La storia di Sana Amanat, almeno stando a quello che riporta Wikipedia, è per molti versi esemplare: una storia di riscatto, di successo attraverso un’integrazione sociale difficile, di una definizione della propria identità che deve fare i conti con fortissime radici culturali del Paese d’origine ma pure con le idiosincrasie della nazione adottiva, quegli USA sempre troppo propensi a scivolare nel pregiudizio culturale e nella discriminazione. Nata da genitori Pakistani in un sobborgo del New Jersey a prevalenza bianca, Amanat si è sempre sentita un’outsider. Dopo aver studiato Scienze Politiche con un focus sul Medio Oriente alla Columbia University, inizia la sua gavetta nel mondo dell’editoria approdando infine in una casa editrice di fumetti indipendente, Virgin Comics. Qui impara velocemente l’essenza dello storytelling delle graphic novel e due anni dopo (è il 2009) è pronta per il grande salto. Amanat viene assunta alla Marvel perché è diversa dagli altri: il suo vissuto, la sua storia personale e le sue esperienze le conferiscono una sensibilità, una voce fuori dal coro, proprio quello che sta cercando Marvel per differenziare la propria offerta e avvicinarsi a un pubblico sempre più attento e variegato. Nel 2014 crea assieme a Stephen Wacker Ms. Marvel, primo personaggio musulmano del pantheon supereroistico della grande M. È un successo di critica e pubblico: Ms. Marvel passa diverse settimane all’interno della New York Times Best Sellers List e vince il prestigioso premio Hugo per la miglior graphic story del 2015.
In Ms. Marvel, l’ultima addizione al catalogo di serie live-action Marvel presente su Disney+ (il pilota è stato caricato mercoledì 8 giugno e ciascuno dei rimanenti cinque episodi sarà uploadato ogni mercoledì successivo) di cui Amanat è produttrice esecutiva, mi aspettavo quindi di trovare una grossa porzione di autobiografismo, un racconto nella migliore tradizione coming of age, un genere incentrato su amicizia, drama e riti di passaggio nel quale gli americani sono paradigmatici da decenni. Eppure, dopo la visione anticipata dei primi due episodi per la stampa, mi sono sentito come quando ordino quel fantastico megaburger gargantuesco col bacon ancora sfrigolante, il cheddar fuso che cola languido, le cipolle caramellate belle sudate e, una volta arrivato a casa e fatto l’unboxing, scopro che è la solita merdina anemica e acciaccata (= molto deluso).
Eppure i nomi coinvolti (tutti più meno con lo stesso background sociale di Sana Amanat, giusto per sottolineare la centralità del messaggio di diversità e inclusione), il confezionamento e il budget facevano pensare a qualcosa di estremamente interessante: una supereroina musulmana che viene a patti con i suoi nuovi poteri e allo stesso tempo cementa la propria identità a cavallo di due culture è un ottimo materiale di partenza nelle giuste mani. Ma il fastidio inizia subito con i virtuosismi visivi del duo di registi (anche produttori) Adil & Bilall, già dietro la macchina da presa del blockbusterone Bad Boys for Life: la reference obbligatoria qui è Scott Pilgrim vs. the World di Edgar Wright, commedia action romantico-hipster del 2010 che è stata un superflop ma grazie a un impianto visivo transmediale accattivante ha generato un culto. Per farci capire che l’adolescente che vive con la testa fra le nuvole protagonista di questa serie è una… ehm… adolescente che vive con la testa fra le nuvole, lo sfondo di ogni inquadratura si trasforma in una chat di WhatsApp, in ogni angolo esplode un’infiorescenza di emoji, i graffiti su un muro di sfondo si animano al suo passaggio. È un esercizio stilistico virtuoso ma vuoto, non suffragato da una sceneggiatura che dovrebbe scavare a fondo fra le sfaccettature di un character articolato ma solo sulla carta.
La Kamala Khan interpretata con dedizione dalla sorprendente debuttante Iman Vellani (a cui è arrivata la proposta di casting per il ruolo su WhatsApp: lei pensava fosse uno scherzo) è una ragazzina non particolarmente popolare a scuola che fatica a integrarsi, ha pochi amici e quando non fa video sul suo canale YouTube passa le giornate a fantasticare di essere un’eroina. Il suo sogno è quello di vincere il concorso di cosplayer di Capitan Marvel, il suo idolo, indetto all’Avengercon (il Los Angeles Comic-Con del Marvel Universe), ma ovviamente c’è un ostacolo, rappresentato dai genitori di Kamala, due fieri immigrati pakistani radicati nella propria cultura ma che chiamano giustamente casa Jersey City e amano le canzoni di Bon Jovi: per loro indossare una calzamaglia attillata e passare la serata in mezzo a un sacco di ragazzi è assolutamente disdicevole. Se tutto sembra ricordarvi Red, l’ultimo film animato di Pixar, avete abbastanza ragione. Ma laddove il film sulla ragazza che si trasforma in un panda rosso è una riuscita metafora delle idiosincrasie del rapporto madre control freak/figlia unica adolescente, in Ms. Marvel tutto resta in superficie, come il suo rapporto con la religione, risolto in una scena sbrigativa nella quale Kamala e la sua BFF arrivano alla Moschea in ritardo perché sono giovani e pazzerelle. Perché poi vuole vincere il concorso di cosplayer? Per diventare popolare a scuola e avere tanti follower… non un tirante narrativo irresistibile.
Credo di aver visto quasi qualunque serie o film legata ai supereroi (per capirci: anche il devastante instant movie The Fantastic Four del 1992 prodotto da Roger Corman e Bern Eichinger con il budget di un video di Domenico Bini realizzato solo per cercare di conservare i diritti in scadenza), e nel tempo sono sempre rimasto fedele alle QUATTRO REGOLE PER SCRIVERE UN SUPEREROE PERFETTO. In pratica, per avere uno straccio di successo un supereroe deve:
– avere alle spalle una solida ORIGIN STORY: il drammatico assassinio dei genitori di Bruce Wayne, la dimostrazione scientifica in cui resta coinvolto Peter Parker… le origini dell’eroe sono spesso eventi traumatici che alterano radicalmente la prospettiva del personaggio determinando una trasfigurazione anche radicale e giustificando le sue azioni future;
– avere dei POTERI netti e definiti: essere invisibile, manipolare qualunque metallo, superforza, fattore rigenerante… avere un superpotere è ciò che essenzialmente rende diverso un supereroe da una persona normale. Per questo è importante che il suddetto potere sia chiaro e definito per lo spettatore;
– avere una sorta di CONFLITTO INTERIORE: sai che palle se tutti i sups fosse come Capitan America negli anni ’50. Un eroe ha sempre dei dubbi, delle frizioni al suo interno che favoriscono il trasferimento connotativo e l’empatia col pubblico (cfr. tutti i personaggi di The Boys). Com’era? “Da grandi poteri derivano grandi responsabilità”. E spesso le grandi responsabilità comportano ansia, stress e tensione;
– avere una MINACCIA ESTERIORE. Lo sappiamo tutti, per ogni eroe leggendario c’è almeno un villain altrettanto indimenticabile: il Joker, Darth Vader, Dottor Doom, Magneto… la lista è lunghissima.
Ora, proviamo ad applicare le suddette regole a Ms. Marvel e vediamo come va (spoiler: non benissimo). La sua origin story: frugando i soffitta tra le cianfrusaglie della zia di Karachi in Pakistan alla ricerca del “tocco folkloristico” per il costume da cosplayer omaggio alle sue origini, Kamala trova un bracciale che, indossato, le dà dei poteri. Origin story apposto. Che poteri sono? Non si capisce benissimo, ma visto che siamo nel mondo di una teenager contemporanea ossessionata dai social media ricordano dei filtri di Instagram. Kamala può creare scudi di energia, piccole piattaforme sulle quali salta spostandosi da una zona all’altra come Super Mario o addirittura creare lunghe protesi dei propri arti per afferrare qualcuno o qualcosa o colpire con un superpugno un nemico.
Già, ma quale nemico? Nei primi due episodi visti (e sono in tutto sei), a parte la mamma ipertradizionalista e vecchio stampo (interpretata dall’ottima Zenobia Shroff), per Kamala le uniche minacce sembrano essere la media del 4 a scuola e il profilo Instagram hackerato. Non bastano quattro fotogrammi in cui vediamo i soliti agenti governativi in completo grigio e SUV che si interessano ai suoi poteri e cercano di darle la caccia. Mi stavo quasi dimenticando del conflitto interiore: in questo senso Vellani (che per la giovane età e la scarsa esperienza si dimostra indubbiamente talentuosa) ha pochissimo materiale con cui lavorare. Il senso di non appartenenza dichiarato non viene mai approfondito una volta timidamente accennato, anzi: ha molti più amici di me alla sua età e il nuovo figo della scuola (anche lui figlio di immigrati asiatici) sembra genuinamente interessato a lei.
Insomma, più di una volta, guardando i due episodi di Ms. Marvel, mi sono scoperto a chiedermi perché non scavare più a fondo in un personaggio tanto interessante. Le scene in famiglia sono la principale forza dell’episodio pilota, con l’ottimo supporting cast e i riferimenti ai drammatici eventi legati alla partizione del 1947, ma bastano qualche parola in urdu e due costumi tradizionali a dare una profondità e una raison d’être a una serie che prometteva davvero di essere “diversa”? Oppure questa è un’altra operazione satellitare compiuta da Marvel per ramificare, introdurre e cementare i personaggi della Fase 4 nei lobi temporali della sua fanbase nell’attesa dell’uscita di The Marvels, il nuovo blockbusterone seguito di Captain Marvel in cui Iman Vellani sarà al fianco Brie Larson? Qualunque sia la risposta, resta il persistente sapore amarognolo della delusione in bocca. Voglio essere ottimista (per una volta) e sperare che nei prossimi quattro episodi lo show prenda una piega entusiasmante, dinamica, profonda e genuinamente divertente. Tutto quello che non mi è sembrato per ora.