Un’indagine realizzata dal team investigativo di BBC Africa Eye ha denunciato per la prima volta un business digitale dai contorni a dir poco grotteschi che sta spopolando in Cina. Nel documentario Racism for sale, pubblicato a inizio settimana, l’emittente britannica ha scoperchiato il vaso di Pandora su un trend diventato in pochi anni un vero e proprio mercato: quello dei video ritraenti persone africane che recitano motivetti in cinese, spesso personalizzati in base alle richieste dei committenti asiatici e che non di rado espongono chi compare davanti alla telecamera alle più palesi umiliazioni. Una Westworld della blackface estesa al mondo del social, dove i protagonisti sono totalmente etero-diretti da chi ne decreta, una volta di più, l’assoggettamento determinato dal colore della pelle.
A diventare emblematico è stato un filmato ribattezzato The Low IQ Video, che ha dato il là all’inchiesta della BBC realizzata dalla reporter Runako Celina insieme al giornalista investigativo malawiano Henry Mhango. In quello che sembra essere un allestimento da diorama umano pensato esclusivamente per il pubblico ludibrio degli avventori di Weibo, Huoshan, WeChat e di altri social cinesi, un gruppo di bambini e bambine, istruiti da una voce fuori campo, ripetono in coro una frase in mandarino. La stessa che è scritta su una piccola lavagna posta al centro dell’inquadratura. Il messaggio che recitano, tradotto in italiano, è: «Sono un piccolo mostro nero e il mio quoziente intellettivo è basso». Secondo quanto emerge dal documentario le giovanissime vittime del Low IQ Video sono state esposte per la prima volta ai rigurgiti razzisti più abietti e vili di Weibo il 10 febbraio 2020, giorno della sua pubblicazione sull’ “insospettabile” The Jokes on Black People Club.
Il leitmotiv di ogni filmato è quasi sempre lo stesso: un’ambientazione “africana”, nell’accezione più classicamente stereotipata ed “esotizzante” del termine. Un grosso spiazzo di terriccio scuro che pare essere il centro di un villaggio, alberi a fare da cornice insieme a qualche edificio in lamiera disseminato qua e là. Al centro della scena, un gruppo di persone africane di età variabile che intonano in maniera entusiasta messaggi benevoli, a volte addirittura adulatori, al popolo cinese.
Stabilita una simile cornice marionettistica, i contenuti cambiano, negli interpreti come nei messaggi. Talvolta si vedono ragazze agghindate con colori accesi che ballano; altre volte, sono uomini a torso nudo, pantaloni militari a comparire al centro della scena mentre cantano e imbracciano il fucile. Uno spezzone mostra poi una formazione ordinata di adolescenti intona canzoni popolari cinesi che esaltano il valore e la virtù degli «uomini più belli al mondo, con la pelle gialla e gli occhi scuri». Questo carosello sdogana sguaiatamente gli intenti più spiccatamente disumanizzanti quando al centro dell’inquadratura compaiono quattro bambine a ripetere in coro “vogliamo mangiare” mentre in primo piano viene mostrata loro una porzione di patatine fritte.
Nei casi più agghiaccianti, al centro della scena ci sono ballerine poco più che bambine, che si muovono spalle al regista. Un gioco per loro, che il manovratore dietro la telecamera rende un siparietto triste, a metà fra un minstrel show e un filmato neanche tanto velatamente a uso e consumo degli appetiti pedopornografici che di tanto in tanto stuzzicano gli abitanti del sottobosco dei social.
Tornando al video che ha arroventato il dibattito, è palese che quella che sembra essere una scolaresca in tenuta rossa, agisca ingenuamente. Secondo quanto ribadito in queste ore da alcuni media africani, l’esca per convincere i locali a farsi filmare sarebbe mezzo dollaro al giorno. Tanto uscirebbe dalle tasche di qualche talent scout dell’orrido arrivato dalla Cina per fare soldi. Imprenditori della vergogna che hanno messo in atto l’ennesima forma asservimento dell’uomo di colore alle esigenze di divertissement di un Paese a suo modo neocolonialista e della sua platea digitale.
È importante sottolineare che non tutto il pubblico cinese freme per vedere altre persone ridotte a poco più che figuranti impotenti da ridicolizzare. Per quanto in Cina sia possibile manifestare un dissenso – è praticamente impossibile organizzarlo – una giornalista cinese, intervistata da Celina, ha spiegato quanto in realtà inganno e manipolazione siano diffusi anche in patria: «Sulla questione il Paese è polarizzato. C’è chi è critico e la condanna totalmente, ma ci sono molti utenti che la incoraggiano. Per loro è anzi il segno delle opportunità di sviluppo che la Cina offre agli Stati africani, un segno del consolidamento dei rapporti con l’Africa».
Lo youtuber e attivista digitale ghanese Wode Maya ha detto che è possibile trovare video in vendita sul mercato cinese almeno da 2015. È stato tra i primi a notare il Low IQ video quando è stato pubblicato. Ha deciso di condividere la sua indignazione con la propria community, chiedendo un intervento tempestivo delle autorità: «Molti cinesi vengono in Africa per girare questo tipo di video e poi venderli su Taobao – la versione cinese di Amazon. Queste persone stanno sfruttando la nostra cultura. La persona che ha realizzato questo video sta sfruttando i bambini africani mettendoli su YouTube e sui social media cinesi. I bambini non capiscono cosa stanno dicendo. Questo tipo di video distrugge la fiducia tra Cina e Africa. È scandaloso».
Sebbene si sappia assai poco sul volume d’affari generato da questo tipo di video, l’inchiesta è riuscita a risalire all’uomo dietro a molti di questi filmati. Con l’aiuto di un agente sotto copertura, la BBC ha scoperto che un certo Lu Ke stava girando centinaia di video al giorno. Una volta fatto e confezionato, il prodotto veniva rivenduto a partire da cento yuan, circa quattordici euro. Per capire un po’ più da vicino il mercato che ruota attorno alle persone come Lu Ke, i giornalisti di France 24 Observers si sono finti dei potenziali clienti e hanno contattato alcuni dei venditori su WeChat. Uno di questi, che ha parlato sotto lo pseudonimo Frère Chung, ha riassunto così l’incontro tra domanda e offerta: «È un processo rapido: il cliente ordina un video su WeChat, specifica cosa vuole che dicano i bambini e quindi paga tramite l’applicazione. Il video viene inviato in pochi giorni». Il tariffario aumenta quanto più si desiderava “personalizzare” l’esotico teatrino.
Quel che è certo è che l’inchiesta della BBC ha gettato luce su una dinamica di sfruttamento quantomeno sinistro, poiché ha coagulato dinamiche di mercato attorno a prodotti basati sull’adescamento di comunità spesso ignare della cornice di latente discriminazione a cui si prestano. Nel 2017, Taobao ha chiuso diversi account che vendevano questo tipo di video. Secondo l’agenzia di stampa Hong Kong Free Press, la decisione è arrivata come reazione alle critiche ricevute. Viene da chiedersi se Racism for sale riuscirà, perlomeno tra le fragili authority africane, a stimolare una risposta che sappia porre un argine più solido rispetto al contentino sbrigativo e totalmente discrezionale concesso da Taobao.