Più che la redazione del Washington Post, il quotidiano che nel 1972 – grazie all’inchiesta di Bob Woodward e Carl Bernstein – svelò i retroscena dello scandalo Watergate, parrebbe una succursale dell’asilo Mariuccia. Sintesi sintetica che più sintetica non si può (e sarà comunque lunga, ma pazienza): tutto ha inizio nel lontano maggio 2018, nell’ancora più lontana Pechino. Felicia Sonmez, allora giornalista neoassunta del Post, si trova nella capitale cinese e trascorre una serata con il corrispondente del Los Angeles Times Jonathan Kaiman. Non ci è dato sapere cosa sia effettivamente accaduto: fatto sta, pare, che Kaiman l’abbia baciata e si sia denudato da ubriaco dopo una festa del club dei corrispondenti, pressandola per fare sesso. Il «pare» è d’obbligo: lei lo accusa, lui replica che non è vero niente, non ci sono denunce, non ci sono processi, il Los Angeles Times preferisce non avere seccature e costringe Kaiman a dimettersi, Sonmez preferisce innalzarsi sul pulpito dello stupro (apparentemente) subìto e si trasforma in un’attivista.
Nell’autunno dello stesso anno scoppia il caso Brett Kavanaugh (il giudice della Corte Suprema durante la cui valutazione sono emerse accuse di violenza sessuale), e il Washington Post dice a Felicia Sonmez che non sarà lei a scriverne, vista la sua parzialità sul tema nonché il suo essere più militante che reporter affidabile. Sonmez allora s’incazza e fa causa al giornale per discriminazione, perdendola. Nel 2020 muore Kobe Bryant e lei, ormai paladina delle vittime o presunte tali, col cadavere ancora caldo ritira fuori le vecchie accuse di stupro al giocatore, sostenendo su Twitter che i colleghi glorificavano un violentatore. La pazienza del Washington Post non è infinita, e Sonmez viene sospesa salvo poi essere reintegrata in seguito a varie proteste in redazione e a una lettera in sua difesa firmata da molti colleghi. «Il Post mi punì per il mio stesso trauma», lamentò la pasionaria, confermando così di non essere più Felicia Sonmez la giornalista, bensì Felicia Sonmez il trauma, Felicia Sonmez lo stupro, Felicia Sonmez il sessismo.
Avanti veloce fino a venerdì 3 giugno 2022: Dave Weigel, reporter quarantunenne di politica da parecchio tempo al Washington Post – nonché tra i firmatari della lettera che chiedeva il reintegro di Sonmez di cui sopra – ritwitta un tweet innocuo: «Ogni ragazza è bi. Devi solo capire se -polare o -sessuale». Non fa ridere, non è offensivo, non indigna né diverte: è quella che potremmo bollare come una stronzata da quattro cuoricini o poco più. Peccato che a Sonmez si chiuda la vena, e l’inoffensivo gesto di Weigel dà il via al personale delirio di Felicia, che inizia chiedendo conto della battuta in una chat interna sull’app di messaggistica aziendale Slack. Non soddisfatta delle risposte ricevute dalla dirigenza, decide di ricorrere (aridaje) a Twitter, pubblicando uno screenshot con il commento: «È fantastico lavorare per una testata dove retweet simili sono permessi!».
Fantastic to work at a news outlet where retweets like this are allowed! pic.twitter.com/zs4dX4qprH
— Felicia Sonmez (@feliciasonmez) June 3, 2022
Weigel capisce l’antifona, e non essendo scemo cancella il retweet e si scusa: in un mondo normale la storia poteva dirsi conclusa lì, ma non nell’epoca del vattelappesca-ismo. Dave Weigel viene sospeso senza paga per un mese, eppure il gesto – folle, se si pensa che è partito dal retweet di una battuta scarsissima – non basta a placare la sete di sangue di Felicia Sonmez, che da lì prende a twittare dalla mattina alla sera (al punto che è legittimo chiedersi quando ‘sta cristiana trovi tempo per il lavoro vero). Critica Weigel, critica chi lo difendeva, critica la dirigenza del Post per la risposta blanda alla battuta sessista (a Guantanamo, dovevano mandarlo!), difende in maniera ossessiva la sua ostinazione nel criticare Weigel. Intanto, altri giornalisti la rimproverano di aver attirato attenzioni sproporzionate intorno alla vicenda e di aver personalizzato la questione, generando a sua volta centinaia di commenti aggressivi nei confronti di Weigel. Curioso che coloro che appoggiano il cronista in punizione si sentano in dovere di premettere sempre il terribile e inaccettabile sessismo della battuta: se le mie chat di WhatsApp fossero pubblicate, finirei dritta davanti al Tribunale internazionale dell’Aja. Sonmez urla al complotto, sostenendo che è in corso un tentativo di silenziarla per aver portato all’attenzione di tutti un problema di sessismo nella redazione: vedete che mi sta succedendo, appena mi sono azzardata a denunciare pubblicamente un comportamento ritenuto offensivo?
Uno dei tanti apici del dibattito si concretizza nello scambio con Jose A. Del Real, reporter del Washington Post: lui la prega di avere più compassione per una battuta inammissibile e tremenda (!); lei lo attacca istericamente; lui cerca di zittirla sfoderando l’asso di briscola, ossia il fatto di essere gay, nonché di origine messicana. Morale: chi vince nel braccio di ferro dell’oppressione, la portatrice di vagina o l’omosessuale immigrato? Del Real alla fine è pieno come il Piave dopo un temporale, e fa un passo indietro: cretino io ad addentrarmi in ‘sto vespaio, «Non potremmo essere semplicemente più gentili gli uni con gli altri?». Anche la direttrice del Post, Sally Buzbee, pubblica un comunicato interno alla redazione che invita a trattare con rispetto e gentilezza i colleghi online e offline: «Il Washington Post si impegna per un ambiente di lavoro inclusivo e rispettoso, senza forme di molestie, discriminazioni o pregiudizi di alcun tipo. Quando nascono delle questioni, per favore sottoponetele alla dirigenza o alle risorse umane e ce ne occuperemo con decisione e rapidità».
And for what it’s worth, I’m a gay Mexican American. You don’t need to educate me on being from a marginalized group.
— Jose A. Del Real (@jdelreal) June 5, 2022
Sonmez, insomma, ha creato un grave problema d’immagine al giornale, che venerdì 10 giugno decide di licenziarla. Il benservito, racconta la Cnn, è dovuto alla «cattiva condotta che include insubordinazione, diffamazione dei colleghi online e violazione degli standard del Post sulla collegialità e inclusività del posto di lavoro. (…) Non possiamo permetterti di continuare a lavorare come giornalista in rappresentanza del Washington Post», conclude la lettera di licenziamento. La tifoseria è divisa: da una parte i pro-Sonmez, quelli per cui una battuta ferisce più di dieci coltellate; dall’altra i pro- Weigel maniavantisti: ok, era un tweet gravissimo, però.
In un mondo in cui non riusciamo più a essere semplicemente «persone normali», ma diventiamo quasi automaticamente il nostro trauma, il nostro orientamento sessuale, la nostra vulvodinia, la nostra dermatite, la nostra religione, il nostro sovrappeso o il nostro strabismo, forse dovremmo ricondurre Felicia Sonmez a una patologia più che a una professione o a una molestia passata. La patologia di una tizia poco sana di mente che twitta rabbiosamente infamando l’azienda che le paga lo stipendio. Visto da qui, sembra tantissimo un disturbo bipolare: vedi che aveva ragione Dave Weigel?