Pleasure, su MUBI dal 17 giugno, è uno di quei film che ti prendono a pugni quando hai la guardia abbassata. Merito della regista Ninja Thyberg, svedese, giovane e politicamente impegnata, che con rigore, talento e impietosa sensibilità racconta il mondo del porno. Seguiamo Linnéa, bellissima diciannovenne che senza moralismi d’accatto ha un sogno, diventare una star del cinema a luci rosse. Vuole il miglior agente su piazza, vuole fare tutto per riuscirci, anche scene estreme. Ma fa un errore, pensa che basti l’impegno, l’audacia, la sensualità, la professionalità. Diventa invece un angelo caduto in un inferno maschilista e bestiale, nascosto da formalità politicamente corrette, da consensi informati e cordialità pelose. Mentre sei convinto, da spettatore, di guardare un affascinante romanzo di formazione libero e libertino, ironico e sexy, Ninja a metà del racconto ti inchioda ai dettagli che hai volutamente trascurato, soprattutto se sei maschio. E ti inchioda alla tua complicità con un sistema di sfruttamento, di prevaricazione, di ferina ricerca del profitto. Tutto dal punto di vista – nella scrittura come nelle riprese – di Linnéa, pura e libera, cinica e sentimentale, fragile e determinata. Un’opera politica e di genere, un lavoro di altissimo livello che nasce quasi dieci anni fa, uno spaccato di una società che a parole ha capito il futuro, ma nei fatti affoga nel passato.
Tutto nasce con un cortometraggio, nel 2013. Pleasure, appunto. Più che un film, un’ossessione.
Il soggetto mi interessa da sempre, sin da quando, sedicenne, il mio ragazzo mi mostrò un film porno e io mi trovai di fronte per la prima volta a quel tipo di linguaggio. La cosa mi fece diventare inizialmente un’attivista contro la pornografia. Poi per alterne vicende, e anche e soprattutto crescendo, mi sono trasformata, invece, in una promotrice della pornografia femminista. E così ho iniziato la mia carriera accademica rivolgendomi a vari generi cinematografici, studiando altro, ma nella mia tesi di laurea sono tornata da dove ero partita, non a caso era tutta incentrata sull’industria della pornografia. Volevo capire chi ci fosse dietro quella macchina, come fosse strutturata. Il cortometraggio, che è partito da Cannes e passato dal Sundance e che è all’origine di questo film, nasce da qui, da questo desiderio di conoscenza, di comprensione.
A un certo punto, però, è diventato qualcosa di più. Cos’è scattato in te?
Mi sentivo un’ipocrita, girando il mondo con quel lavoro mi rendevo conto che le vere persone che reggevano quell’industria io non le conoscevo, non le avevo mai incontrate. Mi sentivo ipocrita perché pensavo di essere una che raccontava un mondo tramite stereotipi. E allora ho deciso di cercare davvero il lato oscuro di questo mondo, di capire come funzionasse nel profondo, di capirne meccanismi, gangli e uomini chiave. Inizialmente l’ho fatto a (e da) casa mia, in Svezia, poi dal 2014 ho iniziato ad andare a Los Angeles. Non sapevo dove mi avrebbe portato questo percorso, neanche come raccontarlo, ma sapevo che la protagonista doveva essere svedese, dovevo identificarmi con lei sotto il profilo culturale. Dopo cinque anni di ricerche e lavoro e scrittura, è nato il film.
Pleasure è una trappola per i nostri (pre)giudizi. Quando pensi di aver capito tutto, entri in un incubo di cui ti senti complice. Se sei un uomo, non puoi nasconderti, sai che silenziosamente qualcosa di quello che vedi è (anche) colpa tua. E temi di essere complice di chi si nasconde dietro un consenso scritto e filmato usato come lasciapassare verso l’orrore. Volevi raccontare anche questa violenza, forse più subdola di quella fisica degli anni d’oro del porno?
Quella che spesso perdiamo di vista è la complessità, non solo in questo settore. E che la colpa, fondamentalmente, è del capitalismo e del suo mettere il denaro sopra a tutto. Capisco che la sopraffazione, lo squilibrio di genere, le ingiustizie se si riversano su un corpo sono molto più violente ai nostri occhi, soprattutto se non siamo abituati a quella rappresentazione. Quelle parole, quelle azioni di cui parli, quelle cautele non sono solo un paravento, un falso politicamente corretto, ma non di rado sono qualcosa di utile, di necessario. Non è sbagliato che ci siano, anzi, ma ci sono molti che ne fanno un uso terribile, criminale.
Non sembra così nel film, l’impressione è che ci si voglia lavare le mani prima di sporcarsele di sangue.
Intendo dire che può esistere un tentativo onesto e sincero di fare le cose in modo giusto, di rispettare davvero attrici e interpreti, un movimento virtuoso che vuole porre limiti e confini, così come esiste una realtà, una strategia manipolativa di tanti altri. Il problema non sono le norme, gli accorgimenti tecnici e legali, sono come sempre le persone e le situazioni complesse ad esserlo. Ci sono set in cui le persone sono autenticamente protettive verso le loro interpreti, in altri ci sono manipolatori subdoli e violenti, dipende anche dalle produzioni, dai registi, dall’ambiente di lavoro. Ma dobbiamo smettere di colpevolizzare oggetti o sistemi, e ricordare che sono usati e fatti di persone e troppo spesso prevalentemente di uomini.
Cos’è che fa la differenza, che porta professionisti a diventare dei mostri?
Il profitto, come ti ho detto. In un’industria come questa, la ratio fondamentale e ultima è fare soldi. Vale per chi paga il film, per chi lo dirige, per chi come la nostra protagonista vuole diventare una star. E sai cosa vende il porno? Sai cosa genera più guadagni? La degradazione, l’umiliazione della donna, la violenza su un corpo femminile regala dividendi notevoli. Piace a tanti uomini, forse tutti e, ahimè, anche a non poche donne. Li, le eccita. E allora vale tutto. Purtroppo.
Dover raccontare quello che si vuole condannare, “costringere” la propria protagonista a subire ciò che si vuole stigmatizzare, deve essere stato un cortocircuito insopportabile.
Certo, è stata dura. Ho sempre sentito di volerla proteggere: se guardi la scena della rasatura intima, qualcosa che a me dà fastidio come donna e che è dolorosa fisicamente, la vagina è la mia, non la sua. Ho provato a mettermi nei suoi panni quando ho potuto, ma l’attrice è lei. In realtà è sempre difficile considerare questo dolore dopo il grande lavoro che si fa. Per intenderci, la scena di violenza a metà film è stata, alla fine, la più facile. L’abbiamo così tanto temuta, preparata, protetta che poi farla è stato quasi bello.
Cosa ti, vi ha fatto più male?
Assumere il suo punto di vista ma non subirlo direttamente, doverlo riversare su di lei è stato qualcosa di molto complicato, lo ammetto. Il discorso per me era però riprodurre ciò che critico nel migliore dei modi, e quindi nel peggiore per Sofia (Kappel, l’attrice protagonista, ndr). Ha avuto coraggio, tanto rigore nell’affrontare con realismo e forza ciò che volevamo condannare e mostrare. Non volevamo compromessi, e ovviamente questo mi ha fatto male. E lo ha fatto a lei, ma entrambe eravamo convinte che fosse giusto, entrambe eravamo consapevoli che per il cinema che faccio io, per questo film, la strada era una sola. Questa.
C’è una strada per fare la rivoluzione, per uscire da questo inferno?
Dobbiamo cambiare tutto. Quello che erotizziamo in primis, l’educazione sentimentale e l’educazione al rispetto del corpo fin dalla più tenera età. Sarebbe bello, almeno in questo, che vi fosse una dittatura in cui tu dici cosa cambiare e poi lo fai. Ovviamente non la penso così, è una battuta, ma è per far capire quanto il nostro mondo dovrebbe trasformarsi. Soprattutto ora che l’industria è ancora più frammentata e sono mondi profondamente diversi. Alcune cose però si possono fare, per intervenire. Si deve ripartire dai concetti di responsabilità ed etica, ad esempio, soprattutto nella formazione di giovani e studenti. Essere delle persone migliori ed esprimere contenuti migliori, nella vita e non solo nell’industria del cinema porno. Finché nella nostra vita il maschismo sarà la bussola sociale più usata, finché il male oriented sarà la scelta più conveniente, sarà complicato andare avanti e progredire.
Siamo consapevoli entrambi che serve altro. Molto altro.
Certo, la guerra va combattuta sul campo. Bisogna sostenere lavoratori e lavoratrici del settore, metterli al corrente, tutti, del cambiamento culturale in atto, dare più potere alle donne per prevenire certe situazioni e indurre gli uomini a un’empatia maggiore con i problemi delle attrici e delle maestranze femminili in questo ambito. Il problema è che questa empatia è rarissima e spesso incompleta, è difficilissimo per chi è stato naturalmente al centro del mondo per secoli essere sensibilizzato. Non riescono a venire a contatto con dolori e problemi che neanche immaginano e quasi mai capiscono. Ci sono bravissimi ragazzi nel settore ma che nel pratico non si interessano alla sofferenza di molte colleghe, non la vedono, invece dovremmo avere il coraggio di parlare delle ingiustizie e dello sfruttamento del settore, lavorare all’interno dell’industria ma anche fuori. Ma se ci ostiniamo a ghettizzare il sesso, a confinarlo in quel genere, non diventerà mai normale, qualcosa da affrontare serenamente. Serve più sesso nell’arte, nella narrazione, e più uguaglianza sui set porno come nel resto della società. Lo sfruttamento e la sottomissione di genere sono insopportabili proprio per questo squilibrio dipendente solo dal tuo sesso, da come e con che cosa sei nata. E poi eroticizziamo i contenuti, non i corpi. Sovvertiamo archetipi e stereotipi: l’idea della dominazione ha ancora senso? E perché sempre con gli stessi stilemi? Moltiplichiamo le visuali, le sensibilità, i target, i desideri. Non cerchiamone e creiamone uno univoco.
Come ha reagito il mondo del porno al film?
Molte e belle reazioni, alcune stizzite, nervose, spaventate. Soprattutto, ovviamente, tra produttori e agenti. Ovvio che riconoscersi nel film è duro e difficile, per vittime e carnefici, ma ho sentito che a molte ha dato consapevolezza di quanto stiano, stessero vivendo. E a molti ha fatto capire che un problema esiste e non va ignorato.