Pensavamo sarebbe stato per sempre qualcosa di utopistico, e ci eravamo ripromesse che non sarebbe mai accaduto, neanche se ci avessero costretto, neanche se ce l’avessero regalato, e invece eccoci lì: le ragazze da zaino in spalla ed escursioni nella giungla thailandese che cercano di prenotare una settimana (o forse due) in un villaggio turistico. «Non dev’essere così male», ci diciamo, sfogliando la gallery di foto. «Perlomeno non cucino» è la convinzione di poco dopo, quando ormai abbiamo fermato la camera, e stiamo mantecando il risotto che desidera la famiglia nell’estate più calda degli ultimi dieci anni.
Chissà se è per i fumi che ci investono la faccia (la cappa in questi casi non tira mai abbastanza), chissà se è per quella canzone che è partita a tutto volume direttamente dalla nostra playlist su Spotify, ma ecco che ciò che sembrava un piccolo timore diventa un’amara certezza: «Questa vacanza, no, non sarà mai all’altezza delle mie aspettative». E non perché rifuggiamo i giochi in spiaggia quasi fossero riti sacrificali, ma perché, mentre cantiamo a squarciagola il ritornello di (I’ve Had) The Time of My Life, ancora una volta ci è del tutto evidente la nostra condanna: quella di sapere che niente sarà mai emozionante come la vacanza di Baby al resort Kellerman. Lo sappiamo, come sappiamo che l’unico modo per risolvere questa (terribile) presa di coscienza è solo mettersi il cuore in pace: allontanarsi dai fornelli, spegnere la musica e accendere la televisione, per darsi il colpo di grazia definitivo davanti (ancora una volta) allo strusciare di quei balli proibiti.
Da quando è uscito al cinema Dirty Dancing – era il 21 agosto, correva l’anno 1987 –, la vita di noialtre è stata irrimediabilmente rovinata da un ideale di vacanza, ma che dico, di esperienze, ad alta frequenza. Tanto che, ogni volta che ci diciamo che sarebbe una splendida idea rivivere l’estate del 1963 di Baby (Jennifer Grey) e Johnny (Patrick Swayze), facciamo un po’ come quelle che si ripromettono di non rispondere più al messaggio dell’ex, e poi finisce che lo fanno. Perché, alla milionesima volta che saliamo in macchina con Baby che dice che, prima di quell’estate, mai avrebbe pensato «che potesse esistere un altro uomo oltre a mio padre», non solo sappiamo già come andrà a finire per lei; sappiamo anche già come andrà a finire per noi (spoiler: nell’ennesimo bagno di dolorose illusioni).
Il motivo è semplice: di Dirty Dancing ci beviamo tutto. A partire dal papà ideale che stravede per noi, ma non dà fuori di matto quando sa che, ancora minorenni, abbiamo passato la notte col belloccio del resort. E che dire della possibilità di trovare uno come Johnny Castle nel suddetto resort per ultrasessantenni in mezzo alle montagne tanto verdi quanto tristanzuole delle Catskills? Eppure ci abbiamo creduto, e forse vogliamo crederci ancora. Tanto che passiamo gli anni del liceo a farci andare bene le vacanze coi genitori nel campeggio di Castione della Presolana, ché magari uno come Patrick Swayze si trova. E invece, niente lezioni di mambo, niente giacchini di pelle: soltanto polenta. Ci abbiamo sperato (eccome!) ogni estate, perché non c’è bisogno dell’anguria di Baby per intrufolarsi nei quartieri dei dipendenti: anche un sacchetto di farina di mais può andare bene, sempre che ci sia il belloccio che non fa caso alla nostra uscita. «Ho portato la Valsugana» e, trasudando testosterone, ce lo toglie dalle mani per spingerci con lui a ballare un movimiento sensual.
Infine, arriva l’estate in cui non si va più in campeggio ma nel villaggio turistico, dove ci fiondiamo con il cuore che sa che lì è possibile avvenga l’impossibile. Ossia l’animatore che è anche l’istruttore di ballo, che prima ci snobba, poi inizia a lanciare certe occhiatelle e certe battutine che lasciano intendere… I nostri occhi, fuori dalla quotidianità e ciechi di fronte al desiderio di un amore alla Dirty Dancing, vedono tutto più bello: pure ’sto tizio che abbiamo davanti. Vogliamo gridare: «Fammi essere la tua Baby, tu sarai il mio Johnny», mentre lui, sudatissimo, ci insegna la bachata nell’anfiteatro dove il sole cade a picco a quell’ora. Sarà il caldo, ma Jennifer Grey al confronto è Carla Fracci. All’ennesima calpestata di piedi, il nostro Johnny fa quello che nessun istruttore di ballo (escluso Patrick Swayze) dovrebbe mai fare, cioè aprire la bocca: pensavamo fosse Harvard, e invece era l’alberghiero di Massa Lubrense. Morale: addio lezioni di danza; addio illusione d’aver trovato uno che, l’ultimo giorno, venga al tavolo dove sediamo coi nostri genitori a dirci «Nessuno può mettere Baby in un angolo»; addio prospettiva di farsi l’addominalata in breve tempo a suon di movenze sensuali.
Infine, l’illusione delle illusioni: quella (tutta narcisista) che possiamo avere, sebbene ancora adolescenti, il grande potere di risollevare le sorti degli altri e di risolvere i loro problemi da adulti. Un po’ come fa Baby, che tra un ballo e l’altro salva il culo prima alla povera Penny, a cui trova i soldi per l’aborto, e poi il dottore che le fa scampare una morte certa. Dopodiché al suo Johnny, che grazie a lei ora ha la partner per la performance di mambo, e pure l’alibi che lo assolva dalle accuse infondate di furto (di portafogli, mica di ore di passione) da parte del signor Kellerman. Nel mentre, ancora noi: che, per una volta, abbiamo davvero risollevato le sorti. Sì, ma della cena, riuscendo a ordinare una pizza senza buttare giù il telefono per il troppo imbarazzo.
E mentre adesso abbiamo la vacanza prenotata (da noi, non dai nostri genitori), il risotto pronto, e un bagaglio di esperienze che ci hanno disilluse parecchio, ecco che per la milionesima volta siamo di nuovo così: al punto di crogiolarci (recidive) nella convinzione che sì, pure noi possiamo tutto ciò che può la diciassettenne Frances “Baby” Houseman. Non fosse altro perché, come sempre, siamo state incantate come serpenti con quella canzone: la stessa che un tempo avevamo preso come colonna sonora delle nostre emozioni e fantasticherie estive e non, ma che oggi ci ricorda solo quanto sia stato bello essersi illuse e perse dentro tutti i piccoli, squisitamente impossibili risvolti di Dirty Dancing. Che ci hanno rovinato la vita, sì: ma suvvia, solo per quel po’.