‘Songs for Drella’, il ritorno dell’introvabile film-concerto epocale in nome di Andy Warhol | Rolling Stone Italia
Interviste

‘Songs for Drella’, il ritorno dell’introvabile film-concerto epocale in nome di Andy Warhol

Abbiamo intervistato Ed Lachman in occasione del restauro in 4K della sua magnifica opera visiva e sonora con Lou Reed e John Cale. Dal 17 aprile su MUBI


«Prima ancora di girare il film, Lou Reed mi disse: “Non voglio nessuna cazzo di macchina da presa tra noi e il pubblico, e nemmeno sul palco! La gente paga per vedere lo show, non per vedere qualcuno che gli passa costantemente davanti con un aggeggio per filmare!”. È lì che ho avuto l’idea di farli suonare senza pubblico. Feci di quella difficoltà iniziale, all’apparenza quasi insormontabile, un punto di forza. L’intimità che si crea con loro sul palco, rivedendo oggi le immagini, è unica».

A parlarci – via Zoom, da New York – è Ed Lachman. Direttore della fotografia di tutti i film di Todd Haynes, ma non solo: Wim Wenders, Dennis Hopper, David Byrne, Andrew Niccol, solo per citarne alcuni. Regista di film cult come Ken Park (insieme a Larry Clark), di alcuni video musicali e vari documentari. E, infine, autore dell’ormai introvabile Songs for Drella (dal 17 aprile su MUBI, questo il link per vedere il titolo su piattaforma). Ovvero il film-concerto epocale senza pubblico, l’opera visiva e sonora che, una sera di dicembre del 1989, riunì per una volta due pilastri dei Velvet Underground, Lou Reed e John Cale, a vent’anni dall’ultima volta insieme. Nel nome dell’amico e mentore Andy Warhol. In quel concerto, Reed e Cale diedero un’anticipazione dell’uscita imminente del loro album dedicato proprio a Warhol, scomparso due anni prima. “Drella” infatti è uno dei nickname dell’artista newyorkese, nomignolo-crasi di Dracula e Cinderella, Cenerentola.

I due musicisti sono soli sul palco della Brooklyn Academy of Music, con i loro strumenti e uno schermo su cui scorrono immagini warholiane. Le macchine da presa di Lachman catturano ogni dettaglio e ogni sfumatura. In bianco e nero e a colori. I volti di Lou e John, gli sguardi che si intendono come non fossero mai finiti i Velvet, gli strumenti che dialogano. Trip sonoro e visivo. In un crescendo ipnotico, a tratti febbrile, i musicisti suonano canzone per canzone il concept album Songs for Drella.

Il film è stato girato nei due giorni di prove e la notte del concerto. Alcune canzoni sono prese dalla sessione di prove. «Presenti sul set sempre solo Lou e John, io, le mie macchine da presa, il dolly e qualche altro aiuto operatore», ricorda Ed. Ora è stato restaurato in alta risoluzione 4K dai negativi originali in 16 mm, con la supervisione del regista stesso. Per gli appassionati di musica SFD – film e album – sono una vera gemma. Il film era ormai introvabile. «Esisteva un VHS e anche un Laser Disc anni Novanta della Warner Bros. di pessima qualità», aggiunge Lachman. «Quattro anni fa circa, lo studio di New York che conservava quasi tutti i miei lavori ha chiuso bottega. Dissi al responsabile che mi spedissero a casa tutto il materiale che trovavano con il mio nome sopra. Durante la pandemia ho approfittato della reclusione per spulciare quella scatola che stava prendendo polvere e ho ritrovato il negativo originale 16mm di Songs for Drella in buone condizioni. Ho pensato subito che avrei voluto riversarlo in 4K. Mancava però un suono decente… Allora sono andato dalla Warner Bros. che ha trovato il mix originale. Nell’album alcuni pezzi erano in ordine diverso rispetto a come furono suonati in concerto, ma siamo riusciti a restaurare anche il suono, anche se non è 5:1. Il sound è talmente buono che Todd Haynes, quando abbiamo visto insieme il film alla presentazione al New York Film Festival, mi ha detto: “Il suono è migliore rispetto al mio documentario The Velvet Underground!”».

Come hai avuto l’idea di proiettare immagini warholiane sui volti e sullo schermo al centro del palco?
All’epoca avevo da poco preso parte a un film collettivo dall’album di cover di brani di Cole Porter Red, Hot and Blue (1990, un progetto benefico a sostegno dei malati di AIDS, nda). Ogni regista coinvolto doveva realizzare un breve video da ogni canzone dell’album. Ci arrivai in modo indiretto: il mio segmento, dedicato alla struggente canzone Every Time We Say Goodbye cantata da Annie Lennox, lo avrebbe dovuto dirigere Derek Jarman. Derek però era già troppo malato (la sua malattia e la cecità Jarman le raccontò nel capolavoro Blue, nda) e mi chiese di girarlo al suo posto. Mi diede anche molti filmini in Super8 di quando era bambino… Il volto pallido di Annie Lennox sarebbe stato perfetto come schermo su cui proiettare le immagini di Derek. Quell’idea piacque tantissimo a tutti. Al punto che, anche se in quel film erano coinvolti grandi artisti del cinema come Jim Jarmusch o Neil Jordan, quando Channel 4 cercava qualcuno per dirigere Songs for Drella scelsero me. Una benedizione. Ripresi in parte l’idea di videoproiettare immagini, stavolta warholiane, sui volti dei protagonisti e su uno schermo. Uno spazio minimalista, senza orpelli, senza effetti speciali. Le canzoni dicono tutto quello che c’è da dire. Il ricordo di Andy, quello che pensano le loro teste e sentono i loro cuori. Volevo catturare l’intimità dei musicisti al lavoro senza pubblico, le loro emozioni, il loro modo di comunicare arte attraverso l’arte.

Cosa ti ha spinto, nella versione restaurata, a optare per “decolorare” in bianco e nero le immagini di alcune canzoni?
Quando lo girai all’epoca avrei voluto girare alcuni pezzi in bianco e nero, ma non era possibile, sarebbe stato troppo complicato con i cambi di pellicola. Ora invece, con il restauro digitale, ho potuto trasformare in bianco e nero i brani che ispiravano maggiormente atmosfere senza colori. Alcune canzoni – come Starlight, ad esempio – “suonano” proprio in bianco e nero!

All’epoca hai scelto tu le immagini di Warhol da proiettare?
Non le ho scelte tutte io. Jerry Sterling aveva creato lo spettacolo, io sono arrivato dopo, aggiungendo qualche immagine. Sono entrato nel progetto quando avevano già ottenuto i diritti solo per certe opere dalla Warhol Foundation. Anche le luci dello show erano già state in parte definite. Con il restauro ho potuto rigiocare con alcuni colori e alcune ombre.

I ricordi migliori che hai di Lou e John? Cosa ti sorprese di più in quei pochi giorni di riprese?
Erano entrambi molto distaccati, come tutte le rockstar. Loro fecero il loro lavoro, io feci il mio. Avevano un enorme rispetto fra loro e anche nei miei confronti. John, ad esempio, fu molto disponibile quando gli feci presente che avremmo girato anche le prove, per cui dovevano vestirsi nello stesso modo della sera del concerto. Certo, io ero l’outsider, ma loro non suonavano insieme da vent’anni. Anche in seguito lo fecero solo pochissime volte ancora. Magicamente, suonando di nuovo insieme, ritrovarono subito un’armonia rara. I Velvet Underground si sciolsero perché Lou Reed voleva fare musica rock più accessibile, John Cale continuare nel solco della sperimentazione. La notte del concerto di Songs for Drella per qualche istante parve quasi non si fossero mai separati. Erano passati già tre anni dalla morte di Andy, ma il loro rapporto artistico torna fortissimo in nome di Warhol. Ovvero l’artista che aveva sempre creduto in loro e nella loro musica. Una delle mie canzoni preferite è A Dream, ricordo che qualche critico musicale dell’epoca la stroncò. Penso sia un pezzo magnifico e potente.

Anche il lavoro sul montaggio è notevole. Come lavorasti all’editing?
Ho lavorato con l’ottimo montatore Jay Freund. Volevo che nel montaggio riprendesse vita la performance, certo, ma emergessero anche le emozioni dei due artisti. Nei video musicali spesso il movimento della macchina da presa impone un ritmo e un’emozione, io volevo qualcosa di estremamente diverso. Ogni volta che ti trovi davanti a questo film credo tu abbia la sensazione di essere l’unico, solo, primo e ultimo spettatore della performance. La parola chiave credo sia “intimità”.

Hai fatto un gran lavoro anche come direttore della fotografia per il documentario The Velvet Underground di Todd Haynes (visibile su Apple TV+). Immagino che Todd ti abbia chiesto aiuto anche in fase di preparazione del progetto…
Mi disse che per la maggior parte avremmo lavorato su materiale d’archivio. Abbiamo però pensato subito che sarebbe stato interessante dare un tocco warholiano al visivo. Volevamo lavorare sulle immagini prendendo a modello le litografie di Warhol, dalle rockstar, come Debbie Harry, a Jackie Onassis. Abbiamo deciso di far muovere i colori sui volti. Il bianco e nero, invece, sarebbe stato pieno di luce e di contrasto. Volevo unire questi aspetti, la sensibilità dell’arte di Warhol e l’uso dei colori o del bianco e nero, per definire la persona messa a fuoco. Le interviste dovevano avere colori diversi in base alla personalità dell’intervistato.

Hai conosciuto Andy Warhol?
Negli anni Sessanta e Settanta abitavo sulla 19esima Strada a New York e la Factory era vicino a Union Square, a nemmeno tre isolati da me. Sono stato spesso alla Factory e l’ho visto diverse volte, l’ho conosciuto, ma non posso dire di essere mai stato parte della sua “scena”. Negli anni d’oro della Factory, fra l’altro, mi trovavo in Germania a lavorare con Werner Herzog (per il documentario La Soufrière, uscito nel 1977, nda). Molti anni dopo, mi trovavo nell’appartamento del mio amico Paul Morrissey a Los Angeles. Ho coabitato per diverso tempo con Nico e non l’avevo nemmeno riconosciuta come “Nico”. Mi disse Paul dopo qualche giorno: «Sai? Sei in casa con Nico!». Era molto cambiata.

Chi diede a Warhol il nickname di “Drella”?
Non si sa di preciso. C’erano molte congetture, ma non so dire con esattezza. Di sicuro, a Andy non piaceva per niente quel nomignolo e nessuno osava chiamarlo così di persona, solo in sua assenza…

Raccontavi della scatola con tanti negativi dei tuoi lavori del passato, che hai setacciato durante la pandemia. Possiamo aspettarci qualche altro “tesoro” in arrivo, prossimamente?
Sì, ma da un’altra scatola (ride, nda)… Ho appena finito di lavorare al restauro di un altro film che ho fatto molto tempo fa e di cui si erano perse le tracce. Si tratta del backstage della lavorazione di Lo stato delle cose di Wim Wenders (1982). Oltre a dirigerlo, partecipai alla produzione del documentario, insieme alla compagnia di Wim. Sono stato fortunato a ritrovare una buona copia di quel lavoro, questa volta negli archivi di Monaco. Uscirà presto. È bello ritrovare lavori buoni che non sembravano tanto importanti quaranta anni fa o anche di più.

Un’ultima curiosità. Hai dichiarato che esiste il video di quando Lou Reed prese a calci il treppiede della tua macchina da presa, durante la lavorazione di un promo per Berlin nel 1973. In rete non c’è traccia del  video. Lo vedremo mai?
Sì! Chiederò a MUBI di caricarlo prossimamente come “extra” del film. Vedrete quel frammento di realtà di cui Lou non ricordava niente. Quando, prima della lavorazione di Songs for Drella, gli descrissi quella scena, lui sorrise sardonico, dicendo: «Ed, di quell’epoca non ricordo assolutamente nulla!». E se ne andò (ride, nda). Prima o poi “il calcio” di Lou sarà online!