La performance da Linda Blair/Regan MacNeil in gita in Spagna al congresso di Vox l’abbiamo vista tutti. Lei, peraltro, ha anche ammesso di aver usato toni sbagliati (e ci mancherebbe), ma dire che Giorgia Meloni sia solo una buona base per meme o un’involontaria autrice per i ritornelli di Myss Keta sarebbe sbagliato. Sorella Giorgia non è Matteo Salvini, e questo si vede prima di tutto dai sondaggi: nel suo momento di massimo fulgore, il leader della Lega era arrivato intorno al 35%, la capa suprema di Fratelli d’Italia invece raramente tocca il 25% nelle rilevazioni più benevole.
Questa non è necessariamente una buona notizia per i suoi detrattori: in tempi liquidi, o forse addirittura gassosi, con il consenso che sale e scende come un barometro impazzito, toccare vette inesplorate può essere peggio che assestarsi su una percentuale alta ma non altissima. Per quanto i tempi cambino, l’adagio della Prima Repubblica in base al quale «i voti a volte si contano e a volte si pesano» resta una regola aurea della politica.
Ecco, Giorgia Meloni di politica se ne intende. Non fosse altro perché la fa da quando era ancora in fasce e frequenta le istituzioni da quasi un quarto di secolo. È il 1998 quando la diciannovenne Giorgia vince le primarie di Alleanza Nazionale, si candida al consiglio provinciale di Roma ed entra. E anche lì, comunque, non era una novizia: i primordi della sua militanza sono datati 1992, quando in effetti la Prima Repubblica c’era ancora. Esponente degli Antenati – un coordinamento studentesco di destra estrema ma non estremissima, il cui nome beneficiò del fatto che ai tempi ancora non c’era una definizione condivisa del concetto di cringe – Meloni è in prima fila nella contestazione alla riforma della scuola di Rosa Russo Iervolino.
Si fa le ossa in piazza, diciamo, e poi comincia a scalare le strutture del partito, il Movimento Sociale Italiano, che nel frattempo a Fiuggi svolta verso un’ottica più governativa e, almeno all’apparenza moderata, e ascende al vertice della Repubblica in coalizione con Berlusconi. È un momento importante anche per riuscire a leggere quello che accade oggi: le elezioni del 1994, almeno secondo lo storico Gianpasquale Santomassimo, furono il grande referendum italiano tra l’anticomunismo e l’antifascismo.
Giorgia Meloni vive questo momento nel magma di Azione Studentesca (la giovanile di An), organizzazione di cui diventerà responsabile nazionale nel 1996. Nel 2004, prima donna nella storia della destra, ne diviene presidente. Nel 2006, a 29 anni appena, si presenta alla Camera nel collegio Lazio 1, è la prima dei non eletti ma poi entra lo stesso per lo scorrimento della lista. Qui impara l’arte dubbia e ambivalente della politica politicante, quella dove le cose si fanno solo quando e se conviene, dove si dicono cose e poi si torna indietro (Meloni, 2008: «difenderemo i valori sui quali si fonda la Costituzione e che sono propri anche di chi ha combattuto il fascismo». Approvazione generale, nota di giubilo dell’Unione dei Giovani Ebrei, dove in fondo conta solo quello che dice l’Adelchi di Manzoni in punto di morte: «Non resta che far torto o patirlo».
Il resto è cronaca: nel 2008, quarto governo Berlusconi, Sorella Giorgia diventa Ministro della Gioventù, poi passa nel Pdl (e vota l’adesso rinnegata Riforma Fornero sulle pensioni), ne esce, fonda Fratelli d’Italia con il moderatissimo Guido Crosetto, raccoglie un punto di vecchi gerarchi di An ormai senza patria, vivacchia qualche anno intorno al quorum e, dal 2019, comincia una salita lenta ma costante che adesso la proietta addirittura a Palazzo Chigi, voto e alchimie permettendo.
Il voto e le alchimie, dunque. Se i sondaggi danno la coalizione di destra abbondantemente avanti rispetto al centrosinistra, Fratelli d’Italia e Pd si giocano la prima piazza come lista più votata. E poi ci sono i problemi di leadership nel centrodestra, la ripartizione delle candidature ai collegi uninominali e una questione all’apparenza lontana ma in realtà profondissima: l’enorme misoginia della destra italiana.
Non sono pochi – anche del suo stesso partito – che a microfoni spenti esprimono dubbi su Meloni, sul suo valore, sulla sua capacità di guidare una coalizione. Un aneddoto su tutti a svelare i veri pensieri della destra italiana: qualche tempo fa, nelle Marche, durante una delle solite polemiche sulla definizione di famiglia tradizionale, un consigliere regionale di Fratelli d’Italia, lo psichiatra Carlo Ciccioli, ebbe a dire che, nella sua concezione del mondo, «la mamma accudisce e il papà detta le regole». Secca la replica di Sorella Giorgia: «A casa mia le regole le detto io», là dove «casa» non è da intendersi solo come «mura domestiche» ma anche come partito.
Il vero problema di Giorgia Meloni non è infatti la sua caratura, ma il contesto politico in cui è inserita. Lei è abbastanza post-ideologica – malgrado alcune paurose uscite fascistissime e diverse prese di posizione che definire oscurantiste è poco –, chi la circonda è per lo più davvero lo scarto dello scarto della vecchia classe dirigente postfascista miracolosamente scampata ai cambi di stagione e alle botte degli ultimi tre decenni.
In altre parole, a Fratelli d’Italia mancano le seconde linee, dietro Giorgia non c’è niente, a meno di non voler considerare Ignazio La Russa un giovane rampante e Guido Crosetto una promessa della classe dirigente italiana. Nei territori governati dal suo partito, d’altra parte, le cose vanno notoriamente malissimo: le liti e gli agguati sono all’ordine del giorno, le amministrazioni sono bloccate, i consensi scemano (basta guardare i dati delle ultime comunali nelle zone in cui la presenza di Fratelli d’Italia è radicata da qualche anno). Anche l’ipotetica lista di «grandi personalità» che Meloni porterebbe al governo non è poi un granché: Giulio Tremonti, Carlo Nordio, Marcello Pera, Luca Ricolfi. Tutta gente che da decenni ormai orbita intorno alle istituzioni ma che, anche quando ne ha avuto la possibilità, non ha certo lasciato un segno indelebile nella storia nazionale.
Lei lo sa, e per questo è costretta ad alternare la faccia feroce a quella ragionevole, in un rimpallo quasi schizofrenico tra la necessità di tenere alta l’asticella della propaganda e quella di dimostrare al mondo che lei è davvero pronta a governare. In questo senso va letta l’adesione alla linea ultra-atlantista del nostro paese nell’ambito dell’invasione russa dell’Ucraina: Meloni ha bisogno di far vedere che sarà (sarebbe) un’interlocutrice affidabile, non una pazza scatenata circondata da altri pazzi nella stanza dei bottoni.
È una faticaccia. Anche perché Giorgia Meloni non ha la fortuna di essere una figlia d’arte come Marine Le Pen, che, vinca o perda, rimarrà più o meno a vita leader della destra francese. Sono i suoi alleati, infatti, i primi ad aspettare la caduta della leader di Fratelli d’Italia, così come fino a non molti mesi fa tutti aspettavano lo schianto di Matteo Salvini. La destra italiana, al di là dell’amore per il potere che è il vero collante della sua eterna coalizione, è un agglomerato politico che basa la sua selezione sulla vendetta e sulla rappresaglia. Sorella Giorgia sa benissimo anche questo. Ma saperlo non vuol dire essere in grado di salvarsi.