Nella città in cui passo la maggior parte del mio tempo abita un professore che negli ultimi tre mesi è diventato una star televisiva. Il professor Alessandro Orsini, nato a Napoli nel 1975, vive in un appartamento in una zona semi-centrale di San Benedetto del Tronto, all’estremo sud delle Marche. Lo si può incontrare spesso per strada: d’inverno, quasi sempre avvolto da un piumino rosso stretto in vita mentre cammina nervosamente; d’estate seduto al tavolino di un qualche bar a scrivere. Ecco, in una cittadina di provincia dove non accade mai sostanzialmente nulla, «quello che scrive al bar» lo notano tutti. È così che più di una persona, dopo le prime intemerate televisive del prof all’inizio della guerra, mi ha fermato per dirmi frasi come: «Ma lo sai chi ci stava ieri sera alla televisione? Quello che scrive al bar».
Sposato con una sua ex allieva della Luiss e attuale collega al Fatto Quotidiano, ha un bambino, gioca spesso a pallone (anche in Seconda Categoria con una squadra della vicina città di Grottammare) ed appare ben inserito nel contesto cittadino, cosa non del tutto scontata in provincia, dove i pesci fuor d’acqua delle grandi città si notano e vengono tendenzialmente lasciati ai margini della vita civile.
Negli anni mi è capitato di assistere alle sue conferenze. Sono ragionevolmente convinto di averlo visto per la prima volta nel dicembre del 2015, quando all’Auditorium comunale tenne una lezione intitolata Terrorismo, minaccia globale. Durante la discussione arrivò a parlare delle Brigate Rosse, argomento che a San Benedetto ha un sapore più particolare rispetto a tante altre città – qui, nel 1981, venne sequestrato Roberto Peci, il fratello di Patrizio, primo pentito nella storia dell’organizzazione.
E il giro di fiancheggiatori e simpatizzanti era tutt’altro che ristretto: tanti possono raccontare di aver avuto in qualche modo a che fare con le Br tra la fine degli anni ’70 e la metà degli anni ’80. La sua definizione del brigatismo come fenomeno para-religioso figlio diretto di Antonio Gramsci (personaggio verso il quale Orsini pare avere una pesante avversione personale, definendolo tra le altre cose «vergogna del genere umano», «storpio cervello liberticida» e «nauseante immondizia pedagogica») fece drizzare i capelli in testa a me e non solo a me.
All’uscita, scambiando due chiacchiere con il sindaco di allora, a un certo punto lui mi disse: «Certo che questo qua è di destra tanto…». Il sindaco in questione, cresciuto nel Pci, aveva vissuto gli anni del terrorismo a San Benedetto sul lato della barricata della sinistra istituzionale, quindi non esattamente vicino ai brigatisti e ai loro fiancheggiatori. Eppure, quel giudizio di Orsini aveva lasciato perplesso persino lui. Ad ogni modo Orsini dice di non essere di destra, in realtà. Si è anzi definito come «uno di sinistra schifato», aggiungendo di aver frequentato i gruppi studenteschi legati alla Cgil fino al momento della sua laurea, salvo poi allontanarsi da ogni ambiente politico.
Gli esordi della sua carriera accademica sono segnati da alcuni episodi notevoli, da ribalta nazionale. Nel 2007, 32enne con già cinque monografie all’attivo, finì al centro di uno scandaletto alla Libera Università del Mediterraneo di Casamassima. «Assenteismo», questa l’accusa, anche se diversi suoi colleghi (tra cui personaggi di un certo spessore come Ilvo Diamanti e Franco Ferrarotti) firmeranno un appello a suo sostegno, parlando di «discriminazione» perché Orsini si sarebbe «rifiutato di scrivere un libro sul fondatore dell’università, Giuseppe Degennaro, e ora vogliono cacciarlo dall’ateneo». La questione viaggerà fino al tavolo del ministro del’Università Fabio Mussi, ma il licenziamento arriverà lo stesso. Dalla lettera in sua difesa, comunque, emerge anche un ritratto non meno che entusiasta del giovane Orsini, definito «un ragazzo di cui conosciamo le notevoli qualità intellettuali e l’estrema correttezza e che sta subendo delle odiose misure ritorsive da parte di alcune persone dell’Università in cui è incardinato».
Nel 2010, ricercatore a Tor Vergata, Orsini ritrova l’onore delle cronache per un nuovo scandalo di cui è vittima: candidato per un posto da associato di Sociologia politica all’università di Chieti, si vedrà superare da un candidato interno. «Senza sponsor, senza maestri influenti e non iscritto ad alcuna componente» viene dunque bocciato e su un forum online della Treccani compare un nuovo comunicato di solidarietà nei suoi confronti, sottoscritto da almeno un centinaio di docenti, ricercatori e semplici studiosi. La battaglia fu sostenuta anche da un commissario di quel concorso (che verrà annullato), Umberto Melotti, cattedratico e nume tutelare di Orsini. La strana accoppiata farà discutere non poco i sociologi italiani, che si domandarono quale legittimità avessero i due per ergersi a giudici e sparare giudizi pesantissimi sui loro stessi colleghi.
È in questo periodo che Orsini dà alle stampe Anatomia delle Brigate Rosse, forse il suo libro più citato. Non sempre nel bene. In una recensione all’edizione inglese scritta dallo storico Brian Sandberg, Orsini viene accusato di «confusione metodologica», «approccio completamente astorico» e «inquisitorio» volto a costruire «una teologia politica de-storicizzata», nonché esagerato nell’uso di toni melodrammatici e in grado di sfiorare «il record mondiale di definizioni omesse e questioni evitate», per un’opera utile solo a chi «cerchi appigli per la repressione violenta dei cattivi soggetti». Più che un sociologo che scrive nei bar, il ritratto sembra quello di un sociologo da bar.
Orsini, però, non si è mai perso d’animo né sembra aver mai dato eccessivo peso alle critiche nel merito dei suoi lavori e, tra un post su Facebook e l’altro, ogni difesa viene affidata alla denigrazione dei suoi detrattori, accusati di essere «figli dei partiti», «ideologici», pedine di un sistema in cui lui, coraggiosamente, non è mai voluto entrare. Eppure avrebbe potuto, dal momento che suo padre, Arturo Orsini (morto nel 2014 all’età di 75 anni) è stato ordinario di Teoria e tecniche dei test alla facoltà di Psicologia della Sapienza, non esattamente un signor nessuno dell’accademia italiana.
L’anno della svolta è il 2016: in un colpo solo Orsini pubblica un libro sull’Isis, entra nella commissione voluta dal governo Renzi sulla diffusione del jihadismo in Italia, diventa associato alla Luiss, l’università lo nomina direttore del suo Osservatorio sulla sicurezza internazionale, collabora con il comitato «Scenari Futuri» dello Stato maggiore della difesa italiano e, nel campo del terrorismo diventa una specie di autorità. Tutti lo vogliono, lui sceglie il Messaggero e ne diviene editorialista, nonché autore della rubrica «Atlante». Con l’invasione russa dell’Ucraina e la notorietà televisiva, Orsini perde quasi tutto: la Luiss chiude il suo Osservatorio, il Messaggero gli dà il benservito. Lui va al Fatto Quotidiano, provocando tra le altre cose la fuoriuscita del fondatore Furio Colombo, che non vuole avere niente a che fare con lui e sceglie di lasciare il giornale.
Poi ci sono le voci, gli spifferi: lo scorso marzo Dagospia ha scritto che Orsini abbia lavorato come analista per il Dis (i nostri servizi segreti) e che sia finito alla Luiss grazie alle spinte del diplomatico Giampiero Massolo. La voce non è stata mai smentita, anzi, il Copasir ha formalmente chiesto al Dis quanto ci sia di vero in questa storia, senza aver sin qui ricevuto risposta – a titolo di cronaca, più o meno le stesse cose si dicono di Nathalie Tocci, arcinemica televisiva di Orsini e, in fondo, altro lato della sua stessa medaglia.
Chi è, quindi, Alessandro Orsini? Da quando è scoppiata la guerra in Ucraina, sostanzialmente, è un personaggio televisivo, uno di quelli che alzano lo share delle trasmissioni e che infiammano i dibattiti sui social network. Gli autori dei talk show lo sanno bene, e infatti se lo litigano, come ha raccontato Guia Soncini in un gustoso retroscena uscito lo scorso aprile su Linkiesta.
È lo stadio finale: il problema di Orsini, è evidente, non risiede nelle cose che dice, ma nel modo in cui le dice, in un eterno gesticolare, ribadire la propria posizione intellettuale, innalzarsi continuamente sopra l’interlocutore come se fosse un portatore di verità indiscutibili: Orsini non parla, non spiega, non rivela. Orsini dimostra. Fate caso al numero di volte in cui usa il verbo dimostrare quando è ospite in qualche talk. Se non avete voglia di accendere la televisione, fate la stessa prova sui suoi pezzi per il Fatto Quotidiano.
In questo clima da «Tutta la guerra minuto per minuto», in cui i palinsesti vanno riempiti non di informazioni, non di analisi, non di veri dibattiti, ma di «contenuti» (qualsiasi cosa voglia dire), Orsini è perfetto. Ogni comparsata televisiva, d’altra parte, è un’occasione buona per estrapolare trenta secondi salaci da tagliare e diffondere sui social, riverberando lo strapuntino di un bisticcio che fa spettacolo ma che nulla toglie né tantomeno aggiunge al racconto di questa guerra. Perduta la titolarità del master alla Luiss, ad Orsini resta questo: l’onda mediatica da cavalcare. Finché ce n’è. Tanto i tavolini dei bar di San Benedetto saranno sempre lì ad aspettare il suo ritorno.
Il titolo di questo articolo è una citazione quasi letterale del romanzo con cui Alessandro Barbero vinse il Premio Strega nel 1996. È anche un tributo: al contrario di Orsini, Barbero ha scelto di non concedere interviste su questa guerra. Se volete sentire la sua, ecco una lezione che ha tenuto ai ragazzi di un istituto superiore: