A un certo punto era tutto giusto, ma sbagliato. Molto sbagliato. In un Alcatraz milanese compiutamente e compitamente pieno, ti ritrovavi a pensare che: i Subsonica, se hai quarant’anni o giù di lì, sì, sono un pezzo di cuore; sono quelli che (ti) hanno fatto capire che era possibile fare numeri da mainstream partendo dall’underground e senza tradirlo mai; sono quelli che hanno fatto canzoni che hanno segnato un’epoca e che sono state segnate da un’epoca, perché suoni e testi hanno un debito infinito nei confronti della grande scossa degli anni ’90, centri sociali, live venue dalle visioni estetiche progressiste e non stantie, sinistra critica e antagonista (ma comunicativa) e club culture anglosassone ricercata, eccetera eccetera. E tutto questo (ti) è prezioso. Ok. Certo.
Ma tutto questo è passato. Non nascondiamocelo: tutto questo è passato. Lì dove un tempo c’erano i Massive Attack, i Morcheeba, i Portishead, la drum’n’bass di Goldie (tutta roba guarda caso che viene scientificamente diffusa come musica pre-concerto) ora ci sono la trap, l’indie calcuttoso e tommasoparadiso e, per i più ricercati, il reggaeton di Arca e Rosalía, o il rap a favore di stylist e fashion editor. La tentazione sarebbe dire: quanto siamo caduti in basso. Ma il cervello per fortuna ti suggerisce: non dire cazzate, è giusto che ogni generazione abbia i suoi gusti e le sue direttrici, e che questi gusti e direttrici stiano un po’ sul cazzo a genitori e fratelli maggiori. È giusto, è sano. Però ecco: mentre aspettavi che i Subsonica salissero sul palco, con in sottofondo quella colonna sonora così filologicamente e temporalmente appropriata e sincronizzata sui ’90, e mentre ti guardavi attorno, con un pubblico fatto al 90% di over 35 non very normal people e non incravattati ma comunque nemmeno i ventenni raggianti, quasi-antagonisti e controculturali di una volta, ti dicevi: è tutto bello, sì. Ma siamo qua per celebrare il museo di noi stessi. Dei vent’anni che non abbiamo più.
D’altro canto: perché non dovrebbe essere così? Questo tour si chiama Microchip temporale ed è la filiazione/celebrazione di quel Microchip emozionale uscito nel 1999 che ha cambiato la vita di molti e ha diffuso a un pubblico di larga scala ciò che per tutto il decennio avevano conosciuto e conquistato i più accaniti ricercatori di musica bella e società nuova. Un disco così enorme che ha potuto reggere in scioltezza e con gran piglio il maquillage fatto vent’anni dopo, nel 2019, coi brani rifatti e sottoposti alla chirurgia estetica degli innesti dei protagonisti del nuovo pop, indie e rap contemporaneo: poteva essere un mostro, una Orlàn discografica, invece è un album interessante, stuzzicante. Emozionante no: l’emozione è tutta in quei pezzi datati 1999. Uno dei dischi pop italiani migliori di sempre. In primis perché era diventato pop senza esserlo, e senza volerlo essere. Senza pagare il minimo tributo né al rock alla miticovascograndeliga, né alla melodia medioman biagiobaglionipezzalica. Se vi pare poco, non lo è. Non è poco per nulla. È, ancora oggi, un miracolo.
Se però ti metti a guardare vent’anni dopo sempre lo stesso miracolo, questo miracolo diventa semplicemente una messa cantata. E lì pensavamo di essere finiti, nella primissima parte del concerto, diciamo i primi 20 minuti: una messa cantata. Subsonica sciolti e fisicamente in forma, grandi successi della prima parte della loro carriera eseguiti in maniera inappuntabile e precisissima (o precisina?), il pubblico che dondola contento ed educatamente applaude e batte le mani – lì dove un tempo si sarebbe invece scatenato in un pogo o in un agitarsi sfrenato e liberatorio, ma a quarant’anni che poghi a fare? Insomma: tutto a posto, tutto giusto. Tutto appropriato.
E tutto sbagliato. Perché non sapevi se ammetterlo a te stesso, ma: la vera verità è che qui e ora sto avendo solo la pallida rifrazione della gioia e dell’estasi di un tempo. Stimo i Subsonica, amo i Subsonica, vorrò loro sempre bene; ma sono qua al concerto forse più per quello che loro hanno rappresentato nella mia vita, che per quello che mi smuovono ora. Lo penso, ma non me lo dico: mi sembrerebbe di essere irrispettoso. E loro invece meritano tutto il mio rispetto, per i motivi di cui sopra, per la svolta che hanno dato, per essere diventati la mia voce quando ne cercavo una che non mi confinasse alla nicchia, all’antagonismo distruttivo, all’antisocialità. Quindi forse proprio questo è il Microchip temporale, no? È il tenere in vita artificialmente e in modo controllato le suggestioni di un tempo, per renderle un rassicurante prodotto di consumo, e…
… fuck it. Rewind, come direbbero i dj nei sound system della dancehall ragga. Blocca tutto. Tira una manata al vinile o, oggi, al lettore CDJ, e porta indietro bruscamente il pezzo, interrompendo la musica. Riparti. E all’improvviso crea tutta un’altra storia. Tutto un altro pezzo. Tutta un’altra vibra.
C’è uno spartiacque, in questo concerto che stanno portando in giro i cinque torinesi. Ed è quando irrompe l’elemento (semi)esterno, sotto forma di rap e dell’MC Ensi (torinese anche lui, quando usciva Microchip emozionale lui però andava ancora alle medie). Ok, è una mezza sorpresa: Ensi c’è anche in Microchip temporale, nel reload de Il cielo su Torino. La sua comparsata sul palco te la potevi aspettare. Ma basta la sua presenza a iniziare a scompaginare quell’effetto-figurina che stava percorrendo la primissima parte del concerto, coi cinque Subs a fare la compìta figurina Panini di se stessi e della propria indubitabile grandezza. Una botta di adrenalina, che sale poi quando Casacci e soci diventano la backing band per un pezzo dello stesso Ensi e inizia a vorticare e spiazzare pesantemente quando parte, a sorpresa, una cover collettiva di Aspettando il sole di Neffa (con Samuel particolarmente convincente come sostituto di Giuliano Palma, pensa un po’). Poco dopo altro ospite sul palco: Willie Peyote. Torinese anche lui, classe 1985 anche lui. E la sua riattualizzazione di Sonde rende dal vivo ancora di più che su disco. I Subsonica che gli fanno poi da backing band su un pezzo suo dimostrano perché sono dei musicisti clamorosi, e non solo quelli bravi a fare solo le proprie canzoni.
Il concerto è decollato. Il concerto è talmente decollato che una presenza potenzialmente destabilizzante (e, per qualcuno, proprio indisponente) come quella di Myss Keta appare invece perfetta, semplicemente perfetta. Depre duettata tra lei e Samuel è un gioiellino, e quando pure con lei i Subs si fanno backing band viene fuori una versione di Milano sushi e coca semplicemente strepitosa, su sponde Idles tanto per farvi capire (e sì, ci rendiamo conto che accostare Myss Keta agli Idles potrebbe sembrare scemo e sacrilego: ma la musica buona e la creatività vera spazzano via tutti i pregiudizi, e gli automatismi).
A questo punto è cambiato tutto. È maledettamente cambiato tutto, rispetto all’inizio. Cortese celebrazione? Educati applausi, compìto battere le mani a tempo quando Samuel te lo chiede? Ma vaffanculo. Nel momento in cui parte Aurora sogna, l’atmosfera è talmente e vorticosamente diversa che parte il pogo. Sì: parte il pogo. Esattamente come vent’anni fa. Esattamente come quando andavi a vedere la band di Microchip emozionale e cercavi con rabbia qualcosa che non ti facesse vergognare della musica italiana, dell’immobilismo della nostra cultura, delle litanie troppo usurate del pop e del rock di casa nostra. Improvvisamente ti trovi a riscoprire nell’aprile 2022 in modo naturale e quasi animale la vera intensità che la musica live deve avere, e che negli ultimi due decenni troppi concerti negli stadi e nelle arene foderati di videowall giganteschi ti hanno fatto in parte dimenticare, al di là degli ultimi due anni di stop pandemico forzato. Perché questa vampata di coinvolgimento emotivo, in questo concerto subsonico, ti arriva infatti con una scenografia che pare ripresa dal tour di venti, venticinque anni fa: solo luci, niente schermi, niente pedane semoventi, niente effetti speciali, niente colpi di scena, niente di niente. Un vero e proprio club tour. Come del resto recita la dichiarata ragione sociale di queste date. All’inizio ti stavi un po’ annoiando: un po’ perché appunto i cinque torinesi facevano (bene) il Bignami di se stessi, come detto, ma un po’ anche perché ti aspettavi qualche magheggio di scenografia che invece proprio non arrivava. Bene: nel momento in cui il concerto decolla, ti vergogni quasi ad aver pensato ed aspettato una cosa del genere.
Si finisce in gloria. Con un filotto adrenalinico ed uptempo che pesca fra brani meno noti e meno gettonati (Nel centro della fiamma, Lazzaro, Veleno, Punto critico), assolutamente strepitoso, e il suggello di una Tutti i miei sbagli in versione acustica che, ecco, a quel punto lì, ti strappa quasi una lacrima. Guardandoci attorno, per qualcuno quel «quasi» lì si può togliere.
L’avessero fatta uguale – proprio tale e quale – a inizio concerto, avrebbe strappato forse il ritornello cortesemente cantato in coro dalla sala, sì, ma lì per lì in parecchi avrebbero pensato «Oddio, quasi quasi ne approfitto per andare un attimo in bagno e poi a prendere una birretta al bar, che ora non c’è fila». Invece quando alla fine arriva, quando ti viene servita dopo un concerto costruito in questa maniera così intelligente, che prima ti rassicura e poi ti fa capire quanto poco significativa era la tua rassicurazione, allora capisci che forse i Subsonica non sono «la band più figa del mondo» come ha detto più volte Ensi sul palco, ma la band live più figa d’Italia, e pure di gran lunga, questo sì. Questo decisamente sì. Ancora oggi.