Dopo più di 12 anni scanditi da inchieste, processi e depistaggi, è stata posta la parola fine su uno dei casi di malapolizia e malagiustizia più gravi della storia italiana recente: Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, i due carabinieri autori del pestaggio sfociato nella morte del geometra 31enne Stefano Cucchi, sono stati condannati in via definitiva per omicidio preterintenzionale dalla Corte di Cassazione. La loro pena è stata ridotta da 13 a 12 anni di reclusione.
Cucchi venne fermato a Roma la sera del 15 ottobre 2009 perché trovato in possesso di cannabis e cocaina, chiuso in una cella di sicurezza in seguito alla convalida per l’arresto emessa il mattino seguente dal tribunale. In carcere fu selvaggiamente pestato, sino al punto di provocare la rottura di due vertebre, come accertato ai tempi dallo staff medico del Regina Coeli e del Fatebenefratelli. Una vicenda all’epoca durata sette giorni, tra carceri e ospedali, senza che a Stefano fosse concesso di vedere né avvocati né i famigliari.
Durante il processo per direttissima del 16 ottobre 2009, nessuno sembrò notare le evidenti contusioni già presenti sul corpo del ragazzo: «Gip e Pm non lo guardarono neppure in faccia, era considerato un “ultimo” e così lo hanno trattato; Stefano è morto di giustizia», disse Ilaria Cucchi in alcune interviste rilasciate in seguito alle assoluzioni di tutti gli imputati, dagli agenti implicati nel pestaggio ai medici del pronto soccorso dell’ospedale Pertini, accusati di concorso in omicidio per non aver prontamente prestato soccorso a Stefano in fin di vita. Una storia di abusi di potere, silenzi e umiliazioni ha trascinato a lungo il caso fra omissioni e rimandi burocratici, in uno scenario sempre più simile a un processo kafkiano, dove l’imputato viene ucciso per mano dei suoi guardiani prima che sia riconosciuta una colpa davanti al giudice.
«Fu una via crucis notturna quella di Stefano Cucchi, portato da una stazione all’altra», ha sottolineato in aula il Procuratore generale della Cassazione Tomaso Epidendio durante l’udienza, «e tutte le persone che entrarono in contatto con lui dopo il pestaggio sono rimaste impressionate dalle condizioni del Cucchi: si tratta di un gran numero di soggetti tra i quali infermieri, personale delle scorte, detenuti, agenti di guardia. Davvero si può ritenere che questo numero impressionate di soggetti abbia congiurato contro i carabinieri?”. Epidendio ha inoltre aggiunto che il pestaggio nella caserma Casilina «è stato una punizione corporale di straordinaria gravità, caratterizzata da una evidente mancanza di proporzione con l’atteggiamento non collaborativo del Cucchi». Per questo, il Procuratore ha chiesto la conferma dell’aggravante dei futili motivi per gli imputati.
La Cassazione ha appena confermato la condanna a 12 anni per i due carabinieri responsabili dei pestaggi che hanno portato alla morte di #StefanoCucchi.
Oggi, dopo dodici anni, grazie alla tenacia e alla determinazione della famiglia #Cucchi è stata fatta finalmente giustizia. pic.twitter.com/3wcef7pseQ
— A Buon Diritto (@abuondiritto) April 4, 2022
«Premesso il mio grande rispetto per il dolore della famiglia Cucchi e per le sentenze definitive, non posso esimermi dall’esprimere grande amarezza per la conferma di una condanna che ritengo grave e ingiusta laddove i numerosi periti e consulenti intervenuti nel processo mai hanno fornito una certezza circa le cause della morte del povero Stefano Cucchi e soprattutto i periti del giudice in particolare hanno escluso le lesioni come causa della morte», ha dichiarato all’agenzia stampa Adnkronos l’avvocato Maria Lampitella, che si occupa della difesa legale di Raffaele D’Alessandro. «Aspetteremo le motivazioni ma il materiale processuale imponeva una decisione diversa, magari per un altro reato” aggiunge. In merito all’esecuzione della pena il difensore sottolinea: “Vedremo nelle prossime ore, D’Alessandro non si si sottrarrà alle sue responsabilità».
Finalmente, dopo anni trascorsi a battersi per ottenere giustizia, la sorella di Stefano, Ilaria, ha potuto tirare un sospiro di sollievo: «A questo punto possiamo mettere la parola fine su questa prima parte del processo sull’omicidio di Stefano. Possiamo dire che è stato ucciso di botte, che giustizia è stata fatta nei confronti di loro che ce l’hanno portato via. Devo ringraziare tante persone, il mio pensiero in questo momento va ai miei genitori che di tutto questo si sono ammalati e non possono essere con noi, va ai miei avvocati Fabio Anselmo e Stefano Maccioni e un grande grazie al dottor Giovanni Musarò che ci ha portato fin qui», ha detto dopo la pronuncia della sentenza.
Dovrà ripartire, invece, il processo di secondo grado nei confronti del maresciallo Roberto Mandolini e di Francesco Tedesco, accusati di aver mentito su ciò che accadde nella caserma Casilina. Mandolini era stato condannato a scontare 4 anni di reclusione, mentre Tedesco, che dopo anni ha deciso di vuotare il sacco raccontando ciò che sapeva, era stato condannato a due anni e mezzo di carcere. Per entrambi è previsto un appello bis.