Alex Kapranos è un entusiasta, uno di quei musicisti che infondono nella musica il proprio spirito brioso ed elettrizzato. È anche un uomo innamorato, del proprio lavoro e dei dischi in vinile. Proprio da queste passioni arriva la scelta di pubblicare Hits to the Head, la raccolta dei successi dei Franz Ferdinand in uscita l’11 marzo, un album con 20 brani che ripercorre l’ascesa imperiosa della band scozzese. Una vera celebrazione – arricchita dagli inediti Billy Goodbye e Curious – ma anche un’occasione per ripercorrere le tappe di una carriera dall’alto tasso adrenalinico, partendo da una delle città più significative per il rinnovamento rock degli ultimi 40 anni: Glasgow.
Sono passati 18 anni dalla pubblicazione del primo album dei Franz Ferdinand, un disco che letteralmente esplose nelle classiche di mezzo mondo. Che ricordi hai di quei momenti che hanno cambiato la tua vita?
La giornata in cui è uscito il primo disco è stata eccitante e indimenticabile, un caos totale. Abbiamo suonato in alcuni negozi di dischi – a Londra credo fosse Rough Trade – e poi siamo immediatamente volati a Glasgow per un altro live. Con il secondo disco le cose sono andate in maniera un po’ diversa, perché qualcuno l’ha messo online prima della data di uscita. C’era questo ragazzo che faceva il cameraman durante uno nostro show a Edimburgo e aveva una copia dell’album, così l’ha diffusa in rete ed è stato frustrante. Una sorpresa rovinata…
Nel 2004, all’epoca del vostro esordio, potevi immaginare quel che sarebbe accaduto, con i tour mondiali e tutto il clamore mediatico?
A quei tempi non sapevo neppure cosa ci aspettasse di lì a due mesi, figurati dopo vent’anni. Quando siamo partiti con la band volevamo fondamentalmente divertirci. Da un certo punto di vista era un modo per bere qualcosa con gli amici, ma da una prospettiva artistica c’era molta serietà. Avevo moltissime idee e c’era così tanto che volevo esprimere, ma ormai non ero più molto giovane. Quando iniziammo coi Franz Ferdinand avevo 29 anni, ma ero già stato in un’altra band con cui, due anni prima, avevamo pubblicato un disco… e si era trattato di un fallimento totale. In quel momento avevo pensato: ok, questo è tutto, non avremo mai successo come band, quindi divertiamoci e basta, facciamolo solo per il piacere di farlo.
Ovviamente da allora sono cambiate tante cose, sia nel mondo musicale che nei Franz Ferdinand, ma quali sono per te i mutamenti più importanti?
Non mi aspettavo il cosiddetto successo, ma da quel momento tante cose nella nostra vita sono cambiate, mentre alcune sono rimaste uguali. Sono a Londra in questo momento e prima, camminando per strada, pensavo: «Diavolo, questo quartiere lo riconosco, è lo stesso di sempre, ma è anche così diverso». Provo la stessa cosa con la band, è come se il contorno dello skyline fosse ancora lo stesso, come se l’odore fosse rimasto uguale, ad eccezione di alcuni cambiamenti qua e là. Voglio ancora creare musica che faccia venire voglia di ballare, ho emozioni oscure del cuore che voglio comunicare nei miei testi e sento che sto cercando nuove melodie. A livello personale ovviamente ci sono dei cambiamenti, Nick (McCarthy, chitarrista, nda) e Paul (Thomson, batterista, nda) non sono più nella band ma Julian (Corrie, tastierista, nda) e Dino (Bardot, chitarrista, nda) sono nel gruppo ormai da sei anni e quindi non si sentono gli ultimi arrivati. E Audrey (Tait, batterista, nda) è fantastica, cazzo. Sono davvero triste che Paul non sia più nella band, ma lei è veramente incredibile e sono felicissimo che il mondo possa ascoltare quel che sta facendo.
In passato hai fatto tantissimi lavori, dall’autista al saldatore, per poi lavorare come promoter di concerti e organizzatore al 13th Note di Glasgow. Hai sempre pensato che il tuo destino fosse legato alla musica?
La musica è sempre stata una parte fondamentale della mia vita, fin dagli anni ‘80, quando andavo a scuola e ho iniziato a scrivere dei brani con il mio amico Andrew. Non intendevamo suonarle dal vivo, volevamo semplicemente scrivere canzoni. Così a 17 anni avevo già registrato circa sette o otto album su musicassetta con un piccolo registratore a 4 tracce Tascam. Poi nel 1991, quando avevo 19 anni, ho iniziato a far suonare delle band in questo club, il 13th Note, che originariamente si chiamava Boglestone. Tanti gruppi sono passati da lì, era un posto fantastico, anche perché c’era un impianto audio, alcuni amplificatori e una batteria. Craig, la persona che mi chiamò lì, mi diede carta bianca, così iniziai a far suonare le band non in base alla qualità delle demo: le sceglievo se avevano l’atteggiamento giusto, così sono arrivati tanti musicisti che magari all’inizio non sapevano suonare, ma che avevano l’opportunità di utilizzare l’attrezzatura e di esibirsi davanti al pubblico. È stato davvero fantastico e così sono venute fuori tante formazioni fra cui Yummy Fur e Urusei Yatsura, ma si è esibito anche Stuart Murdoch con un set acustico prima di formare i Belle and Sebastian. Stuart Braithwaite veniva abitualmente da Edimburgo con la sua prima band, i Deadcat Motorbike, e successivamente è tornato con i Mogwai, quando hanno suonato il loro primissimo concerto al Kazoo.
Glasgow è una città imprescindibile per l’evoluzione del rock moderno, quanto lo è stata per i Franz Ferdinand?
Montissimo. Per esempio Bob (Hardy, bassista dei Franz Ferdinand, nda) amava la musica dei Belle and Sebastian, dei Delgados, dei Mogwai e degli Urusei Yatsura e proprio questo lo ha motivato a venire a Glasgow per andare alla scuola d’arte. Julian Corrie ha iniziato proprio su Chemikal Underground con il suo progetto solista Miaoux Miaoux e poi si è unito a noi. La Chemikal Underground è stata determinante e ha continuato la tradizione iniziata con la Postcard Records.
Oggi Glasgow mantiene ancora quel grado di innovazione che aveva a inizio anni 2000?
Glasgow ha avuto e continua ad avere una forte identità, sia a livello musicale che di comunità. Parlo di un tipo di scena che risale alla Postcard Records e agli Orange Juice, ma che esisteva anche prima, con The Poets, Alex Harvey e Billy Connolly con gli Humblebums. Altrettanto importante è ciò che stanno attualmente facendo Stephen Pastel e Michael Casparis con Mono e Monorail (rispettivamente un negozio di dischi indipendente e uno spazio per concerti, nda) e ci sono anche delle nuove band che probabilmente sono ancora poco note. Per esempio i Medicine Cabinet stanno facendo qualcosa di molto bello e sono convinto che tra un anno si parlerà tantissimo di loro.
I Franz Ferdinand per anni sono stati la band che fa ballare le ragazze: vi riconoscete ancora in quella definizione?
Beh sai, si trattava per metà di uno scherzo e per metà di una cosa seria, perché il nostro primo concerto lo abbiamo fatto per lo spettacolo di un’amica chiamato Girl Art. Noi, in pratica, eravamo la boy band e poi c’erano queste cinque ragazze, tutte della classe di Bob alla scuola d’arte. Così, fin dall’inizio, i nostri spettacoli avevano una presenza femminile molto forte nel pubblico e ho notato che il tutto risultava diverso dal resto della scena musicale che gravitava attorno a noi, con band che volevano suonare e impressionare gli uomini, atteggiandosi in modi intellettuali. Fanculo a quella merda! Ricordo che domandai alla mia ragazza di allora perché ci fossero così poche donne ai concerti e la sua risposta fu abbastanza brutale: «Perché sono noiosi e non si può ballare». Invece noi volevamo fare l’opposto, volevamo le ragazze ai nostri show e volevamo che la gente ballasse. Volevo ribellarmi all’idea che non si potesse fare musica che fosse allo stesso tempo emotivamente e intellettualmente stimolante.
Siete senza dubbio una band dal forte appeal live, che ricordi hai dei vostri primi concerti?
Alcuni dei più strani sono i primi in assoluto che abbiamo fatto. Non pensavo che i Franz Ferdinand potessero entrare nel mainstream, ci immaginavo sempre ai margini, così fra fine anni ’90 e inizio ’00 siamo andati in giro per gli squat in Olanda e Germania. Quella scena mi piaceva, mi affascinava il modo in cui le persone si impadronivano degli edifici e questo era ciò che pensavo di voler fare all’inizio: prendere il controllo delle strutture e organizzare da noi gli spettacoli. Pensavo che quello sarebbe stato il mondo in cui saremmo esistiti… ed era fantastico. I primi concerti li facemmo in un posto che chiamammo The Chateau, non avevamo un impianto luci, ma nel seminterrato avevamo trovato dei vecchi lettini da sole dei primi anni ’80, con tutti quei tubi fluorescenti. Allora li abbiamo fissati in modo che stessero in piedi e li abbiamo allineati dietro di noi, così un nostro amico li accendeva e spegneva facendoli sfarfallare e il risultato era davvero bello. Paul era più vicino e si prese una bella scottatura sulla parte posteriore del collo! Poi arrivò la polizia e fece finire il concerto… sì, è stato un periodo piuttosto folle. Poi c’è stato l’estremo opposto, come con gli ultimi concerti fatti prima della pandemia, quando abbiamo suonato al festival Corona Capital a Città del Messico, con qualcosa come 150 mila persone, pazzesco. Passare dagli squat a un concerto con centinaia di migliaia di persone è incredibile.
Cosa rappresenta per te la musica?
Non ho mai avuto scelta, era quello che dovevo fare, è ciò che sono. Quando avevo 4 anni, per Natale mia madre mi regalò questa chitarra di plastica rossa, perché ero già ossessionato dalla musica. Ricordo che da piccolo vedevo sempre in giro la chitarra di mio padre e mi piaceva prenderla in mano, provare a usarla, farle emettere rumori… non avevo scelta, era quello che dovevo fare.
Da dove nasce l’idea di realizzare un greatest hits? È stato difficile escludere alcuni brani da questa raccolta?
Mi piacciono i dischi, intendo proprio gli LP da 12 pollici, è questo il modo in cui penso alla musica. Mi piacciono anche le compilation e quando ero bambino le ascoltavo tantissimo, anche perché sono cresciuto tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘80 e i miei genitori non avevano tanti soldi per comprare molti dischi. Così, molto spesso, quel che si potevano permettere erano proprio le raccolte. Il mio ingresso nel mondo di David Bowie è avvenuto con Changes e con gli altri suoi singoli. Certe volte quello che vuoi ascoltare è proprio una compilation. Intendiamoci, io amo dischi come Low, Station to Station e Scary Monsters, ma certe volte mi piace ascoltare tutti i successi in sequenza, è un diverso tipo di raccoglimento. I singoli abbracciano una carriera, lo sviluppo di un artista, l’esplorazione di suoni diversi. In Hits to the Head ci sono solo 20 canzoni, ma volevo che tutti i brani fossero di qualità audio eccellente. C’erano alcune canzoni che avremmo potuto includere, come Jacqueline o Eleanor Put Your Boots On… e Lazy Boy è sempre stata una grande canzone da suonare dal vivo e anche ora penso che avrebbe dovuto essere nel disco ma… cazzo, se ne metti dentro una devi buttarne fuori un’altra, quindi va bene così.
Puoi descrivere in poche parole ogni album dei Franz Ferdinand?
Per il primo direi: la realizzazione dell’idea. Avevo questa immagine chiara in testa e sento che eravamo veramente focalizzati sul progetto. Per il disco due l’energia e l’euforia della band in quel periodo, perché ormai avevamo girato il mondo suonando dal vivo e avevamo un’energia diversa. Il terzo album lo riassumerei con una frase del brano Ulysses: “I found a new way”, perché era proprio il modo in cui mi sentivo. Per Right Thoughts, Right Words, Right Action penso che il titolo lo riassuma bene, perché durante le registrazioni sentivo che lo stavamo facendo nella maniera giusta e per le giuste ragioni. Con Always Ascending per molti versi eravamo una nuova band, perché è stato allora che Julian e Dino si sono uniti a noi, e quell’ascensione è po’ come un’allegoria religiosa.
Ci sono band che senti affini ai Franz Ferdinand?
In effetti c’è un gruppo, gli Yard Act. Penso che siano una grande band, il loro disco è molto figo e ho provato un’affinità con loro. Sento che appartengono al nostro universo.
Tra l’ascolto di un vinile e lo streaming online, cosa preferisci?
Mi piacciono entrambi, mi piace la possibilità di avere accesso istantaneo alla musica, ma si tratta di una rivoluzione che è avvenuta già 20 anni fa con LimeWire o Audiogalaxy. Si tratta di un modo per ascoltare musica e conoscere band nuove, ma la qualità del suono è una merda. Qualche anno fa feci un esperimento con un album che amo: Plastic Ono Band. L’ho ascoltato su Spotify e su vinile e ho provato la stessa differenza che passa tra guardare dal vivo le cascate del Niagara e vederne una foto sul telefono.