Jack White e il dilemma di ‘Fear of the Dawn’: esistono grandi dischi senza grandi canzoni? | Rolling Stone Italia
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Jack White e il dilemma di ‘Fear of the Dawn’: esistono grandi dischi senza grandi canzoni?

Alla ricerca di esperienze musicali singolari, l'ultimo eccentrico del rock ha fatto un altro disco matto, appariscente e suonato in modo formidabile, ma senza pezzi memorabili. Va bene così?

Jack White e il dilemma di ‘Fear of the Dawn’: esistono grandi dischi senza grandi canzoni?

Jack White

Foto press

Mi sono esaltato per le accelerazioni, i suoni ultraterreni di theremin, i controtempi. Sono quasi saltato sulla sedia per certe iper-distorsioni che fondono chitarra elettrica e sintetizzatore. Ho sorriso quando mi sono imbattuto nel rifacimento di Hi De Ho Man di Cab Calloway. Ho apprezzato il mondo in cui i Led Zeppelin sono finiti in un frullatore in una non-canzone chiamata Eosophobia. Ho amato insomma l’intensità di Fear of the Dawn e il modo tipico di Jack White di prendere idee assurde e portarle alle estreme conseguenze. Mezz’ora dopo avere ascoltato il disco, però, non ricordavo una sola canzone. Ho sentito più volte l’album, l’effetto sorpresa s’è attenuato, ho imparato ad apprezzare i passaggi meno appariscenti e a svalutare gli effetti più grossolani. Mi piace, ma se qualcuno dovesse chiedermi il titolo d’una canzone notevole, di quelle che rimarranno nel tempo, non saprei cosa rispondere. Quella canzone non c’è.

Jack White è l’ultimo grande eccentrico del rock americano. Lo era ai tempi del neo primitivismo dei White Stripes, che guidava seguendo precise regole musicali ed estetiche. Lo è da solista che compie scelte a dir poco anticonvenzionali, per non parlare delle bizzarrie che riferisce chi lo va a trovare a casa o negli uffici della sua etichetta barra negozio barra quartier generale barra missione di vita Third Man Records. È a suo modo una celebrità, ma non di quelle costantemente instagrammate di oggi. Somiglia a quelle d’un tempo che erano estrose e al contempo naïf. È anche un grande musicista, questo è indiscutibile. II mix di talento, eclettismo ed eccentricità fa venire in mente un piccolo Prince.

A differenza dei colleghi revivalisti che hanno un’idea conservatrice del rock, considerato patrimonio prezioso proveniente da un passato che si rimpiange oppure materia sonora da riproporre senza alcuna rielaborazione a beneficio di chi non l’ha mai sentita prima, White è un progressista camuffato da tradizionalista. Parrebbe interessato cioè a conservare la sostanza, non la forma delle cose. È alla costante ricerca di esperienze musicali singolari, un obiettivo che persegue con caparbietà, fino a trasformarlo in una missione suicida. Quattro anni fa ha pubblicato un disco strambo e a tratti informe chiamato Boarding House Reach, un tentativo quasi disperato di ricreare il senso di precarietà e d’irrequietezza tipico del rock sabotandone la forma classica e facendolo suonare a musicisti di area hip hop, un po’ come l’ultimo Bowie che aveva fatto suonare la sua musica a jazzisti.

Fear of the Dawn sembra un sequel meno estremo di Boarding House Reach e ci si aspetta che Entering Heaven Alive, l’album che White pubblicherà a luglio e che è nato nelle stesse session, sia più tradizionale e orientato verso folk e blues. Di Boarding House Reach rimane il bisogno di comunicare con un’intensità timbrica quasi feroce, anche se le canzoni hanno strutture più consuete. Non c’è un solo grande pezzo e del resto Jack White non è mai stato un gran melodista e men che meno un cantante dal timbro accattivante e in ogni caso sono passati 23 anni dal primo album dei White Stripes, è normale che l’ispirazione non sia sempre ai massimi livelli. Non mi stupisce che il disco sia stato accolto in modo difforme. Tra le recensioni più critiche, c’è quella del Rolling Stone americano, che spiega in sostanza che il problema con la musica sperimentale è che a volte gli esperimenti falliscono. L’Independent dice che è l’album è in pratica una lunga jam, il che va bene se è quel che rende felice White, ma per noialtri è un po’ una palla. Secondo Pitchfork, il disco è «una fusione illogica di rock-blues e prog carnascialesco» e tira fuori una delle parole più amate dalla critica musicale, la sentenza di morte artistica usata fin dai tempi del declino del prog: indulgent.

Hanno ragione loro? Jack White ha pisciato fuori dal vaso, Fear of the Dawn è caos disorganizzato e io mi sono fatto prendere dall’eccitazione del primo ascolto? O forse quel caos non è poi così disorganizzato e anche costruzioni sorprendenti, timbri originali ed eccentricità varie hanno un valore estetico e diventano sostanza in un periodo di conformismo musicale come quello stiamo vivendo nel mainstream?

Dischi di questo tipo vengono spesso liquidati con un definitivo «non ha le canzoni». Comprendo l’obiezione e probabilmente siamo tutti d’accordo sul fatto che il disco perfetto dovrebbe avere tutto, pensiero musicale e canzoni memorabili. È per questo che amiamo i Beatles, no? Ma a dispetto della sua apparente semplicità, la canzone è una funzione complessa, non può essere ridotta alla piacevolezza o alla cantabilità o ad altri parametri che ci fanno dire «ha le canzoni». Tanto più nel 2022, quando c’è un gran bisogno di gente che nel rock smuova le acque e non si limiti a rifare il passato. Tanto più dopo avere ascoltato per anni giganti scrivere e interpretare capolavori cantati con una linea melodica piatta o canzoni scritte senza guizzi, ma animate da trovate sonore strepitose. Questo penso: non esistono grandi dischi senza grandi canzoni, ma buoni dischi senza canzoni memorabili sì. Come Fear of the Dawn e la sua musica vagamente informe e matta e sfilacciata e piena di limiti, però eccitante e a suo modo importante nel 2022.

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