Da settembre 2019 a Bruxelles c’è una parola sulla bocca di tutti: parliamo del Green Deal europeo, il masterplan sulla transizione verde e digitale per portare l’UE in un futuro a emissioni zero. A distanza di due anni, la Commissione Europea individua nel New European Bauhaus l’anima del progetto.
Il percorso verso la neutralità climatica vedrà un enorme cambiamento nella vita quotidiana dei cittadini in tutti i settori, dalle nostre fonti di energia e gli edifici in cui viviamo, ai trasporti che utilizziamo e ai vestiti che indossiamo, esaltando al tempo stesso creatività, innovazione e intraprendenza. La lotta contro il crollo climatico è a più livelli e il New European Bauhaus è l’anello di congiunzione tra le azioni politiche comunitarie e le attività locali.
Per quanto la neutralità climatica entro il 2050 rappresenti un obiettivo comune, non ci sarà tuttavia una dimensione della transizione adatta a tutti. Sarà diversa in ogni città, regione e stato membro, adattata alla specificità di ogni luogo. Eppure le persone che abitano questi spazi saranno i motori del cambiamento. Ma come si può garantire che le persone si sentano responsabili della transizione e coinvolte nell’immaginare un nuovo mondo?
La risposta sta in un movimento creativo fondato sul senso del luogo, della bellezza e della sostenibilità in tutta Europa. Come il movimento Bauhaus originale, si tratta di iniettare oggi un sentimento di unione in un momento di profondo cambiamento.
Il New European Bauhaus è stato pensato per portare cultura e design nel viaggio ecologico che stiamo affrontando per riprogettare gli spazi pubblici e privati, dove le persone vivono, lavorano, imparano e si incontrano. La sua influenza sarà visibile negli edifici che progettiamo e ristrutturiamo, nei luoghi che chiamiamo nostri e negli oggetti della vita quotidiana. È pertanto fondamentale che sia un processo partecipativo e inclusivo, nell’ottica di una reale democratizzazione delle soluzioni sostenibili.
Si tratta insomma di utilizzare ciò che già abbiamo, l’ambiente naturale e la creatività umana, per ritrovarci insieme nella transizione. E la prima edizione del Festival Internazionale New European Bauhaus è stata inaugurata lo scorso giugno proprio a Roma, negli spazi del Museo Maxxi, la monumentale e innovativa opera architettonica progettata da Zaha Hadid, con un dialogo tra Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione europea, e Diébédo Francis Kéré, pioniere dell’architettura sostenibile e vincitore del Pritzker Prize 2022. Presenti anche la Presidente della Fondazione Giovanna Melandri e il Ministro Dario Franceschini.
Il Festival ha chiamato a raccolta i creativi di tutta l’Unione, tra cui architetti, artisti, designer, scienziati, imprenditori e cittadini. In questo contesto si inserisce il piano per il Grande Maxxi, che non è banalmente l’idea di una moltiplicazione degli spazi, ma un progetto per approfondire e ampliare visioni, attitudini di ricerca, formazione, tutela ambientale e riqualificazione urbana. Rolling Stone ne ha parlato con Giovanna Melandri, proprio nei giorni in cui la Fondazione è stata impegnata con la selezione dell’architetto che lavorerà agli spazi verdi del nuovo Maxxi. Lo stesso che in questi mesi è chiamato a ripensare all’area verde di Notre – Dame a Parigi.
Cosa ha spinto la Commissione europea a scegliere il Maxxi come sede per inaugurare il New European Bauhaus Festival?
Si è trattato di una fortunata coincidenza: la presidente Ursula von der Leyen era a Roma in visita istituzionale lo scorso giugno, proprio durante i giorni dell’inaugurazione del Festival. L’attenzione della Commissione non poteva quindi non ricadere su di noi, visto il lancio del progetto del Grande Maxxi avvenuto qualche mese prima. L’idea per il futuro dei nostri spazi dopotutto si ispira al fermento del New European Bauhaus, che guarda al design e alla creatività come occasioni per la trasformazione sociale. Esattamente come avvenne nel 1919 con l’omonima scuola, da cui nacque un movimento visionario a mio parere durato troppo poco. Forse oggi abbiamo l’opportunità di rimediare.
Come nasce il progetto del Grande Maxxi?
Abbiamo elaborato questo piano per il futuro durante i mesi della pandemia, in cui eravamo chiusi ma non spenti. Ci siamo chiesti quale fosse il ruolo di un grande centro di arte contemporanea e se fosse giusto parlare ancora di una sua funzione sociale, di innovazione e ricerca. In America, per esempio, si investe molto nella cosiddetta collective discipline: qui arte e scienza si incrociano per immaginare un mondo nuovo. Questo lavoro di squadra tra le discipline caratterizza da sempre la vocazione del Maxxi. Pensare quindi a una sua evoluzione è stato un passaggio naturale.
In cosa consiste esattamente?
Il Grande Maxxi si compone di cinque pezzi, proprio come fosse un modellino da costruire. Prevediamo innanzitutto la realizzazione di un nuovo edificio che sorgerà in un’area vicina al Maxxi. Questo sarà il nostro centro di ricerca, un luogo che architetti e scienziati di tutto il mondo potranno utilizzare come laboratorio di idee e soluzioni concrete di rigenerazione urbana. Rafforzeremo inoltre la funzione formativa del Maxxi, investendo al tempo stesso nella creazione di un centro altamente tecnologico per il restauro del contemporaneo italiano, che avrà come base proprio il nuovo hub. L’altro mattoncino riguarda il percorso di rinaturalizzazione del Maxxi che si svilupperà per migliaia di metri quadri. Abbiamo così lanciato un concorso internazionale di idee per selezionare il progetto che avrebbe realizzato l’edificio e l’area dedicata agli orti urbani. A questa call anonima hanno partecipato centro studi di architettura e la scelta del vincitore è stata affidata a una giuria d’eccezione composta, tra gli altri, da Petra Blaisse e Mario Cucinella. Ad aggiudicarsi il progetto di riqualificazione del microclima del Maxxi è stato lo studio Bas Smets, lo stesso che sta ridisegnando il paesaggio intorno a Notre-Dame. Un altro pilastro del Grande Maxxi è l’obiettivo “zero emissioni”, creando una vera e propria comunità energetica tra noi e i nostri vicini. Che non sono vicini qualunque, dato che si tratta di caserme facenti capo al Ministero della Difesa. Questo aspetto fa comprendere il forte legame tra la nostra dimensione e le istituzioni italiane. Prevediamo inoltre un forte sviluppo tecnologico del nostro polo, che ha già il suo gemello nel metaverso: ci doteremo di strumenti digitali all’avanguardia sia per la produzione di contenuti, che per la fruizione degli spazi da parte dei visitatori. L’ecosistema digitale che stiamo mettendo a punto ci permetterà di leggere, nel pieno rispetto dei dati sensibili, la reazione del pubblico alle opere. E un primo assaggio in tal senso lo avremo con la mostra appena allestita What a wonderful world che vi invitiamo a visitare. Ci teniamo poi a rendere gli spazi sempre più inclusivi, con l’obiettivo di rimuovere ogni tipo di barriera, fisica, sensoriale o cognitiva che sia. L’ultimo grande impegno riguarda l’area di deposito delle opere, che vorremmo rendere accessibile al pubblico e agli studiosi.
Avvertite la responsabilità di essere pionieri in Europa di un nuovo modello artistico, che unisce sostenibilità, innovazione e inclusione?
Si parla molto in queste tre parole chiave, che descrivono al meglio la direzione in cui la comunità internazionale deve andare, non soltanto in termini artistici. L’obiettivo del Maxxi è però essere quanto più concreto possibile: vogliamo dimostrare al mondo intero che in Italia esistono istituzioni che sanno confrontarsi con la cultura del progetto. Per il Grande Maxxi la sfida è portare a terra le idee. E sono convinta che l’intelligenza collettiva della nostra squadra, che abbiamo costruito negli anni, saprà fare la sua parte. Gli artisti dopotutto sono future tellers, e mi auguro che il Maxxi non si tiri indietro dal raccontare la sua storia.