Taylor Hawkins è riuscito in un miracolo | Rolling Stone Italia
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Taylor Hawkins è riuscito in un miracolo

Suonare la batteria per Dave Grohl, che veniva considerato il migliore della sua generazione, era un po’ come cercare di insegnare al Papa qualcosa di nuovo sulle Sacre Scritture

Taylor Hawkins è riuscito in un miracolo

Foto di Paul Rovere/The Age/Fairfax Media via Getty Images

Quando entrò in pianta stabile nei Foo Fighters, per gli ancora pochi orfani di Kurt Cobain che si erano aggrappati con le unghie al nuovo progetto di Dave Grohl, Taylor Hawkins non era altro che il batterista di Alanis Morissette. Non che quello rappresentasse qualcosa di negativo, però diciamo che la notizia venne accolta con moderato entusiasmo.

Un po’ perché tutti speravamo che, con l’addio di William Goldsmith, Grohl avrebbe ripreso in mano il ruolo per cui tutti lo conoscevamo, ma anche perché ci eravamo messi nei panni del giovane Taylor: suonare la batteria per colui che veniva considerato il migliore della sua generazione era un po’ come cercare di insegnare al Papa qualcosa di nuovo sulle Sacre Scritture.

Eppure, ai tempi, pochi sapevano che quel matrimonio avrebbe già dovuto avvenire da diverso tempo. Come raccontò lo stesso Grohl nella sua autobiografia, The Storyteller: «Ai tempi in cui suonava la batteria per Alanis Morissette, molto prima di entrare nei Foo Fighters, ci incontravamo spesso nel backstage dei festival ai quattro angoli del mondo e la chimica tra noi era così evidente che persino Alanis una volta gli aveva chiesto: Cosa pensi di fare quando Dave ti chiederà di diventare il suo batterista?».

Per capire che i due fossero fatti uno per l’altro, bastò assistere ai primi concerti della nuova formazione. Hawkins era riuscito in un miracolo simile a quello di cui era stato protagonista Dave qualche anno prima con i Nirvana: riuscire a far fare loro il salto di qualità in termini di sound. Non fu un caso, dunque, che da lì in poi la band finì di essere considerata il progetto di un’ex divinità annoiata e senza nessuno spessore artistico (come veniva definita dai die hard fan dei Nirvana), per trasformarsi nel live act rock più divertente del nuovo millennio.

Dello spessore e dell’intellettualismo, per altro, a Grohl non era mai fregato nulla e in Hawkins aveva trovato il partner in crime definitivo: «Eravamo un incrocio tra Beavis e Butt-Head e i due tizi di Scemo e più scemo», raccontò ancora Grohl a proposito di un loro folle viaggia coast to coast da Los Angeles alla Virginia. «Un vortice iperattivo che, ovunque andasse, portava nell’aria fumo di Parliament Lights e rullate di batteria. Non c’era nessun altro con cui sarei voluto partire per quel safari da psicopatici. Studiammo il tragitto per fare alcune soste lungo la strada, passando dalla nonna di Taylor e dallo strip club dei Pantera». Non a caso, se fino al suo ingresso avevamo sempre pensato ai Foo Fighters come al giocattolino di Grohl, da lì in avanti fu chiaro che a quel mostro si fosse aggiunta una seconda testa.

Ho un ricordo personale molto vivido di Taylor Hawkins, che risale al 2011. Freschi forse del loro album migliore, Wasting Light, i Foos suonarono alla Wembley Arena, per chi scrive uno dei migliori concerti della band in assoluto. Il giorno dopo, mi trovavo con un amico al party organizzato dai Queen per celebrare i quarant’anni dalla formazione e la domanda sorse spontanea: «Dici che i Foos faranno un salto?».

Così, la serata passò alla ricerca dei due compagni di bevute più cool del rock mainstream. Mi sarei aspettato di trovarli all’open bar, ma lì incontrai solo Ron Wood. Pur essendo due beoni dichiarati, Dave e Taylor erano lì per i Queen. Dave e Taylor volevano essere i Queen, in qualche modo. Bastava pensare alla loro faccia quando ad Hyde Park erano stati raggiunti da Brian May e Roger Taylor, o alla batteria di Hawkins col faccione di Freddie Mercury, o ancora alle centinaia di volte in cui lo stesso Taylor aveva lasciato la batteria per cantare Under Pressure.

D’altra parte, la sua voglia di diventare una rockstar era iniziata proprio dopo aver visto Freddie Mercury e soci all’Irvine Meadows Amphitheatre nel 1982. Hawkins aveva trent’anni di più sulle spalle, ma non dimenticherò mai la sua espressione di fronte a un costume di scena di Mercury. Se ne stava lì, da solo, immobile a fissare quella teca con un sorriso ebete. Era il ritratto della felicità e allo stesso tempo della fragilità. Forse stava ricordando le sensazioni provate a dieci anni, forse stava pensando che, nonostante per lungo tempo avesse sposato il mito del vivere intensamente e morire giovane, anche lui era diventato un punto di riferimento per milioni di ragazzi.

Quando ho saputo della sua morte, prima ancora che a lui, ho subito pensato a Dave Grohl. Un po’ come quando scompare all’improvviso qualcuno che conosci e ti viene subito da pensare inevitabilmente a chi resta. «Per un attimo, avevo conosciuto il dolore devastante della perdita, ma subito l’avevo accantonato, come si fa con uno scherzo di cattivo gusto», disse Grohl a proposito della morte di Cobain. «In seguito a quell’episodio, il mio rapporto col lutto è cambiato per sempre.

Da quel giorno, la perdita di una persona vicina è diventata per me un esercizio complicato, che comporta l’attesa della telefonata pronta a smentire l’errore, a rassicurarmi che va tutto bene, e poi il bisogno, la supplica, che il dolore cominci a farsi sentire quando diventerà chiaro che il telefono resterà muto». Ripartire, questa volta, sarà forse ancora più difficile.

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