Trent’anni fa era una star da copertina, il bello della generazione grunge, l’autore di canzoni pop in grado di mandare in visibilio anche la critica. Oggi suona in mezzo alla strada davanti a un pugno di fan sotto una fastidiosa pioggerellina notturna.
Sembra l’attacco di uno di quei pezzi in stile “che fine hanno fatto?”, di quelli in cui la fine che hanno fatto non è mai tanto bella. Invece Evan Dando è qui perché ama la musica, e mezz’ora dopo la fine del concerto dei Lemonheads al Biko di Milano si è presentato fuori dal locale con una chitarra acustica, si è seduto e ha continuato a dire quello che già si era capito vedendolo sul palco: questa è la mia vita, questa è la mia passione, questo è quello che so fare.
Sono stati mesi duri. La morte del padre, avvenuta a luglio dello scorso anno, lo ha fatto precipitare nuovamente nell’incubo dell’eroina, come ha raccontato in una recente intervista rilasciata a Mojo. Ora le cose vanno meglio, lo ha scritto anche in un tweet dopo il concerto di Bologna: il tour celebrativo del trentennale di It’s a Shame About Ray sta andando alla grande, lui è concentrato e si tiene lontano dalla droga.
L’eroina per Dando è una vecchia compagna di viaggio. Sempre nella stessa intervista ha confermato che si trattava della ragione per cui si presentò con due ore di ritardo all’esibizione in programma a Glastonbury 1995. Stava facendosi in un cottage a tre ore di auto dal palco. Il concerto dei Lemonheads venne cancellato, ma su quel palco Dando ci salì ugualmente e tentò di forzare la mano lanciandosi in un set acustico. Il pubblico, in attesa dei Portishead, non la prese bene e protestò vivacemente. “L’unica volta che dei fan del trip hop si sono incazzati” ha scritto il Guardian. Fatto sta che venne energicamente invitato a scendere, mettendo fine a un triennio di successo ed eccessi.
Oggi ha 54 anni e vive a Martha’s Vineyard, l’isola del Massachusetts frequentata dai Kennedy, nota anche per essere stata il set dello Squalo di Steven Spielberg. Ma in inverno si trasferisce in albergo perché la cascina che suo padre gli ha lasciato non ha il riscaldamento. Insomma, non è diventato una rockstar che amministra il suo patrimonio, artistico o finanziario che sia.
Per lui It’s a Shame About Ray è stato assieme una benedizione e una maledizione. Mezz’ora di musica in grado di piacere a tutti, bubblegrunge, canzoni la cui bellezza non è più riuscito a bissare, non così tante tutte insieme. Dieci anni fa era al Bloom di Mezzago per il tour del ventennale, in mezzo ci sono stati altri concerti, anche in Italia, ma l’ultimo album dei Lemonheads con materiale originale è uscito ormai nel 2006. Il tweet citato sopra parla anche di un nuovo disco quasi pronto. Evan Dando dice che scrivere canzoni è come pescare, tutto sta nell’attesa. Nessuno sa se e quando questo album arriverà, ma se nella musica contassero solo l’amore e l’entusiasmo ci sarebbe da essere ottimisti.
La formazione salita sul palco del Biko ha suonato versioni dirette e senza fronzoli del capolavoro uscito nel 1992 (niente cover di Mrs. Robinson, peccato, perché di quel disco era parte integrante), ma è stato nella lunga parentesi acustica che Dando si è presentato in tutta la sua sincera fragilità, forse la stessa che lo aveva spinto a filmare i primi pezzi con il telefonino sistemato in qualche modo alle sue spalle, per trasmettere in videochiamata a qualcuno (la madre?) l’entusiasmo suo e del pubblico.
Chiunque ci fosse dall’altra parte il messaggio era lo stesso del tweet: è tutto ok, sto bene e faccio quello che mi piace. E quello che gli piace è suonare le sue versioni di Abandoned di Lucinda Williams, Speed of the Sound Of Loneliness di John Prine o Old Man Blank dei Bevis Frond. Canzoni che un giorno devono avere acceso in lui qualcosa e con le quali oggi è riuscito a farsi volere bene. Quel bene sincero che si deve a chi come te è appassionato di musica e che dopo due anni difficili per tutti te lo ha voluto dire anche fermandosi a suonare in mezzo alla strada.