Cesare Cremonini – Il nuovo classico
Il ragazzo della Vespa 50 è diventato il nuovo, grande classico della canzone italiana. Lo abbiamo incontrato alla vigilia del tour più grande della sua vita. Ci ha parlato di come la musica lo aiuta a stare meglio, delle affinità fra il suo mestiere e quello del padre medico, di impegno e ambizione. «Sono l'ultimo cantautore della vecchia generazione e il primissimo della nuova, ho sulle spalle il passato, ma parlo al futuro»
Foto: Leandro Manuel Emede; Direzione artistica: Leftloft; Stylist: Nicolò Cerioni; Grooming: Eleonora Volpi; Hair Stylist: Silvano Dottori; Producer: Maria Rosaria Cautilli
Partirà tra pochi giorni, il 9 giugno con una data zero allo Stadio Teghil di Lignano Sabbiadoro, il primo grande tour negli stadi di Cesare Cremonini, dopo l’uscita del suo ultimo lavoro in studio La ragazza del futuro. Otto date con gran finale il 2 luglio all’Autodromo Enzo e Dino Ferrari di Imola – e sappiamo bene cosa significhi Imola per la musica live di questa nazione e per chi la crea e la cresce.
Incontrare Cesare Cremonini, se sei nata negli anni ’80, è un po’ come incontrare te stessa, vederti cresciuta nel suo volto, nella sua pelle, scoprire un eloquio adulto attraverso il suo che hai incontrato, agli esordi, ragazzino come te; incrociare consapevolezze, fragilità e conquiste, nodi del passato snodati nel presente.
Se lo stadio è dunque la più grande conquista performativa per un artista che si fa – davanti al prato e al pubblico – definitivamente statuario, quale migliore occasione per avvicinarsi a Cremonini, osservare bene da vicino, alla lente di ingrandimento e con la giusta illuminazione, quel Cesare che, dai colli bolognesi dei nostri anni ’90, ha conquistato un Paese intero senza mai svendere la sua Vespa 50?
Come stai?
Sono completamente rapito dall’avventura musicale che quest’anno mi ha portato a fare tantissime cose e ora mi porterà a iniziare il tour più grande della mia carriera: è successo davvero moltissimo, è un anno intenso anche perché come tutti venivo da una situazione di lentezza, uno stato opposto. Sto da dio, ma se avessi un equilibrio o una costanza forse non farei questo mestiere. Quando sono giù, quando sono incasinato o irrisolto alla fine mi sento bene, per cui se mi chiedi se sto bene la risposta è sì e poi sotto c’è tutto un mondo che si muove.
È grazie alla musica che stai bene quando ti senti incasinato?
Se la musica, come dicono in tanti, fosse la soluzione a tutto, uno farebbe un disco e poi direbbe: ok, ho risolto. Invece la musica è una bolla, una meravigliosa favola ipnotica che ti trasporta in quella che dovrebbe essere la tua parte migliore. Io mi sento abbastanza curioso e mai abbastanza a posto, non mi accontento mai di quello che sono e riesco a cercare nella musica, quella che faccio io e quella che fanno gli altri, un territorio di trincea fatto di contatto coi sentimenti che mi appartengono e amo e che grazie a lei non perdo, ma tengo vicini. Ormai abbiamo un’età per cui non possiamo dire «un giorno sarò così». Ormai siamo quello che siamo diventati e la musica rappresenta lo spazio ideale per mettere in luce le parti di me che vorrei fossero sotto il sole.
Qual era il tuo gioco preferito quando eri bambino?
Devo dirti la verità, ho grande nostalgia della mia infanzia in questo periodo, e ci penso spesso. Se avessi un figlio sarebbe il momento giusto per riguardare la mia infanzia attraverso una creatura, ma non c’è, quindi lo faccio attraverso me stesso. Se vado indietro nella memoria, da piccolissimo vivevo in campagna, prima del tempo della scuola, lì immaginavo storie, fantasticavo con pupazzi, piccoli giochi semplici, giochi antichi; la mia vita cittadina è iniziata quando avevo 8 anni, prima in campagna c’erano dei giochi di fantasia, soprattutto l’invenzione delle storie. Mimavo i suoni delle macchinine e avrei scoperto a breve l’Amiga 500, la passione per i giochi del computer fino al gioco che ha cambiato la mia vita: imparare a registrare col registratorino di mio padre che era medico e ai convegni si portava sempre quell’oggetto magico che mi ha cambiato la vita.
Un gioco con cui non hai più smesso di divertirti.
Sì, la tua domanda è molto interessante perché mette in relazione i giochi che abbandoni con quelli che non molli più e che diventano il tuo lavoro. Io alla fine sono un nerd, mi sono ben presto appassionato di recording session, l’esercizio a ripetere in maniera ossessiva parti musicali per poterle registrare. A 13 o 14 anni, poi, coi miei primi registratori multitraccia, iniziavo a mettere insieme gli strati, la mia adolescenza era molto normale, ma questa cosa era la mia fissazione, mi ha reso uno che voleva suonare, che voleva mettere su una band, che voleva fare il cantante.
Hai mai avuto il famoso piano B? Voglio dire, hai iniziato da giovanissimo, hai fatto in tempo ad averlo?
No, non l’ho avuto anche perché la mia strada in qualche modo era segnata, se non fossi riuscito a deludere profondamente le aspettative dei miei genitori facendo quel che loro non avevano immaginato per me, non avrei avuto grandi scelte e condividevo comunque la strada in cui i miei mi avrebbero voluto: studiare, emanciparmi. Probabilmente avrei studiato medicina e sarei diventato medico come mio padre, da cui ho preso molte caratteristiche psicoumane, è una strada che non sento di aver mai rifiutato e resta la curiosità di sapere che medico sarei stato, forse un medico un po’ egocentrico
Tipo un Dr. House?
Sì! Mio padre era un medico amato dalla gente, soprattutto dalla gente comune, più semplice, era dotato di straordinarie umiltà, capacità di ascolto ed empatia, aveva una grande autorevolezza. Era medico fisiologo, cardiologo e dietologo, quindi con grande bagaglio di conoscenza e cultura, in un momento in cui in provincia, dove noi eravamo, il medico era una figura di riferimento al di là della salute, proprio per la vita. Alla fine mio padre era come fosse uno famoso, ma era un medico. Nella piccola città in cui siamo cresciuti, nella frazione di San Lazzaro, comune in provincia di Bologna lui era riconosciuto per strada ed era omaggiato come primo medico della storia in quella comunità. Io da piccolo ricordo che il suo rapporto con un pubblico che erano i suoi pazienti mi ha messo in una certa prospettiva nei confronti degli altri che poi è sicuramente quella che ho in qualche modo cercato di replicare nel mio lavoro. Anche, se vuoi, nel coltivare la pazienza e il pensiero che il tuo lavoro ti deve far aver un ruolo di accoglienza nei confronti degli altri, un senso di responsabilità e di etica.
Questa cosa mi colpisce, parli di disponibilità, di responsabilità etica nel parlare di fronte a tante persone, è una cosa che molti tuoi colleghi rifuggono pensando l’artista come distante da certi pensieri o meccanismi. Molti si sollevano anche dalla definizione di “cantautore”, per esempio, che è un termine che tu invece rivendichi.
Io sono l’ultimo cantautore della vecchia generazione e il primissimo nato della nuova. Qualsiasi cosa saranno i nuovi giovani cantautori, io mi sentirò sempre un ragazzo che è stato in un solco di mezzo e che guardando al futuro ha cercato di portare avanti qualcosa di un mondo che è ancora oggi per tanti un punto di riferimento. Credo nella musica unita, non nelle separazioni, per me non abbandonare il passato e portarmi verso il futuro è stato anche un dovere. Tengo molto a dire che in questo lavoro ci sono anche cose che si fanno perché si sente che il proprio ruolo in un dato tempo è quello, cose che si fanno non solo guidati dall’idea di fare scelte a proprio vantaggio. Alcuni giocatori di calcio scelgono una squadra per la vita, lo fanno magari per un senso di fedeltà, si sentono bandiere di quella squadra, io mi sento una bandiera rispetto a un certo modo di fare musica, non so se ho valore in altri sensi, altri lo hanno, ma sento davvero che il mio ruolo è questo.
Un’amica mi ha raccontato di essere stata qualche tempo fa a un concerto di Salmo a Bologna e che a un certo punto lui ha deciso di omaggiare dal palco un grande cantautore della città, lei aveva pensato istintivamente a Dalla, ma Salmo alla fine ha detto: Cesare Cremonini.
Io ho costruito una carriera non da cantante, l’ho costruita per essere una voce attraverso la mia sensibilità, che è ciò che ho avuto fin da piccolo. Ancora prima delle lezioni di pianoforte ho creduto nella musica attraverso la mia sensibilità, credevo alla possibilità di coinvolgere altri in questa sensibilità e ora so che è la sensibilità che crea la tua voce. Se torno indietro vedo che è stata la sensibilità a guidare il mio percorso e quindi non mi pento, se avessi seguito schemi mentali diversi oggi forse dovrei cestinare moltissime cose fatte in passato. Questo è un momento di cambi epocali generazionali, tecnologici e legati al consumo della musica, alla fruizione ed è anche un momento pieno di cambi di influenze e generi. Vivere questo a 40 anni, proprio nel pieno della tua vita, ti conferma che hai un ruolo ben preciso, il mio ruolo è tenere insieme passato, presente e futuro attraverso il bagaglio musicale che mi è stato dato, il fatto di aver studiato musica, di avere una proprietà di linguaggio musicale, e poter trasmettere ai più giovani questo, ragazzi che hanno rapporti con tecnologie avanzate, ma faticano a riconoscere l’armonia, in un momento in cui anche l’approccio alla melodia è molto cambiato. Il mio ruolo è questo e anche per questo molti giovanissimi artisti, anche della scena trap, hanno grande rispetto di quello che faccio, la mia coerenza ha sulle spalle il passato, ma parla al futuro. Li tiene insieme.
Usi molto l’espressione “tenere insieme”. Tu sei molto bravo per esempio a tenere insieme la riflessione, l’interiore, e il mondo, l’altro da te; parli moltissimo di famiglia, poi parli di ciò che è fuori da quel nucleo, ma senza cambiare il tuo registro, in continuità. Firmi i dischi solo col tuo cognome, come il McCartney che tu ami nei suoi tre dischi fatti da solo dopo i Beatles, dove emergono riflessioni intime sul privato e sulla realtà.
Uso Cremonini perché mi pare serva a trasferire al meglio un’idea di solidità, la parte più impegnata del mio lavoro. Ecco, “impegnata” è la parola che usava mio padre quando parlava del suo lavoro. Io credo di essere molto impegnato nel mio lavoro, che significa viverlo con una piena visceralità e farlo coincidere con la propria esigenza e con le proprie esigenze umane, col modo di vivere che ti permette di fare questo tipo di lavoro per più di 20 anni. In questo senso l’etica è centrale. Io penso che uno possa fare dischi strani, belli o brutti che siano, e pure inventarsi nuove regole per il mercato discografico. Non mi preoccupa questo. Mi preoccupa quando manca l’etica, perché se manca quella non c’è futuro, e una delle cose peggiori che possono capitare a chi fa questo lavoro è non farlo più, per me sarebbe come fare i conti con una sorta di morte.
Cosa ti fa paura? Ti spaventano questi stadi?
Dopo Sanremo non mi fa più paura quasi niente. Mi ha cambiato profondamente. L’esposizione della propria natura, del proprio dare assoluto è una cosa forte. Se la tua ambizione è quella di scrivere pagine della musica italiana e non solo far parte della musica italiana, quel palco è un crocevia, ti misuri con tutta l’Italia, un televisore su due ti guarda, significa mettersi in esame in maniera molto profonda. Per fortuna mi rendevo conto di star facendo qualcosa per me stesso non solo per la televisione o per il pubblico, ma proprio per me, per la mia persona davanti allo specchio.
A proposito di specchio, qualche tempo fa hai detto in un’intervista «cosa siamo senza l’inconscio?».
Certo, e a proposito, senti qua: dopo Sanremo ho sognato per dodici giorni – li ho contati – di non aver fatto il Festival, questo perché quel tipo di esame con me stesso era stato vissuto in una maniera talmente profonda che il mio inconscio ci ha messo 12 giorni a processare tutto.
Ora vivrai gli stadi in modo liberatorio.
Sì, una festa! Ho sognato tutta la vita di fare gli stadi, di farli veramente così, riempire la provincia, sette stadi, Milano, Imola. Quando ero ragazzino riempire gli stadi era una cosa che si basava non su quanto vendevi ma sulla credibilità. Era il regno di Vasco, poi di Ligabue. Il vero punto non era vendere tanto, fare gli stadi era una cosa con un’aura, come lo sono certe parole, tipo appunto cantautore. Ci siamo arrivati Jovanotti e io ora, e lo stadio è simbolo di carriere, percorsi molto lunghi. I miei artisti di riferimento sono sempre stati quelli in grado di essere uomini di spettacolo per tutta la vita, questo era il mio desiderio già a 13 anni, quando ho iniziato a sognare questo lavoro. Essere di questa generazione alla fine, sai, è una grande fortuna, lo dico guardando la mia stessa biografia.
Ci sono stati momenti molto duri?
Molto dolore, sconfitte, dodici anni di feste di piazza senza un pagante che volesse mettere soldi in un biglietto di un mio concerto. Non appartenevo ad alcuna famiglia televisiva, zero sostegni promozionali. A un certo punto ho deciso che la tv sarebbe stata un errore perché il marchio di fabbrica dei Lùnapop non se ne voleva andare e ancora oggi fatica a farlo, pensa che paradosso. Mi sono risollevato solo grazie alle mie canzoni e questa esperienza mi ha insegnato ad alzare il tiro, album come Possibili scenari o Poetica sono merito delle mie difficoltà, avevo 30 anni e mi sono detto, dopo dieci anni di carriera e un repertorio amato dal pubblico, che quello era solo l’inizio. In questo senso l’esperienza all’interno di questo tempo, un tempo difficile che mette alla prova un artista e mi ha messo dunque alla prova, mi ha chiesto di buttare il cuore oltre l’ostacolo per non soccombere alle difficoltà. Il risultato è una carriera che mi porta a realizzare il sogno della mia vita.
Non sei mai entrato in conflitto con i tuoi esordi giovanili?
No mai, anzi, penso che 50 Special sia una canzone importantissima, da 22 anni la cantano generazioni sempre diverse, poiché la canzone risponde sempre alla legge della verità e la verità era parte di quel progetto come tutte le canzoni che ho scritto e che ho voluto fare. I Lùnapop erano un progetto autentico, venivamo dalla scuola, le canzoni erano scritte per gli amici, non per un pubblico o per onorare un contratto discografico, le major ci rifutarono ma siamo stati primi in classifica per un anno: senza regole, senza problemi, eravamo scordinati, scorretti, pop. La spinta di quell’esplosione si sente ancora e questo dice moltissimo.
Il momento in cui sei stato più coraggioso?
Artisticamente con Possibili scenari, ho sacrificato due anni di vita per quel disco, io ci credevo, anche il mio pubblico, ma c’era intorno un certo scetticismo, in fondo sono sempre stato uno che ha dovuto sfondare le porte, nessuno me le ha mai aperte; è stato un atto di coraggio e mi ha fatto una grande paura, dopo un periodo acustico in cui l’unica cosa che potevi fare era il cantautore perché se sei solista in questo Paese sei cantautore e se sei cantautore sono fatti tuoi visto il patrimonio cantautorale mostruoso che abbiamo. Dopo cinque dischi da cantautore avevo una cifra, un immaginario, ma ero destinato ai teatri, solo che io ho Freddie Mercury tatuato sul braccio e sentivo che avevo una mia energia da canalizzare, così dopo due tour nei palasport sono arrivato al punto di fare quello che mi avrebbe portato agli stadi e… ho fatto Poetica.
Quasi una provocazione.
Sì, penso di essere provocatorio di natura, uno che si crea i problemi per poterli superare, è una mia caratteristica peculiare, ma alla fine un provocatore non è uno stronzo, è solo uno che si crea la sua fossa per potersi buttare dentro e tirar fuori la rabbia per uscirne, è il mio modo di vivere la realtà, di reagire alla realtà. Poi alla fine penso che nella mia storia almeno un piccolo risultato io possa dire di averlo raggiunto, e cioè di non essere più totalmente in balia di numeri o risultati di questo tipo, che un disco vada bene o vada male io continuerò a fare musica, sulla mia strada.
Che cos’è per te una grande canzone?
Un’opera che grazie alla sua ambiguità, al suo originare da un punto oscuro di chi la scrive, riesce a esaltare persone diverse e soggettività diverse. Nessuno sa come si scrivono grandi canzoni, io meno di tutti, le canzoni vengono da un punto ignoto di chi le scrive, la canzone viene da un luogo di passaggio dalla vita normale a quella dell’essere un umano che scrive pezzi e venendo da lì ti scappa dalle mani, per raggiungere gli altri. Poi alla grande canzone serve tempo. La cornice culturale in cui facciamo canzoni si modifica sempre, una grande canzone può definirsi anche in un tempo lungo, in cui muove cose diverse in chi ascolta.
Cosa ti commuove?
La comprensione che mi arriva come una consolazione molto forte e istantanea quando teniamo duro. Viviamo tutti a denti stretti, per non crollare ci viene richiesto il costante sforzo di trattenere molto, quindi basta un piccolo riconoscimento a ciò che facciamo, un complimento, e ci sciogliamo. Stiamo faticando tutti molto, la società mi pare stia lottando e ci sia la sensazione di essere tutti un po’ a rischio, scoperti. Nessuno, io per primo, è esente dal sentire una sensazione di incognita sul futuro, non su ciò che si è costruito, ma su ciò che può accadere. Sappiamo tutti di non poter allentare la presa, per cui la carezza mi commuove profondamente. Ma poi devo dirti che sono uno che si commuove per molte cose, mi commuovono i silenziosi sforzi degli altri e tutte le loro commozioni.
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Foto: Leandro Manuel Emede
Direzione creativa: Leftloft
Stylist: Nicolò Cerioni
Grooming: Eleonora Volpi
Hair Stylist: Silvano Dottori
Producer: Maria Rosaria Cautilli