È vero, in questo disgraziato 2022 non c’è (ancora) niente da ridere, ma non tutti gli attivisti si prendono mortalmente sul serio. Non è necessario essere privi di senso dell’umorismo per rivendicare giustizia sociale, battersi contro il razzismo o portare avanti istanze femministe. Ci si può impegnare per un mondo migliore anche senza essere incazzati, inutilmente pesanti o alfieri della cancel culture. A dimostrazione di ciò, basta dare un ascolto all’album di Charlotte Adigéry e Bolis Pupul, Tropical Dancer, che è un concentrato di spunti di riflessione per una società più equa ed empatica. Lui è un produttore trentasettenne di origine asiatica, lei una cantautrice trentaduenne di origine caraibica: sono entrambi cresciuti in Belgio, e hanno cominciato a fare musica insieme quasi per caso nel 2016. A farli incontrare sono stati i Soulwax, storica band elettronica tra le più interessanti d’Europa.
«Stavano lavorando alla colonna sonora del film Belgica di Felix Van Groeningen, ambientato in un club dove suonavano diverse band fittizie», racconta Bolis. La cantante di una di queste band era proprio Charlotte, e se ne innamorano artisticamente al punto di metterla sotto contratto con la loro etichetta, la Deewee. «Quando è entrata in studio per registrare, però, le è venuto una specie di blocco dello scrittore, così hanno chiesto a me, che ai tempi lavoravo lì come fonico, di aiutarla a sviluppare le sue canzoni». Ed è subito perfetta alchimia: anche se fino a quel momento erano due sconosciuti, Charlotte e Bolis chiudono il loro primo EP in appena quattro giorni.
Da allora il sodalizio si è fatto totale: oltre a lavorare insieme Bolis e Charlotte sono diventati grandi amici, di quelli che discutono per ore sviscerando ogni tema e sentimento, e dalle loro chiacchierate è nato uno dei progetti più interessanti della vitalissima scena belga. Tropical Dancer, come dice il nome stesso, è un album di musica elettronica da ballare, e si balla anche molto bene. Contemporaneamente, però, è anche un disco che parla di temi molto caldi nel dibattito pubblico: appropriazione culturale, parità dei generi, intelligenza emotiva, attivismo. «Inizialmente non avevamo intenzione di sviluppare un concept, ma noi due parliamo tantissimo e abbiamo grande stima delle rispettive opinioni: questo si riflette inevitabilmente nella nostra musica», spiega Charlotte. «È stato solo dopo la pubblicazione dell’album che abbiamo capito di avere dato il via a una conversazione globale».
Tra gli argomenti centrali c’è senz’altro il razzismo, che entrambi hanno sperimentato, essendo parte di una minoranza etnica. «Quello che percepisco quando sono in Italia è diverso rispetto a quello belga: è quasi buffo a volte», ammette lei. «Qualche anno fa ero in Sicilia per un concerto, stavo prendendo il sole a bordo piscina e c’era questo signore anziano che, con tipico humour italiano, mi ha fatto capire a gesti che ero molto più nera da un lato che dall’altro, e quindi era ora di rigirarmi per pareggiare il colorito… Discriminatorio, ma anche molto divertente (ride). La sensazione è che da voi il razzismo derivi più che altro da una non-conoscenza del diverso. In Belgio invece c’è vero disprezzo a volte, sono molto più aggressivi. Mi sono capitate delle cose orribili: mi hanno sputato addosso, mi hanno schiaffeggiata…».
«Qui c’è anche pochissima consapevolezza del passato», rincara la dose Bolis. «Certe cose non le insegnano neanche a scuola. Nessuno sembra sapere che Bruxelles è stata costruita letteralmente sulla depredazione del Congo. Credo ci voglia molto tempo per arrivare a una vera consapevolezza, ma vedo un’evoluzione per fortuna, lenta e costante».
Uno dei grandi dubbi di chi desidera un cambiamento reale è quanto esporsi, e come potrebbe essere percepita quell’esposizione. Un tema perfettamente centrato nella traccia Esperanto. Uno dei versi recita: “Sei così offeso anche quando nessuno ti guarda?”. «I social creano un paradosso: le battaglie, gli obbiettivi e i traguardi si mescolano con la voglia delle persone di esporsi e mettersi in mostra», riflette Charlotte . «Guarda il caso di Jussie Smollett, quell’attore nero e afroamericano che ha ingaggiato delle persone perché lo insultassero e picchiassero per strada. Quando la gente usa il suo status di vittima per ottenere ancora più attenzione e popolarità c’è da avere paura. Una giusta indignazione rischia di trasformarsi in vanità nascosta».
Anche Thank You, un brano in cui i due ringraziano ironicamente degli ipotetici commentatori per il loro giudizio non richiesto, sembra essere indirizzato soprattutto al mondo dei social. «Questa è l’era delle opinioni: tutti ne hanno una. Nessuno sembra ricordarsi che dietro ogni storia c’è una persona potenzialmente vulnerabile, e che non è il caso di dimostrare che la si sa sempre più lunga degli altri», dice Charlotte. «Personalmente cerco sempre di stare molto attenta quando mi esprimo: non darei mai il mio parere a una persona che non lo ha chiesto, né la criticherei mai gratuitamente».
Una delle canzoni più incisive è Reappropriate, un giocoso invito a riappropriarsi della propria sessualità e del proprio corpo. Anche se apparentemente leggera, il background da cui nasce non lo è affatto, ci spiega Charlotte Adigéry mentre sullo sfondo della chiamata Zoom sua mamma culla il suo bambino appena nato (nella foto di copertina dell’album era visibilmente incinta). «Da piccola ho vissuto delle esperienze molto traumatiche. Quando ho compiuto trent’anni ho deciso che ne avevo avuto abbastanza, dovevo affrontare in qualche modo la questione e superarla», spiega, con Bolis che annuisce solidale accanto a lei. «Sono andata in terapia e ho cominciato a elaborare il tutto, ma ho anche cominciato a scrivere canzoni sull’argomento. Ricordo che Bolis mi mandò un podcast che parlava del consenso e del potere della parola “no”. Mi ha molto rassicurato il fatto che esistano anche degli uomini così aperti e sensibili al problema. Persone che si chiedono se hanno fatto degli errori in passato, e come possono rimediare e non ripeterli più».
In Tropical Dancer ci sono però anche canzoni che leggere lo sono davvero, come Haha, che campiona una risata di Charlotte. «È una vecchia registrazione che ho ritrovato tempo fa scavando nei miei hard disk. Risale a quando studiavo musica: stavo cercando di esplorare la mia voce il più possibile e quindi mi registravo mentre urlavo, sussurravo e, in questo caso, ridevo», racconta. «La nostra roba è molto impegnata e ricca di messaggi, ma ogni tanto è importante anche tacere e divertirsi e basta. Non vogliamo sembrare troppo pesanti o moralisti».
Sulla stessa falsariga è anche il primo brano, Bel Deewee, che ripete incessantemente il nome di Charlotte: a quanto pare, ogni volta che citofona allo studio di Deewee ha l’abitudine di registrare le buffe vocine che fa per annunciarsi. «È diventato una specie di scherzo condiviso tra noi. Purtroppo Bolis non c’è perché è sempre in anticipo rispetto a me: quando arrivo io è sempre già dentro». Anche Huile Smisse è una sorta di nonsense. «Nasce da una chiacchierata sui francesi», dice Bolis. «Hanno un modo particolarissimo di esprimersi: essendo così fieri della loro lingua adorano parlare, e lo fanno nella maniera più estesa e articolata possibile, mentre noi in Belgio cerchiamo sempre di risparmiare sui vocaboli. Quando facciamo interviste in Francia, ci rendiamo conto che spesso le domande del giornalista sono più lunghe delle nostre risposte. Così abbiamo messo insieme una serie di espressioni di uso comune e frasi fatte nel tentativo di… non dire un bel niente».
Charlotte Adigéry e Bolis Pupul sono un’ulteriore dimostrazione, qualora ce ne fosse bisogno, che a Bruxelles e dintorni c’è parecchio fermento. «Noi giovani belgi ci stiamo finalmente rendendo conto che anche la nostra cultura è interessante: non è che solo ciò che arriva dall’Inghilterra o dalla Scandinavia è valido. Saremo anche una nazione piccola, ma abbiamo qualcosa da dire», esclama Charlotte orgogliosa. «Prendi Angèle: adoro la sua personalità e le sue opinioni. Il fatto che abbia scritto una canzone su Bruxelles è bellissimo, perché è attaccata alle sue radici». Anche Stromae sta regalando grandi soddisfazioni ai colleghi e connazionali: «È fantastico avere un artista così famoso e pop che viene dal nostro stesso background, e che si interessa spesso alle stesse questioni di cui parliamo noi», aggiunge Bolis. «Mi ricorda il meglio dell’arte belga sia in senso musicale che visivo, ritrovo molto di Jacques Brel e René Magritte in lui. Ma anche quando citano altre culture, i nuovi artisti belgi lo fanno in maniera rispettosa: non c’è appropriazione culturale, ma solo apprezzamento. Penso che il miglior modo per essere felici sia non fingere di essere ciò che non sei, ma accettare e abbracciare ciò che sei».