C’è stato un momento – per la verità piuttosto esteso nel tempo – in cui Fabri Fibra è stato insieme il rapper più odiato d’Italia e il pericolo pubblico numero uno del Paese. Non sono trascorsi molti anni da quella fase storica, eppure paiono svariate ere geologiche fa, dentro e fuori la musica italiana. Si ricordano le denunce a seguito delle sue rime, le polemiche infinite, le richieste di censura ripetute e continuative, addirittura l’esclusione da un Primo maggio romano per misoginia acuta.
A meno di dieci anni da allora, oggi a nessuno verrebbe in mente di accusarlo di omofobia, discriminazione o addirittura incitamento all’odio. Sono cambiati i tempi, il rap è diventato mainstream non soltanto nei consumi ma nella cultura del Paese, qualche passo avanti – anche significativo – è stato fatto. Ma è stato fatto grazie a chi ha aperto quella strada di significati nuovi, di libertà d’espressione, di immaginazione, di crogiolo culturale e di contrasto alla tradizione e al letteralismo più indolenti – che poi oggi si stia vivendo un triste periodo di riflusso è anche abbastanza evidente ma non è il punto da dibattere qui e ora. Grazie, si sarebbe detto una volta, ai pionieri, ai fondatori. Ai capostipiti. Ecco Fabri Fibra è prima di tutto questo: il capostipite del rap italiano.
Altri, insieme e prima di lui, hanno portato il rap al successo commerciale. Nessuno lo ha però portato a essere preso in considerazione nei circoli della Cultura con la “c” alta (o medio-alta) o nel dibattito pubblico né sulle copertine dei supplementi di approfondimento dei giornaloni. Sono cominciati con lui sdoganamento e riflessione, critiche e ascolto.
Fibra è stato per il rap italiano un po’ quel che Ugo Capeto è stato per le aristocrazie europee o Robert Johnson per il blues. Si dice che Johnson si fosse venduto l’anima al diavolo in cambio di successo e notorietà, la sua e quella del suo genere musicale. Forse la stessa cosa avrà fatto Fibra perché piaccia o meno in Italia chi ha penetrato e fatto intendere il linguaggio del rap alla cultura maiuscola e a quella popolare è il signor Fabrizio Tarducci da Senigallia. E questo sarà sempre il suo posto nella storia del Paese, suo e di nessun altro. Poi, certo, altri si sono aggiunti – pure troppi in verità, a migliaia – ma ormai la strada non solo era stata aperta, era stata ampiamente pavimentata.
Fibra ha accompagnato 20 e più anni di storia d’Italia, da una piena e falsamente ottimistica Seconda Repubblica, ai deliri del recente populismo, fino alle inusitate incertezze dell’oggi ma soprattutto ha modificato i gusti, ha innalzato un’audience che esisteva solo sottotraccia, ha scardinato le gerarchie dell’industria musicale italiana, ha dispensato crudezze e ironie, spesso accoppiandole, così facendo spiazzando bigotti e censori, ha cazzeggiato il giusto e analizzato con spietatezza il Paese, inchiodando per sempre il suo mattoncino dalla parte giusta della bilancia. Sarà per questo che nella copertina di questo numero monografico di Rolling Stone a lui dedicato lo osserviamo per la prima volta scoppiare in una fragorosa risata. Non lo avevamo mai visto così prima d’ora, quando su quel ragazzo nessuno contava e ora che se la ride di gusto quella gente è sempre più lontana.
Il numero speciale di Rolling Stone lo trovi in tutte le edicole e su Amazon.