Mettere in play un disco di Rancore è come cadere nella tana del Bianconiglio: non si sa mai quando e dove si atterrerà. Questa volta più di tante altre, perché il suo nuovo album, Xenoverso, uscito oggi, è un labirinto in cui è un piacere perdersi. «È come vedere per la prima volta Matrix, non puoi capire tutto immediatamente», ammette lui quando lo incontriamo, seduti sulla panchina di un parchetto in un pomeriggio di sole. «Ma ci sono più livelli di lettura, e il più immediato e istintivo è sicuramente dato dai produttori con cui ho collaborato, che mi hanno regalato un terreno su cui camminare per poter raccontare le regioni di questo mondo».
Spiegare cos’è questo concept album è quasi impossibile: bisogna ascoltarlo, o meglio, immergercisi. La parola indica un universo “altro”, diverso da quello che conosciamo e patria di tutto ciò che è misterioso e scientificamente intangibile, ma si tratta di una vera e propria epopea fantascientifica in musica, una sorta di carteggio tra un universo e un altro. Il modo migliore per spiegarlo è raccontarne la genesi, che è già tutta un programma. «Ti svelo un segreto: l’idea di Xenoverso nasce prima del 2018», racconta Rancore. «Per rendersene conto basta prendere in mano la copia fisica di Musica per bambini (il suo album precedente, risalente proprio al 2018, nda) e guardare la tracklist: alla traccia numero 5 e alla numero 9 ci sono due piccole pergamene. Su Xenoverso, i due skit che spiegano il concept del disco sono posizionati proprio alla traccia 5 e alla 9. E il primo skit inizia con queste parole: “Vedo che qui mancano due lettere”. Le due lettere mancanti sono proprio quelle due canzoni di Musica per bambini, ovvero Sangue di drago e Quando piove, che arrivano dal futuro e sono state rubate e riportate nel passato per essere inserite in Musica per bambini. Ora capisci perché dico che ci sono diventato matto, su questo progetto?».
Ma l’universo parallelo in questione non si limita all’ascolto, perché il web, i social di Rancore e perfino il libretto del CD fisico sono disseminati di indizi e altre chicche per goderne appieno. «Che album sarebbe senza le figurine?», scherza lui. «In ogni copia sono allegate due figurine da attaccare nel booklet, e le altre bisogna andarle a cercare: spero che le persone si attivino in modo da incontrarsi e scambiarsele, magari ai live. Chi mi segue sa che i miei concerti sono sempre un’esperienza, e questo non sarà da meno: cercherò di portare lo xenoverso sul palco».
Il disco esce a due anni dalla sua partecipazione a Sanremo con Eden, brano che aveva vinto il premio come miglior testo e che è incluso nella tracklist. Non molti avrebbero aspettato così tanto, prima di capitalizzare il successo del Festival. E molti si chiedono ancora il perché di questo ritardo.
Già, perché?
Perché c’è bisogno di annaffiare le piante per vederle crescere. Dietro la parola xenoverso c’era una nuova filosofia, quindi nell’ordine dovevo applicarla, viverla, scoprirne tutti i dettagli, descriverla, fotografarla, disegnarla, raccontarla nei testi, trovarle un ambiente musicale. Spiegare l’inspiegabile è molto difficile, e mi sono preso tempo per questa sfida. Non me ne sono preoccupato, perché non sto mai troppo dietro alle logiche di mercato, e questa volta ancora meno del solito: volevo badare solo alla minuziosità dei dettagli. L’idea era di far sì che gli ascoltatori entrassero in un processo attivo, anziché passivo, per poter entrare completamente in questo mondo. Xenoverso è un disco, ma rompe il concetto di disco. Ho cercato di approfondire il concetto con un vero e proprio studio, non tanto sui libri quanto nella realtà. Mi sono reso conto che anche le cose che ci sembrano più tangibili e reali nascondono dentro di sé delle meraviglie. E ho cominciato a costruire.
Costruire cosa?
Negli ultimi due anni ho inventato animali, piante, luoghi. Mi sono reso conto che la nostra stessa ombra è un mistero, un oscuro disegnatore che ricopia continuamente la nostra sagoma, e mi sono messo nei suoi panni in una traccia, Ombra. Ho cercato di immedesimarmi in vari personaggi, che scrivono alcune lettere che viaggiano dall’universo allo xenoverso, o viceversa. Alla fine ero diventato un semplice messaggero. E tutto questo l’ho descritto in musica, ma ho cercato di trasmetterlo anche tramite foto e disegni creati ad hoc, che sembrano un po’ un diario di viaggio. Ed è un viaggio che, se devo dirti la verità, alla fine mi sembra di aver fatto davvero. Non è solo una narrazione che creo per suggestionare: ammetto che a un certo punto sono entrato in terreni pericolosi, sono un po’ impazzito. È come rompere un uovo: la realtà è solo un guscio e nasconde un mistero enorme, ma una volta rotto non si torna indietro. Come il protagonista del film π – Il teorema del delirio, il rischio è di iniziare a confondere la realtà con il fantastico e a connetterti a cose che prima non avevi proprio considerato. Da una parte è bello, dall’altra non molto rassicurante.
Uno dei rischi reali è anche quello di alimentare paranoie collettive: chi comincia a esplorare realtà non tangibili e dimostrabili, per citare una tua dichiarazione, spesso si perde in complottismi vari ed eventuali…
Certo, ma spesso è il potere che usa nemici immaginari per consolidare il consenso. Molto spesso la mente crea dei capri espiatori per giustificare cose che non riesce a spiegarsi: e lo xenoverso (sotto forma di alieni, miracoli, gnomi che ti rubano gli oggetti dentro casa) è sicuramente anche questo. Ma questo non vuol dire che sia solo negativo. Anche quando diventa un ingranaggio del potere o una superstizione, come nel caso del complottismo, bisogna semplicemente trovare un buon rapporto di equilibrio tra i versi, per evitare una vera e propria guerra tra universo e xenoverso, che nel disco un po’ descrivo.
In questa tua ricerca, hai trovato qualcosa che ha scosso profondamente le tue certezze e le tue convinzioni su qualche argomento?
Sicuramente ho capito che tutto ciò che potrebbe sembrare una metafora, molto spesso non lo è. Che anche i luoghi che frequentiamo tutti i giorni, visti da un altro punto di vista, diventano delle realtà di confine. E tutto questo crea nuove emozioni, illumina di nuovo il mondo: in un periodo in cui si sta oscurando a causa di tutto ciò che stiamo vivendo, è più necessario che mai.
Ascoltando il disco – soprattutto gli skit Cronosurfisti e Guerra dei versi, che già citavi prima – è impossibile non pensare alla fantascienza. Sei un fan del genere?
Sono sicuramente appassionato, sia di film che di romanzi: ne ho molti a casa, che ho ereditato da mio padre. Fin da quando sono piccolo, la fantascienza è sempre stata presente. Però ho cercato di non ispirarmi troppo ad altro, e di creare qualcosa che non esistesse già. Sicuramente qualche spunto già approfondito da altri però c’è: ad esempio il Codex Seraphinianus. Ho avuto la fortuna di poter conoscere il suo autore, Luigi Serafini, durante la lavorazione dell’album: nel suo studio mi ha mostrato dal vivo moltissime sue opere e me le ha raccontate. È stata un’esperienza pazzesca, una delle prime volte in cui ho sentito di essere davvero entrato in uno xenoverso tangibile.
Forse anche grazie agli skit, che spiegano un po’ meglio il viaggio di questo disco, ho avuto l’impressione che, rispetto ad altri tuoi lavori passati, Xenoverso sia più accessibile anche ad ascoltatori occasionali.
In realtà credo che questo sia uno dei dischi concettualmente più complessi, tra quelli che ho fatto finora. Però, siccome all’interno della tracklist io di fatto sono il messaggero di diverse persone, c’è qualche brano più complesso, come Arakno 2100, altri che parlano un linguaggio più terreno, come Questa cosa che io ho scritto mi piace o Ignoranze funebri. Idem dal punto di vista sonoro: ci sono brani che vertono su terreni che non avevo mai esplorato, come Equatore con Margherita Vicario.
Su un palco come quello di Sanremo la semplicità paga, ma alla fine del disco hai inserito lo stralcio di una tua intervista in cui ribadisci che la complessità non ti fa paura. Il tuo approccio alla scrittura ha subito un’evoluzione, dopo quell’esperienza?
A Sanremo sono andato con Eden, una canzone tutt’altro che semplice (ride). In generale scrivo in maniera molto naturale, non faccio mai strategie. Il fatto che ci siano livelli di lettura e toni diversi dipende proprio da questa coralità dei personaggi che racconto.
Ami la complessità anche in materia di sound: ami (e riesci a) rappare su beat e atmosfere che molti altri eviterebbero come la peste.
Ho sempre visto i miei album come colonne sonore e nelle colonne sonore non c’è un vero e proprio genere: variano a seconda del film che accompagnano. Per Xenoverso è ancora più vero, perché non è un disco: è un mondo con flora, fauna, leggi fisiche e timeline proprie.
Ma in un certo senso tu vai oltre. In X agosto l’ultima strofa è la versione rappata della poesia 10 agosto, di Giovanni Pascoli, che generazioni di studenti hanno dovuto imparare a memoria tipo filastrocca a scuola. Il rischio di generare un effetto un po’ trash-nostalgico (alla Fiorello, che nel 1993 ricantava Giosuè Carducci in San Martino) era altissimo, e invece sei riuscito a renderla potente e davvero credibile.
C’è da dire che quella poesia, per come è scritta e per la metrica che usa, è già perfetta così. Insomma, il merito è tutto di Pascoli, non mio (ride). Mi sembrava perfetta, perché era parte della storia della canzone X agosto, dove c’è un padre che parte per andare nello spazio a lavorare: raccoglie scorie che sono in orbita e rischiano di schiantarsi sulla Terra. Suo figlio, che ha 8 anni, sta imparando a memoria quella poesia (che Giovanni Pascoli scrisse in memoria del padre Ruggero, ucciso lontano da casa quando il poeta aveva solo 12 anni, nda). C’è una concatenazione di temi: la letteratura, il rapporto padre-figlio, ma anche il cambiamento climatico e l’inquinamento. C’è sempre un ponte tra passato e futuro.
Un’altra canzone che necessita una spiegazione ulteriore è Federico, una specie di disamina splatter della filosofia del Novecento. Ce la spieghi?
Beh, partendo dal presupposto che le canzoni non si spiegano, di Federico posso dirti che è un brano che cerca di attribuire un senso al non-senso. Un po’ come fanno i Monty Python in quella famosa scena della partita di calcio tra filosofi, che vagamente ricorda la mia canzone. Ma c’è anche qualcosa di più tangibile: obbiettivamente i tempi stanno cambiando e sarebbe necessario riuscire a creare dei sistemi che in qualche modo interpretino la realtà. Nel mio brano, una versione splatter della storia, i filosofi sono degli zombie che stanno per risvegliarsi e io e un altro mio amico – si scopre chi è alla fine del brano, ma è uno dei pensatori più importanti in assoluto – ci troviamo in una dimensione alternativa in cui vengono fatti fuori.
Invece in Guardie e ladri, il brano con Nayt, mi sembra che tu vada in una direzione completamente diversa, rispetto alla tua solita produzione: correggimi se sbaglio, ma sembra una metafora sul rap in quanto genere musicale…
Sicuramente è una canzone multistrato. Apparentemente parla di criminalità e di spaccio, ma ad ascoltare bene si capisce che ciò che stiamo spacciando sono rime, parole. Noi viviamo in un mondo a tre dimensioni e sogniamo un mondo a quattro, ma che ne sappiamo che non esista un mondo a due dimensioni che sogna noi, che siamo in un mondo a tre? Quando scrivo su un foglio, che è bidimensionale, è come se interagissi con questa flatlandia delle rime, dove le parole fanno una guerra tra di loro per arrivare all’ascoltatore, che sta nel famoso mondo tridimensionale di cui sopra.
Oddio, mi gira un po’ la testa (risate generali). Questo è un momento storico in cui le uscite discografiche sono più fitte del solito, perché tutti coloro che non hanno pubblicato album durante la pandemia lo fanno adesso: di conseguenza, il tempo medio dedicato all’ascolto dei nuovi dischi è diminuito ulteriormente. Non hai un po’ paura che il senso di un lavoro così intricato possa perdersi un po’?
Non è una cosa che mi spaventa, ma penso che sia possibile. Parte della mia rivolta personale sta proprio in questa sfida, e sono ben felice di non crearmi problemi a riguardo: voglio fare il tipo di dischi che da ascoltatore piacerebbero a me, che mi divertirebbero e Xenoverso mi avrebbe divertito. Non sarei riuscito a raccontare questa storia in un altro modo: piuttosto che alterarne i contorni, sarebbe stato meglio non raccontarla proprio. Credo che, tra tutti coloro che ascolteranno l’album, ci sarà almeno una persona che capirà e apprezzerà lo sforzo: mal che vada, guarderò a lei.