I capelli che sembrano paglia, lo sguardo da scapestrato del college, il fisico ondeggiante e la postura un po’ goffa non devono ingannare. Boris Johnson è tutto fuorché uno sprovveduto. Nella sua carriera politica è stato tutto e il contrario di tutto, capace di sostenere una tesi e poi il suo opposto con la stessa identica foga e abilità dialettica. Merito, dicono, degli studi classici a Oxford. O forse, dice lui, merito di quel mostro del Partito Conservatore che, come dice lui rende i suoi militanti avvezzi «allo stile della Papua Nuova Guinea, con orge di cannibalismo e uccisioni di capi».
In effetti anche una che sembrava eterna come Margaret Thatcher cadde per colpa di una faida interna. È successo anche a Boris, l’uomo che le battaglie le ha vinte tutte ma che alla fine ha perso la guerra. Dopo le dimissioni di una serie di ministri del suo governo, Johnson ha annunciato che in autunno mollerà la premiership del paese e la leadership del partito. La pietra dello scandalo è il Party Gate, le feste fatte mentre mezzo mondo era chiuso per Covid, poi ci si è messo anche il caso Pincher, ma la verità in politica è sempre più sfumata: Boris ha fatto il suo tempo e i primi ad accorgersene sono stati i suoi compagni di partito. Lui, va detto, un po’ ci ha provato a resistere e ancora adesso, che proprio sembra finita, c’è chi vagheggia colpi di reni e ritorni di fiamma, un po’ per paura e un po’ perché Johnson già in diverse occasioni ha dimostrato di essere un drago delle situazioni disperate, un personaggio dotato della tempra del «last man standing» quando nessuno ci scommetterebbe sopra manco mezza sterlina. Eppure, questa volta, il viale del tramonto sembra l’unica strada percorribile, le speranze di farcela sono ridotte a meno di un lumicino. Del resto, se lui è un guerriero, il suo paese in passato non si è fatto problemi a mettere un re con la testa sul patibolo, quindi…
Dopo un passaggio in televisione, all’inizio del terzo millennio Johnson si presenta al parlamento e viene eletto nel collegio di Henley. Nel 2008 si candida a sindaco di Londra contro l’uscente Ken Livingston e lo sconfigge. Poi lo sconfigge un’altra volta nel 2012. Piace, Boris il sindaco. La città, dicono, migliora tantissimo e le olimpiadi del 2012 sono un grande successo. Qualcuno comincia a pensare che il futuro del Partito Conservatore ha i capelli biondi e spettinati. Però, ecco, questo Boris è proprio un mattacchione, esagera sempre, dice un sacco di sciocchezze e non sembra avere la statura per diventare primo ministro. Tutto cambia nel 2016, quando passa il referendum sulla Brexit e l’unico conservatore di una certa importanza che ha sempre sostenuto le ragioni del «leave» è lui, Boris Johnson. Il premier David Cameron si inabissa, Theresa May regge per un po’ al governo ma incappa in un disastro elettorale e deve farsi da parte anche lei. Che si fa? Tutto chiaro: venga il regno di Boris.
Dire che all’inizio Johnson fosse scettico è poco. Il Regno Unito non va in lockdown, tutto resta aperto e l’obiettivo dichiarato è quello di arrivare all’immunità di gregge. Il 27 marzo, dopo aver tanto scherzato, Johnson si ammala, finisce in terapia intensiva e verrà fuori dall’ospedale solo a metà aprile. Da quel giorno, anche oltre la Manica il governo ha deciso di prendere sul serio la pandemia e di adottare tutte le contromisure del caso.
La politica estera, però, non ha salvato lo spregiudicato Boris: il Partito Conservatore è abituato a divorare i propri figli. E non fa certo eccezione per una guerra.