Lo ammetto. Appena ho sentito le dichiarazioni di Elisabetta Franchi, quelle dell’intervista al Foglio che ha creato tanto scalpore, la prima cosa che ho fatto è stata accendere il computer e buttare giù una serie di parole ché, guardate, c’avevo un nervoso…
Pigiavo i tasti con tutta l’indignazione possibile, mentre la mia primogenita mi interrompeva perché voleva che ammirassi quante tonalità di pennarello “marrone cacca” (siamo in quel periodo lì) contasse il suo astuccio, a che punto fosse lo straordinario disegno, come avesse sporcato il parquet con l’evidenziatore azzurro e, in generale, quanto desiderasse le mie attenzioni. In una cascata di affermazioni e domande che mettevano, me madre, nella condizione di fare tutto fuorché – e me ne rendo conto solo adesso – ciò che il mio spirito critico mi stava urlando di fare: tenere a bada il sentimentalismo, e ragionare.
Così, quando ho finito di scrivere il mio articoletto di fuoco, ero a posto. La catarsi, avvenuta nel tempo di un disegno molto complesso (e perlopiù nei toni del marrone), di una bambina di cinque anni. Rileggendo quell’articolo in cui dicevo peste e corna, pensavo non solo di aver colto il punto della questione, ma anche sintetizzato il pensiero comune – e, cioè, che le parole della Franchi fossero molto ingiuste – crogiolandomi anche nella certezza che ciò che scrivevo era giusto, perché arricchito della mia personale esperienza.
Ma come una bambina che va a letto nella convinzione di aver fatto un bel disegno e si sveglia ritrovando la propria opera brutta, ecco che una madre riprende in mano le proprie convinzioni su carta e dice: «Oh, ma non è che la Franchi, scoperchiando quel barile di merda, ha portato alla luce una certa verità?».
Così mi sono messa a pensarci, appellandomi a quello spirito critico chiuso in cantina nell’indignazione di poco fa, e trovandomi a rivalutare da fuori la questione. Questa volta, ponendomi non più nei panni della giovane madre offesa dall’ingiustizia sociale; e nemmeno in quelli (anche se bruttini) di Elisabetta Franchi. Piuttosto, mettendomi in quelli stirati bene di un altro imprenditore di mia conoscenza, che per anni è stato anche il mio datore di lavoro: mio padre.
Un professionista che non conta certo i numeri della Franchi, ma che ha comunque un’attività ben avviata, con tanto di beghe e scartoffie da risolvere. In uno studio dove, se è pur vero che non ci sono i ruoli al vertice di una grande azienda, è nella presenza e nella costanza lavorativa delle segretarie (perlopiù donne) che si gioca l’andamento di tutto il carrozzone. Tanto più che, se una di queste se ne va in maternità perché, come deve accadere, è giunto il momento di sfornare, succede che bisogna fare una cosa: risolvere un problema. E lasciatemi dire che, per ben due volte, è stata la sottoscritta, il problema. Constatando quanto mio padre, per quanto felice, si trovasse per le mani una bella gatta da pelare.
Perché, sì: lo sappiamo tutti che esiste l’INPS che viene a mettere una toppa sullo stipendio da pagare alla dipendente gestante. Ma, no: non tutti sanno che neanche il buon Dio sceso in terra talvolta riesce a sopperire alla mancanza di esperienza o, peggio, all’inettitudine di quella chiamata a fare da sostituta. E questo è un dato di fatto che si può riscontrare ai vertici di una grande realtà – Franchi docet – ma che salta tanto più all’occhio se si lavora in uno studio sufficientemente piccolo da far sì che il problema ricada sulla gestione di tutti (aka: lo studio di mio padre).
Se ci mettiamo anche il fatto che ci sono donne (tante, ahimè) che si approfittano pure della propria posizione, la cosa non può che diventare un vero e proprio disastro sociale. Sto parlando delle prescrizioni di maternità a rischio senza che ne sussistano le condizioni. Oppure delle maternità anticipate, e per di più non appena firmato un contratto indeterminato. Non va bene, signore. Non va affatto bene.
Non parliamo poi, di quello che segue il periodo della maternità. Ossia: il dover far fronte, com’è normale che sia, a tutti gli inconvenienti che l’arrivo della creatura porta nella vita della lavoratrice. Per esempio, l’uscita anticipata perché è arrivata la chiamata dall’asilo per una febbre improvvisa. O, per fare un altro esempio, i giorni di assenza perché il bambino non può andare al nido e la baby-sitter ha il Covid. Tutte cose che succedono, per carità, ma che per il datore di lavoro, per quanto comprensivo possa essere, costituiscono una bella rottura di cazzo. E scusate il francesismo.
«Allora, è colpa delle madri?», potrebbe chiedere qualcuna, offesa. «Ma come! Lavoriamo e portiamo avanti l’umanità, stendiamo pure le mutande fetide dei padri, e dovremmo anche essere messe in croce?», sarebbe il commento di un’altra, sul social di turno.
Va bene tutto ma, da giovane madre quale sono, è chiaro che l’intento di questo articolo non è fare una filippica a sostegno di ciò che ha detto Elisabetta Franchi – ricordate cosa dicevo sul mio sdegno iniziale? – piuttosto, partendo da quello, ragionare sul famoso barile di merda di cui parlavo prima. Che, certo, Franchi si è messa nella condizione di scoperchiare a suon di uscite infelici; ma che, com’è evidente, era lì sotto gli occhi di tutti già da un pezzo.
D’altronde, il problema del riuscire a conciliare l’essere madri e lavoratrici c’è. Basta guardare i dati Istat sulle risoluzioni dei contratti lavorativi nel biennio 2019-2020 per capire che in Italia le cose non vanno affatto bene, in questo senso.
Se, nella totalità di dimissioni e risoluzioni consensuali di lavoratori padri e lavoratrici madri, i provvedimenti di convalida interessano lavoratrici madri nel 72,9% dei casi nel 2019, e nel 77,4% dei casi nel 2020, non solo il barile c’è: ma è anche bello pieno. Perché siamo ancora in quella fase storico-sociale in cui una madre, molto spesso, è costretta a scegliere cosa essere: madre o lavoratrice. E perché lo stipendio talvolta non copre le spese del nido e della baby-sitter, e il datore di lavoro, dal canto suo, non può continuare a sopperire alla mancanza di forza lavoro, perdendo oltretutto in credibilità e affidabilità con i clienti.
Perciò, come ne usciamo? Chi ha ragione, infine? La madre che si fa il mazzo per far quadrare il lavoro e le ovvie necessità dei figli o l’imprenditore (o imprenditrice) di turno che, per risolvere il problema fa suo il modello Franchi e assume solo donne che hanno già fatto i cosiddetti tre (o quattro, cit.) giri di boa? Di certo non possiamo smettere di fare figli, né però raccontarci la favoletta che questo non comporti dei disagi alle nostre (e soprattutto alle altrui) necessità.
Mi piacerebbe poter rispondere a queste domande con la sicurezza di dire la cosa giusta. Facendomi magari portavoce della cosa più ovvia che verrebbe da dire, ossia: che ci sia garantita l’apertura di nidi gratuiti sui posti di lavoro. O che ai padri vengano dati più giorni di congedo parentale.
Ma poi guardo il disegno marrone di mia figlia e capisco che il quadro generale è quello di un completo fallimento. Perché mi rendo conto che, ieri mattina, ho peccato due volte: non prestando a lei le dovute attenzioni, mentre cercavo di lavorare; e non lavorando bene, nel cercare di darle attenzioni. E in questa parabola di fallimento si iscrivono anche le chiamate senza risposta ai nidi per quella più piccola, delle mie figlie. Le difficoltà di riuscire a incastrare gli impegni lavorativi e famigliari. Il dover chiedere «scusa» e «per favore» a chi mi ha assunto, anche se la cosa non dipende direttamente da me, ma ha, ovviamente, a che fare con me. Il fallimento: quello mio, delle madri lavoratrici, degli imprenditori, e di tutti.
Sarebbe bello se il caos provocato dalle parole di Elisabetta Franchi non fosse solo per le parole di Elisabetta Franchi. Se non ci limitassimo a tapparci il naso e a passare oltre, di fronte a quel barile lì. Ma a quanto pare, dietro tanta indignazione, non siamo ancora pronti a sporcarci le mani.