Se pensavate che a 79 anni David Cronenberg fosse lì a guardare i cantieri, non avete ben compreso il personaggio: che invece sul red carpet di Cannes, oltre a degli occhialoni alla moda con cui è difficile passare inosservato (ma quando mai gli è successo?), porta tutti i suoi (e nostri?) incubi.
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Perché in fondo Crimes of the Future, il migliore dei suoi film degli ultimi anni, è una summa delle ossessioni dell’autore canadese: la mutazione genetica e l’evoluzione della specie che gli è cara dai tempi de La mosca, il martirio destabilizzante del corpo (tema fondante e angolare del suo cinema) e la sua trasformazione (eXistenZ), le macchine come organismi viventi e comunicanti (Il pasto nudo, di cui questo film recupera qualcosa anche in termini di estetica), il dolore inflitto e autoinflitto come unico modo per arrivare al vero piacere (Crash), gli strumenti chirurgici utilizzati per creare un altro Io (Inseparabili). Una metamorfosi sociale, politica e filosofica di cui Cronenberg fa manifesto in un mondo degradante dove la chirurgia estetica è meglio del sesso e la mutilazione diventa performance artistica.
Quello in cui si muove il protagonista Saul Tenser (Viggo Mortensen, infiltrato come ne La promessa dell’assassino), artista estremo che fa crescere nel proprio corpo nuovi organi e tumori per poi, grazie alla sua compagna, estirparli pubblicamente e farne contemplare la “bellezza”. Una forma, dolorosa e affascinante, di tatuaggio “interiore”, pratica illegale che sta via via mutando il suo organismo in qualcosa di diverso: una trasformazione comune anche a un gruppo di pericolosi dissidenti che si nutrono (come il bambino della prima, inquietante, sequenza) solo di plastica…
Non sfugge l’urgenza di certi temi (e la sua attualizzazione rispetto all’altro Crimes of the Future che il regista canadese ha girato oltre 50 anni fa) né la riflessione, provocatoria (of course), sul ruolo dell’arte, ma il film è sempre più interessante che entusiasmante, più affascinante che appassionante. E per quanto si cerchi di imporlo come “choc del Festival” avrebbe più senso invece farlo decantare in sala, senza provare a decrittarlo, ma lasciandosi urtare dalla sua valenza profetica.