Come spesso accade, è notte fonda quando – svegliata per un nonnulla, con gli occhi aperti sull’oscurità – vengo assalita da un dubbio improvviso: «Ma io, su LinkedIn, ci sono ancora?». Cerco di non pensarci, ma più provo a riprendere sonno, più la mia mente si addentra nella fitta boscaglia delle questioni notturne di assoluta importanza. Ossia quel luogo arido di risposte, dove un «Avrò dato il resto giusto a quel signore quattro anni fa?» è solo uno dei tanti arbusti sempreverdi tra i tronchi secolari del «Faranno mai una reunion, i Gemelli Diversi?» e le distese di terra dove talvolta sboccia il fiore del «Com’è che faceva, quella canzone là?».
Mi rigiro in continuazione nel letto, rimuginando a quel punto sul mio fallimentare trascorso su LinkedIn. Ricordo bene che dopo la laurea, ormai otto anni fa, mi ero iscritta con l’intenzione di vedere se saltava fuori un lavoro. D’altronde, «chi se la caga, sennò, una triennale in Lettere?», mi ero detta quella volta, mentre come una forsennata “applicavo” a questo e a quell’annuncio, fiduciosa che l’esperienza lavorativa inesistente non fosse altro che un minuscolo neo sul mio curriculum ben impaginato. Ma dato che non ero poi così ingenua da crederci sul serio, nel frattempo avevo deciso di puntare tutto sulla rete di contatti.
Così aggiungevo amici, ex compagni di scuola, conoscenti delle serate in discoteca (tutto fa brodo), persino completi sconosciuti, accettandone le richieste di collegamento. Risultato: nella mia mail, calma piatta. Nelle notifiche di LinkedIn, solo le sopracitate richieste di collegamento. All’ennesima, si era fatta largo in me la consapevolezza finale. Ossia che, se per la ricerca di un lavoro il mio curriculum era a dir poco insoddisfacente, la mia rete di contatti su LinkedIn era quantomeno deprimente. Risultato: ultimo login e (mi ero detta) a mai più rivederci.
Decido di alzarmi, tanto ormai ho certi nomi e cognomi nella testa, che dio ce ne scampi. E poi, che ci sia ancora o no, s’ha da riattivare questo profilo LinkedIn, ché sono di nuovo alla ricerca di un lavoro. Apro la schermata sul pc, e accedo. Tanto la password è sempre quella dal ’91; la foto anche, più o meno. La cambio, e aggiungo il lavoro che ho fatto in questi anni. Che non c’entra niente con quello che vorrei fare, ma: «Giusto! Posso mettere il corso di specializzazione che ho iniziato un paio di giorni fa!». Lo inserisco, contenta. Passa qualche minuto, poi succede: nel buio della stanza, la mia espressione ingrugnata dal sonno si apre nello stupore.
Tizio scrive: «Complimenti per aver iniziato gli studi presso Vattelapesca!». Sono le tre di notte e, a quanto pare, quest’uomo è insonne quanto me. Rispondo un «Grazie!» con tanto di punto esclamativo, sulla scia di un certo entusiasmo per il mio ritorno su LinkedIn. O, forse, per la disperazione di trovarmi in questa situazione. Poi vado sul suo profilo: siamo già in contatto. Dev’essere un errore dei tempi che furono. Leggo i suoi dati: «Tizio (He/Him)», e già mi scendono. Continuo: «Terzo collegamento. CEO presso sé stesso», e Signore, fa’ che la melatonina faccia effetto in fretta. Tizio riattacca: «Di niente, Valentina. Felice di conoscerti! Spero di trovarti bene!». Vorrei rispondere solo: «Sono le tre di notte, come potresti mai trovarmi bene?». Invece rimango lì impalata, senza nessuna intenzione di scrivere alcunché. Mastico un altro ZzzQuil, magari mi dà la botta finale. E invece mi porta solo a decidere di rispondere un «Bene, grazie», che se si potesse ascoltare al massimo potrebbe essere confuso con una bestemmia.
Nel frattempo, un nuovo messaggio. È Caio, quell’altro che mi ha mandato una richiesta di collegamento poco fa, e che ho accettato solo perché vedo che fa il copywriter. Almeno cozza qualcosa con il settore a cui voglio approdare io. «Ciao, piacere di conoscerti! Sono Caio, copywriter, speaker radiofonico, actor, insegno, esperto in mindfulness, cucino risotti, contadino». Forse non era melatonina, questa che ho appena preso. Sempronio, vecchio contatto, nuovo commento: «Senza offesa, ma sei proprio splendida!». Sopra, figura quello del 2014: «Grazie dell’amicizia! Sei tanto brava quanto bella?». Chi la dura la vince? Non credo. Ma Sempronio, avvocato presso Studio Paperino, è il campione di perseveranza in carica.
Possibile che siano tutti svegli a quest’ora? Possibile che, anni fa, io non mi sia mai accorta di questa tendenza al broccolaggio su LinkedIn? Provo a guardare qualche chat vecchia: niente di che. Solo Sempronio, già avvocato e novello Ulisse, quella volta si era spinto oltre le colonne d’Ercole. Che LinkedIn, in questi anni di mia assenza, abbia portato gli utenti a voler fare anche un altro tipo di networking? Tizio, il CEO presso sé stesso, torna di nuovo all’attacco: «Ti ho aggiunto per conoscerci e fare un po’ di networking». Ecco, appunto. Decido di spegnere il pc e tornare a letto. La prossima volta meglio leggere un libro, se la fitta boscaglia di dubbi notturni prova a inghiottirmi di nuovo. Mi sono data agli scrittori sudamericani ultimamente: Gabriel García Marquez, Roberto Bolaño. Robe di realismo magico, dimensioni oniriche. Realtà e finzione che si combinano, vita e sogno che prendono linfa l’una dall’altro.
Due ore dopo, sono di nuovo sveglia. Mi trascino verso il caffè, pensando che forse l’ho solo sognato, questo chattare su LinkedIn. Forse mi sono lasciata prendere troppo dalle mie letture. «È stato un sogno, senz’altro», mi dico. La convinzione mi culla fino al giorno dopo, quando è sera e il cellulare si illumina con una notifica di LinkedIn. È Tizio, l’He/Him, il CEO presso sé stesso. Di nuovo. Scrive: «Mi aspettavo una risposta a essere sincero, ma sono sicuro dipenda dal periodo intenso al lavoro!». Dove ogni fase del flirt è declinata nell’universo-lavoro; lì, proprio lì dove la mancata risposta è certo segnale di un intenso periodo al lavoro. Lì, proprio lì. Nella chat del social dei professionisti, lo penso: «Meglio cent’anni di solitudine che un amore ai tempi di LinkedIn». E mi è del tutto chiaro che, forse, anche con gli scrittori del Sudamerica è meglio andarci piano per un po’.