincera: sono convinta che, come esistono i boys club, debbano esistere anche i girls club. In fondo i boys club hanno portato tanto agli uomini, dunque… Tuttavia qui a Los Angeles ho due società, la Frequency Productions e la non profit We Do It Together, e come si deduce dal nome di quest’ultima il mio team è composto da uomini e donne. Non si tratta infatti di portare avanti una lotta tra generi: quello che semmai contesto è la narrativa finora fatta sulle donne.
Ecco, appunto: oggi non c’è società, autore o regista che non si cimenti a raccontare le donne. Come si riesce però a farlo senza cadere nella retorica?
Oggi esistono due narrative al femminile: quella oggettificante, che punta l’accento sulla bellezza o sull’età delle donne, e quella in chiave vittimistica. In realtà noi siamo molto di più: in noi c’è un universo di sfumature, dalla forza pazzesca. La strada maestra, per non scadere nella retorica, è far parlare le persone: raccontare le loro storie, come accade appunto in One of Us. Bisogna dare voce a quell’altra metà dell’universo che, peraltro, è sempre più grande. Oggi le donne rappresentano il 51% della popolazione, ma se non c’è una narrativa adeguata su di loro, la loro voce difficilmente si farà sentire.
Tra tutte le testimonianze che ha raccolto, qual è quella più inaspettata?
Sono tutte molto forti. Se però devo proprio scegliere, cito Mariangela Zappia: all’apice della sua carriera politica, ha deciso di fermarsi per stare insieme ai propri figli. È stata a casa per quattro anni: un periodo non certo breve. Eppure, una volta tornata, ha inanellato un successo dietro l’altro, arrivando a diventare la prima ambasciatrice donna a Washington. La sua storia, come le sue scelte, ci dimostrano che è possibile conciliare valori e carriera. Basta volerlo. Un altro aspetto che mi ha piacevolmente stupita, e che accomuna la maggior parte delle testimonianze, è il ruolo decisivo svolto dalle famiglie. Molte donne ce l’hanno fatta perché sono cresciute in un contesto domestico che non prevedeva differenti possibilità tra figli maschi e femmine. Per esempio, la scienziata Cassetti, braccio destro del dottor Fauci, conferma che a casa sua tutti potevano sognare le stesse cose.
Be’, perdonami, ma questo è l’abc…
Ne sei sicura? Eppure l’immaginario vigente dice altro. Perché, per esempio, un uomo a sessant’anni può fidanzarsi con una ragazza di venti o avere figli senza destare scalpore, ma se le stesse scelte vengono prese da una donna succede il finimondo?
Touchée. Allora ti chiedo: qual è l’ostacolo che le intervistate si sono trovate a dover affrontare con più frequenza?
Molte di loro, come per esempio la scienziata e vulcanologa Federica Raia, ha dovuto fare i conti con il glass ceiling. Con questa espressione si intende l’impossibilità, dettata da pregiudizi di genere, di raggiungere posizioni apicali che siano di reale potere e non solo di mera rappresentanza. È un muro molto duro da abbattere, ma è ora che venga giù.
Immagino che stiate già lavorando a One of Us 3…
Sì: la prossima stagione coinvolgerà personalità che vivono anche al di fuori dei confini degli Stati Uniti. Nel frattempo abbiamo anche un film in uscita: Tell It Like a Woman, che co-produciamo insieme ad Andrea Iervolino, Lady Monika Bacardi e Lucas Akoskin.
Toglimi una curiosità: One of Us viene presentato oggi, in occasione della festa della donna. La ricorrenza ha ancora senso o la rottameresti?
È chiaro che l’obiettivo di tutti è arrivare ad avere una società che non abbia più bisogno di giornate che ricordino l’importanza delle donne, o di qualsivoglia altra minoranza. Fintanto però che non ci saremo arrivati, queste giornate servono eccome: sono un’occasione per promuovere il cambiamento e dare vita a un immaginario più rispettoso, moderno, genuino. In America, addirittura, le donne vengono festeggiate per tutto il mese di marzo, non solo l’8.