Una data se non storica, quantomeno significativa, quella del 12 giugno 2022: il Senato americano ha raggiunto un accordo, come riportato dal New York Times, presentato da dieci repubblicani e dieci democratici e approvato dal presidente Biden, che include controlli rafforzati dei precedenti penali per dare alle autorità il tempo di verificare le fedine di qualsiasi potenziale acquirente di armi di età inferiore ai ventun anni e una disposizione che estenderebbe, per la prima volta, il divieto di possederne anche ai partner occasionali condannati per violenza domestica o oggetto di un’ordinanza restrittiva (attualmente, solo i molestatori domestici sposati, che convivono o che sono i genitori di un bambino avuto con una vittima di violenza non possono avere un’arma da fuoco). Verrebbero inoltre forniti anche finanziamenti agli Stati per emanare le cosiddette red-flag laws, che consentono alle autorità di confiscare temporaneamente armi a persone ritenute pericolose e di stanziare denaro per risorse rivolte alla salute mentale e per rafforzare i servizi di sicurezza e salute mentale nelle scuole.
I contorni sono ancora in via di definizione e l’accordo non solo dovrà affrontare un percorso piuttosto tortuoso al Congresso, ma è pure lungi dalle riforme tentacolari che Biden, gli attivisti per il controllo delle armi e la maggioranza dei Democratici hanno a lungo sostenuto, nonché nemmeno ampio come il pacchetto di misure approvato dalle principali linee di partito alla Camera la scorsa settimana – che vieterebbero la vendita di armi semiautomatiche e di caricatori a persone di età inferiore ai ventun anni e promulgherebbero una red-flag law federale. Ma dato che «Piutost che nient l’è mej piutost», ben venga uno sforzo storico volto a colmare il considerevole divario tra i due partiti politici su come affrontare la violenza armata, che ha portato a una serie di sforzi legislativi falliti a Capitol Hill – dove l’opposizione repubblicana ha ostacolato l’azione per anni.
Il sostegno di dieci senatori repubblicani ha suggerito che il piano potrebbe superare un ostacolo che nessun’altra proposta attualmente in discussione è stata in grado di superare: raccogliere i sessanta voti necessari per sfondare lo storico ostruzionismo del Grand Old Party (ossia del Partito Repubblicano), e sopravvivere fino alla votazione del Senato. Il raro momento di accordo bipartisan è arrivato poco meno di tre settimane dopo il massacro nella scuola elementare di Uvalde, in Texas, nel quale hanno perso la vita diciannove bambini e due insegnanti, e circa un mese dopo l’attentato razzista a Buffalo in cui sono morti dieci afroamericani in un supermercato. Le sparatorie di massa consecutive hanno spinto la questione della violenza armata in primo piano a Washington, dove anni di sforzi per attuare restrizioni sulle armi sulla scia di tali assalti sono falliti principalmente per via dell’opposizione repubblicana.
Il Presidente Joe Biden ha esortato il Congresso ad approvare rapidamente le misure di sicurezza, puntualizzando che «non esistono scuse per qualsivoglia ritardo»: «Ogni giorno che passa, sempre più bambini vengono uccisi in questo Paese. Prima arrivano sulla mia scrivania, prima posso firmarle e prima potremo usarle per salvare vite umane». Semplice magari a dirsi, non a farsi: a dimostrazione dei rischi politici che i Repubblicani vedono nell’abbracciare modeste misure di sicurezza, nessuno dei dieci che hanno approvato l’accordo di domenica quest’anno ha dovuto affrontare gli elettori: il gruppo comprendeva infatti quattro Senatori che lasceranno il Congresso alla fine dell’anno e cinque che non saranno pronti per essere rieletti per altri quattro anni.
La questione relativa al possesso di armi da fuoco – cosa che fa giustamente accapponare la pelle alla maggioranza di noi Europei – richiede una contestualizzazione (che, attenzione, non è una giustificazione) antropologica e culturale. La lucidissima Bari Weiss, ex opinionista del New York Times e ora autrice di una newsletter – Common Sense – che è una specie di faro giornalistico, a tal proposito ha ospitato David French, senior editor di The Dispatch e veterano della guerra in Iraq, nonché possessore di armi, e Rajiv Sethi, Professore di economia al Barnard College che ha svolto ricerche sulla violenza armata e proposto soluzioni innovative al problema. L’obiettivo era un confronto aperto e sincero su un tema che, come scrive la stessa Weiss, è stato oggetto delle più disparate conversazioni senza che queste abbiano mai portato a nulla di concreto.
Sethi spiega che si tratta di un problema esclusivamente americano per due principali motivi, uno statistico e uno culturale: «Statisticamente, abbiamo tassi di omicidio molto alti rispetto a Paesi con livelli di prosperità economica comparabili. Abbiamo circa quattro volte il tasso di omicidi del Canada e circa dieci volte il tasso di omicidi del Regno Unito. Culturalmente, siamo molto diversi perché c’è una convinzione diffusa che ci sia un sacro diritto di detenere armi sancito nella nostra Costituzione attraverso il Secondo Emendamento. Il Secondo Emendamento non solo esiste, ma viene celebrato. Quindi alcuni tipi di politiche che altri Paesi hanno adottato sulla scia delle sparatorie di massa non sono per noi percorribili». A tal proposito, viene citato un articolo di Stanley Levinson comparso nel 1989 sullo Yale Law Journal, nel quale si sostiene che il Secondo Emendamento è parte di una tradizione nella società americana che diffida dell’autorità, del Governo, della tirannia, e che dovrebbe essere visto sotto quella luce, insieme agli altri diritti presenti nella Costituzione.
Quindi, quando si parla di politiche che limitano il diritto al possesso legale di armi, incluse le armi d’assalto, le persone vivono il dibattito come la violazione di un diritto che appartiene loro in quanto americani, e resisteranno con forza al fatto che venga loro portato via. «Penso sia importante capire che questa è una posizione legittima. Può essere una posizione con cui non si è d’accordo, ma c’è un ragionamento dietro. Fa parte di una tradizione politica americana», conclude Sethi. Una tradizione politica relativamente recente, fatta di terre da conquistare, di cowboy che lottano per accaparrarsi un appezzamento, di individui e milizie disposti a tutto pur di difendere sé stessi e l’agognata proprietà privata negli anni delle grandi colonizzazioni europee.
Il commento più azzeccato a riguardo è quello di Guia Soncini, che in un tweet del 2021 già contestava «il diffuso feticismo per costituzioni scritte in epoche primitive in cui per insediare un nuovo presidente ti servivano due mesi. Ricordarsene, quando si sacralizzano documenti legislativi scritti da gente senz’acqua corrente». L’ha risfoderato qualche settimana fa, quando il governatore dell’Oklahoma ha firmato la legge sull’aborto più restrittiva degli Stati Uniti: «Quando quelli dicono che in Costituzione non c’è l’aborto, dicono il vero. In compenso c’era lo schiavismo, essendo un documento scritto più di duecento anni fa». E forse anche quell’«Essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una ben organizzata milizia, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto» redatto nel 1791, letto oggi, suona terribilmente anacronistico.