Le peggiori decisioni della Corte Suprema americana | Rolling Stone Italia
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Le peggiori decisioni della Corte Suprema americana

Il massimo organismo giudiziario americano non è nuovo a prendere decisioni infelici

Le peggiori decisioni della Corte Suprema americana

Foto di Sarah Silbiger/Getty Images

La bozza di sentenza trapelata dalla Corte Suprema americana che ha rivelato la possibile soppressione del diritto costituzionale all’aborto sancito dalla sentenza della Roe v. Wade ha scatenato da un lato i progressisti oltraggiati dal possibile arretramento dei diritti civili, dall’altra i conservatori che chiedono che venga investigata la fonte della rivelazione. In ogni modo, questa sarebbe una delle peggiori decisioni mai prese dalla Corte Suprema da… Beh, diciamo che il massimo organismo giudiziario americano non è nuovo a prendere decisioni infelici. Anzi. Di seguito ne indichiamo cinque che hanno contribuito in maniera significativa a peggiorare la situazione negli Stati Uniti.

Dred Scott v. Sanford, 1857

Questo forse è il caso che più di tutti ha scatenato conseguenze gravi, contribuendo a incendiare gli animi in un periodo in cui le divisioni tra il Nord libero e il Sud schiavista si stavano acutizzando. Il ricorso partì da Dred Scott, ex schiavo di un medico dell’esercito residente in Missouri che per lavoro si spostò in Wisconsin e in Illinois, stati dove la schiavitù era stata abolita. Secondo un precedente britannico, se uno schiavo risiedeva per troppo tempo in un territorio “libero”, “l’aria sarebbe stata troppo fine per la schiavitù” e quindi avrebbe ottenuto la libertà, che il padrone non gli concesse. Giunto in sede di Corte Suprema, Scott si vide rigettato il ricorso sulla base del fatto che “nessuna persona di origine africana poteva avere la cittadinanza americana”. Sette giudici su nove approvarono questa versione della sentenza. In due dissentirono: il primo, Benjamin Robbins Curtis, fece notare che nel 1789 gli afroamericani potevano votare in ben cinque stati su tredici; pertanto, il giudizio non “aveva né valore legale né storico”. I commentatori fecero notare che il giudice capo, Roger Taney, possedeva schiavi ed era stato nominato da un democratico come Andrew Jackson che aveva una piantagione di cottone in Tennessee con 110 lavoratori schiavi. Gli abolizionisti scrissero che era un complotto dello “slave power” e che la Corte aveva perso la sua autorità. Per ribaltare la sentenza servirono due emendamenti costituzionali, il quattordicesimo e il quindicesimo e una cosa da poco come una guerra civile tra il governo del repubblicano Abraham Lincoln e la neorepubblica schiavista dei confederati. Tuttora, con gli oltre seicentomila morti complessivi di entrambe le parti, è il conflitto più sanguinoso della storia americana.

Plessy v. Ferguson, 1896

La guerra però servì a poco nel garantire piena cittadinanza agli afroamericani. Dopo il 1876 il governo ritirò le truppe dagli ex stati schiavisti e ai neri rimase “nothing but freedom”, per usare la felice espressione dello storico Eric Foner. Non solo: si creò un sistema di separazione tra le due razze che fornisse a tutti il necessario senza doversi mai incontrare. Si definì questo sistema di segregazione razziale come fosse la garanzia che i neri fossero “Separati ma uguali”. Concezione ipocrita che vedeva questi ultimi con pochi servizi sottofinanziati, mentre i bianchi disponevano di tutto quello di cui avevano bisogno. A far partire la sentenza era stato Homer Plessy, un cittadino di New Orleans che era entrato in un vagone ferroviario riservato ai bianchi. Fece ricorso contro la legge della Louisiana che determinava questa divisione e arrivò fino alla massima Corte che gli diede torto quasi all’unanimità dicendo che i singoli stati avevano piena libertà di decidere in materia di “salute, sicurezza e morale”. Unico a dissentire fu il giudice John Marshall Harlan che scrisse che “la Costituzione non parla né di razze né di classi di cittadini”. Da quel dissenso poi sarebbero partite le sentenze che avrebbero smontato quel sistema, ma soltanto a partire dai tardi anni ’30. Per più di quarant’anni, lo status d’inferiorità di una parte della cittadinanza statunitense venne di fatto sancito per legge.

Lochner v. New York, 1905

Meno conosciuta dei due verdetti precedenti, anche questa sentenza ha deciso per un trentennio che negli Stati Uniti tutte le leggi che cercavano di regolare i diritti dei lavoratori violassero la libertà di contratto degli imprenditori. Il ricorso partì dal panettiere di origine tedesca Joseph Lochner, che fece causa al suo datore per aver violato il Bakeshop Act del 1895, che limitava a un massimo di dieci le ore lavorative giornaliere. La Corte a maggioranza risicata con cinque voti contro quattro ritenne che nessuno potesse limitare gli orari proposti al lavoratore, che rimaneva comunque libero di accettare o meno. Come se avesse pronta una scelta immediata migliore. Il giudice Wendell Holmes, nel suo dissenso individuale, scrisse che più che alla legge, la Corte si era attenuta ai principi del laissez faire. Fino al 1937, gli Stati Uniti non poterono scrivere legge protettive dei lavoratori, e questo si ripercosse anche nei confronti del New Deal. Poi arrivò una sentenza che riconosceva legittimità al salario minimo stabilito dallo stato di Washington. Ma questa è un’altra storia.

Bush v. Gore, 2000

Questa è molto più vicina e le conseguenze furono immediatamente visibili: George W. Bush vinse in Florida in modo decisivo per 534 voti, vincendo la presidenza nonostante la sconfitta nel voto popolare nei confronti di Al Gore, candidato democratico. La Corte Suprema, comandata dal giudice William Rehnquist, definito da Richard Nixon nei giorni della nomina nel 1972 “quel reazionario bastardo”, votò per 5-4 per l’interruzione del riconteggio di 61mila voti dubbi, perché ormai era tardi per il cosiddetto “porto sicuro”: la deadline che chiude i vari contenziosi per passare al voto dei grandi elettori. Se nei dem ha fatto nascere il mito della “vittoria rubata” (secondo un’inchiesta del Miami Herald ciò sarebbe potuto accadere ma in un numero limitato di casi), vent’anni dopo la sentenza sarebbe stata contestata dai legali di Donald Trump per continuare ad avanzare pretese sulle “elezioni truccate”. Senza alcun fondamento, ma quando si ha una narrazione così buona, chi ha bisogno della verità?

Citizen United v. FEC, 2010

Non lo sapevate? Anche le corporation hanno personalità giuridica. Anzi, secondo la giurisprudenza sono proprio persone. E quindi hanno il diritto di parlare. In che modo? Spendendo quanto vogliono nelle campagne elettorali. E tanti saluti quindi ai limiti dalla legge McCain-Feingold del 2001, scritta dal senatore repubblicano John McCain e dal democratico Russ Feingold, che imponevano alle grandi aziende di non spendere soldi nei 30 giorni precedenti alle primarie presidenziali e nei sessanta precedenti le elezioni generali. Grazie a una risicata maggioranza conservatrice (che includeva il giudice Roberts) le entità economiche di qualsiasi tipo, inclusi quindi le noprofit e i sindacati, possono spendere liberamente. Difficilmente però questi due gruppi riescono a tenere il passo con conglomerati come le Koch Industries, il cui proprietario Charles Koch è un sostenitore delle cause neoliberiste e conservatrici. I timori della vigilia erano più che giustificati. Le grandi aziende possono tentare di comprarsi se non le elezioni, almeno i candidati, che una volta eletti difficilmente approveranno leggi che vadano contro i loro interessi.