Downton Abbey è stato uno dei più incredibili fenomeni seriali degli ultimi quindici anni, per certi versi più di serie cult come Breaking Bad, I Sopranos e Game of Thrones. Un prodotto fatto per un pubblico televisivo già attempato che ha appassionato rapidamente anche un’audience più giovane, nonostante sia ambientato all’inizio del XX secolo e si svolga quasi completamente all’interno delle mura di un’antica e bellissima magione della campagna inglese. Eppure il fascino del tè delle cinque, dell’abito da sera per cena, gli intrighi della servitù che si mischiavano a quelli della nobiltà mentre fuori il Titanic affondava e i venti di guerra iniziavano a soffiare hanno rapidamente attecchito in spettatori che andavano dai venti agli ottant’anni. Merito di Julian Fellowes, creatore e showrunner della serie, che ha creato un piccolo mondo antico aggredito dalla modernità a cui ostinatamente resiste.
Sei stagioni, cinque puntate speciali, due film. Il secondo, Downton Abbey II – Una nuova era, nelle sale dal 28 aprile, vede la famiglia Crawley dividersi tra la Costa Azzurra, a causa di un’improvvisa e misteriosa villa ereditata dalla decana sempre interpretata da una sontuosa Maggie Smith, e il palazzo, dove fa irruzione il futuro sotto forma di troupe cinematografica all’alba del sonoro. Il cast che ha accompagnato gli appassionati spettatori nel corso di oltre dodici anni non cambia. Michelle Dockery, Hugh Bonneville, Elizabeth McGovern e tutti gli altri sono sempre al loro posto, a cui si aggiungono qui alcune estemporanee new entry, da Dominic West a Nathalie Baye.
Al suo posto troviamo anche Mr Carson, che torna dalla meritata pensione per rimettere i panni del maggiordomo di famiglia. In quello che è un ruolo ormai iconico nella storia della televisione c’è sempre Jim Carter, attore inglese di lungo corso che ha lavorato in film come Grazie, signora Thatcher, Shakespeare in Love e anche per il Woody Allen in terra britannica di Sogni e delitti. Quando ho sentito la sua voce, mi è sembrato veramente di trovarmi in uno dei saloni di Downton Abbey.
Sono passati dodici anni dall’inizio della serie e quasi trenta all’interno di Downton Abbey, dal 1912 alla fine degli anni ’20. Lavorare a lungo in una serie è già una cosa impegnativa, ma farlo attraversando quasi tre decadi di Storia inglese dev’essere ancora più complicato.
È stato un processo evolutivo, a dire il vero, perché inizialmente l’idea era quella di fare solo tre stagioni: la prima appunto con inizio nel 1912, prima dell’inizio della Prima guerra mondiale, la seconda durante e la terza dopo la conclusione del conflitto. Ma Downton Abbey ha avuto da subito un tale successo che si è pensato di rallentare la scansione temporale in previsione di un prolungamento. In seguito a ciò, il contesto storico ha finito con l’essere meno importante, perché il pubblico ero più interessato a quanto succedeva dentro le mure di Downton Abbey che fuori. Le dinamiche all’interno della famiglia e della servitù sono progressivamente diventate il cuore della serie.
Ma proprio il contrasto quotidiano tra la nobiltà dei Crawley e il proletariato al loro servizio è uno degli aspetti più interessanti di Downton Abbey. Tu sei stato il punto di contatto tra questi due mondi sin dall’inizio, nei panni del maggiordomo Carson. Come hai vissuto questa posizione di privilegio e responsabilità?
È stato come vivere sulle spalle dei giganti. Il maggiordomo è una figura molto importante nella letteratura inglese, basti pensare a P.G. Woodhouse e al suo Jeeves, ma anche nel cinema: Anthony Hopkins in Quel che resta del giorno, naturalmente, ma anche Alfred in Batman, che è assolutamente britannico. Nel corso di Downton Abbey, grazie ai consulenti storici che ci hanno seguito costantemente sul set in questi anni ho scoperto quanto le famiglie aristocratiche fossero dipendenti dalla servitù. Si trattava di un’ostentazione di status, ma anche di una necessità, perché senza i camerieri, i valletti e la governante i padroni di casa erano perduti. Il maggiordomo aveva un ruolo fondamentale, e addirittura veniva pagato ancora di più a seconda di determinate qualità. Un maggiordomo astemio, per esempio, era prezioso, perché essendo il depositario delle chiavi della cantina non cadeva in tentazione. Ma, a parte queste curiosità, era davvero l’unico elemento della servitù a cui era concesso vivere indifferentemente tra i due mondi, quello del sottoscala, dove si lavorava e si cucinava, e quello dei piani superiori, a contatto con la famiglia, che riponeva fiducia incondizionata in lui.
Lavorare per molti anni in una serie ha i suoi pro e i suoi contro per un attore. Se da una parte si rischia di restare incastrati nel ruolo e non riuscire a fare altro, dall’altra ci sono gli indubbi privilegi economici e la possibilità rara di poter dare una completezza al personaggio impossibile al cinema. Come hai vissuto questa condizione nel corso di questi anni?
Per me credo sia stato più semplice rispetto ad altri. Avevo già lavorato in altre serie televisive, ma mai più lunghe di sei episodi in una sola stagione, non volevo annoiarmi nel fare sempre la stessa cosa. Quando mi hanno proposto Downton Abbey per tre stagioni avevo già compiuto sessant’anni, quindi mi trovavo in una condizione per cui accettare non era più un grosso problema, anche, come hai detto tu, perché i benefici economici erano indubbi. E davvero, non avevo mai lavorato in un tale fenomeno televisivo, e non solo io: la stessa Maggie Smith era esterrefatta dal successo. E per quanto riguarda il restare intrappolato nel personaggio, alla mia età è stato più un sollievo, e in ogni caso avevo sei mesi dell’anno liberi durante i quali potevo dedicarmi ad altro. Naturalmente non tutti la vedevano alla stessa maniera, altri attori hanno posto come condizione di non proseguire oltre le prime tre stagioni, a partire da Dan Stevens.
Una nuova era è il titolo di questo nuovo film. Qual è il reale significato?
Significa che il mondo sta cambiando e che anche i palazzi dei nobili devono aprire le porte alla modernità. In questo caso a una troupe cinematografica, che offre la possibilità di un’entrata economica diversa da quelle che da sempre hanno permesso la sopravvivenza di queste tenute, dai campi agli affitti del borgo. Luoghi come Downton Abbey sono già alla fine degli anni ’20fuori dal tempo, ottimi per essere il set di un film, e questo cortocircuito meta-cinematografico sottolinea ulteriormente il passaggio tra passato e futuro.
Lo scontro culturale non avviene solo all’interno delle mura del palazzo, ma anche fuori. Per la prima volta la famiglia va all’estero, nel Sud della Francia. E Mr Carson la accompagna.
Esatto. E, come tutti i più tradizionali rappresentanti della Gran Bretagna, è convinto che parlando in inglese lentamente e a voce alta anche un francese possa comprendere le sue parole.
Come diceva Orlando/Tilda Swinton nel film di Sally Potter, d’altronde. Circa cento anni ci dividono dagli eventi di Downton Abbey, eppure, sebbene in forma diversa, esiste sempre un enorme divario tra classi nel Regno Unito. Quanto, secondo te, Julian Fellowes ha sottolineato questo aspetto più contemporaneo nel corso della serie e dei film?
Guarda, credo che Julian viva nella sua testa molto più all’inizio del XX secolo che nel presente, quindi credo che questo aspetto sia sempre stato secondario. È comunque indubbio che in Gran Bretagna il divario tra diverse estrazioni sociali sia ancora molto presente, più che in altri Paesi europei. E si tratta davvero di un problema di classe d’appartenenza più che economico, anche perché che dopo l’era vittoriana i ricchi sono diventati sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, quindi le differenze e i contrasti si sono ulteriormente acuiti.
Accennavi prima al fatto che Mr Carson sia un uomo estremamente British. Più volte nel corso della serie, e anche in questo nuovo film, rimarca la sua avversione nei confronti del progresso, dal telefono alla radio, fino al cinematografo. Eppure, paradossalmente, è anche la persona più attenta allo scorrere del tempo e degli eventi al di fuori di Downton Abbey. È il suo modo di proteggere la famiglia?
I maggiordomi non si sposavano, erano strettamente legati alla famiglia per cui lavoravano. Anche se Mr Carson a un certo punto convola a nozze con Mrs Hughes, la governante, è assolutamente vero che si considera il barometro morale della famiglia, la sua prima preoccupazione è che il buon nome della casa non venga in alcun modo infangato. E per farlo deve essere consapevole di quello che accade anche oltre le mura. Quindi sì, Mr Carson è il protettore dei Crawley, lo dimostra il legame speciale che ha con Lady Mary, la primogenita che ha visto nascere e che considera un po’ anche sua figlia. Carson lo dice nella prima puntata, d’altronde: “Questa è l’unica famiglia che abbia mai avuto”. Non potrebbe essere più chiaro di così.c