La voce di Greg Dulli, rugginosa e profonda ma con una tranquillizzante nota di cordialità, arriva via Skype al di sopra di un background di chiacchiericcio e musica hip hop (che poi diventerà country nel corso dell’intervista), in un soffocante pomeriggio di luglio. «Hi man, how you doin’? Fa caldo lì? Qui si muore…». “Qui” è un bar sul Sunset Strip, uno di quelli che fanno parte della catena di locali su cui il cinquantasettenne musicista di Cincinnati, ora residente stabile a Los Angeles, ha investito parte dei soldi guadagnati con il rock’n’roll torbido e viscerale che suona da quasi quarant’anni. Una scelta che – chissà perché, poi – sembra assolutamente perfetta per l’idea di sé che Dulli proietta da sempre.
L’occasione della chiacchierata la offre l’uscita il 9 settembre di How Do You Burn?, il nuovo disco di quella che è la sua creatura più amata, nonostante lo spazio importante che si sono presi nel corso degli anni – soprattutto durante la pausa degli Afghan Whigs negli anni Zero – progetti come Twilight Singers e Gutter Twins, per non parlare delle varie collaborazioni (una al volo: quella con Manuel Agnelli e gli Afterhours) e del suo primo e per ora unico disco da solo, Random Desire, pubblicato nel febbraio 2020 esattamente in contemporanea con l’arrivo di sappiamo cosa.
«How Do You Burn? è nato proprio dalla frustrazione dei mesi in lockdown, quando nessuno di noi sapeva che fare. Dio mio, quei concerti in streaming in locali vuoti, li ho fatti anch’io… non farmici pensare. Quando è arrivata la “peste”, stavo per partire per Dublino per la prima tappa del tour del mio disco solista. Mi è bastato sentire le prime notizie per annullare tutto. Da quando ci siamo ritrovati tutti chiusi in casa, non ho fatto altro che scrivere e suonare, suonare e scrivere… era il mio modo di scappare dalla situazione, di non pensare e di trovare un posto nella mia mente che chiudesse fuori quella merda che stavamo vivendo. Così dopo un po’ mi sono ritrovato con un bel po’ di canzoni, e siccome non avevo nessuna voglia di fare un altro disco da solo, ho chiamato il nostro agente dicendogli di trovare un anticipo per un nuovo disco degli Afghan Whigs».
Un album la cui lavorazione è stata per metà in presenza e per metà da remoto, per usare espressioni a cui ci siamo giocoforza abituati. Nonché il primo album post reunion senza Dave Rosser (il chitarrista scomparso nel 2017 per un tumore, nda). Come è andata?
Alla fine è stato tutto più facile di quello che ci saremmo aspettati. Io, Patrick Keeler e Christopher Thorn (nuovo chitarrista e co-produttore del disco, negli anni ’90 membro dei Blind Melon, nda) viviamo tutti in California, quindi ci siamo ritrovati nello studio di Chris a Joshua Tree e abbiamo cominciato a buttare giù le tracce. John Curley e Rick Nelson hanno partecipato alle session dalle loro case a Cincinnati e nel New Jersey. Nessun problema, quei due sono dei maghi di ProTools, e poi comunque tutti quei mesi di lockdown qualcosa ci avevano insegnato. Abbiamo tagliato i tempi morti e credo sia venuto fuori un album potente, che va dritto al punto e che riflette benissimo lo stato d’animo di quel momento. Quanto a Dave, è stato strano non averlo lì. Doloroso, molto. Ma lo è non averlo più intorno nella mia vita, non solo in studio. Eravamo amici da tanto tempo. Spero ci sia un po’ di lui, in questo disco.
Non è l’unica assenza che incombe su How Do You Burn?. L’altra è, ovviamente, quella di Mark Lanegan.
Già. Mark, oh Mark. Cristo. Da dove vuoi che cominci a parlarti di lui?
Forse dall’inizio della vostra amicizia. Che mi pare, stranamente, non risalga agli anni caldi del grunge…
È così. Nei primi anni ’90, quando lui stava negli Screaming Trees, ci si era incrociati qualche volta nel giro, «hi Mar», «hi Greg», ma niente di più. Abbiamo cominciato a frequentarci nei primi anni Duemila, quando ci siamo ritrovati entrambi a Los Angeles. Da lì siamo diventati fratelli di sangue. Ho così tanti ricordi fantastici di Mark. Abbiamo girato il mondo assieme, abbiamo scritto grandi canzoni. Quando è entrato nel progetto Twilight Singers gli ha impresso una personalità talmente forte da farlo poi evolvere nei Gutter Twins, che alla fine erano più una sua creatura che la mia. Avevamo una connessione profonda, comunicavamo con un linguaggio che capivamo solo noi due. Al di là dell’aura intimidente che emanava, era una persona dolce e divertente. Ed è stato il più grande cantante che io abbia mai visto all’opera. Sai qual è la cosa più triste? Che nonostante tutte le splendide canzoni che aveva cantato, stava cominciando adesso a trovare la sua strada. Ha sempre avuto un talento formidabile, ma con la maturità aveva affinato la sua voce artistica. Hai letto i suoi due memoir? Per me sono dei capolavori. Mark aveva ancora molto, moltissimo da dare a questo mondo.
Qualcosa ha lasciato in questo album degli Afghan Whigs, tuttavia. A cominciare dal titolo…
Sì, How Do You Burn? era una di quelle frasi che tirava fuori di tanto in tanto e non capivi mai cosa volesse dire. Tipo che gli telefonavi e lui ti rispondeva così: «how do you burn, Greg?». Sono arrivato alla conclusione che volesse dire qualcosa tipo «cos’è che ti appassiona, che ti consuma?», insomma con una accezione positiva. Per cui mi è sembrato il titolo perfetto per il disco, era anche un modo per ricordare Mark. Che peraltro canta in un paio di pezzi, Jvya e Take Me There. Probabilmente si sarebbe incazzato nel sentire come l’ho tenuto basso nel mix, ma per me è il modo migliore per far risaltare la pasta della sua voce.
Abbiamo parlato di amici che non ci sono più, ma lo spirito del disco non è quello di una veglia. C’è una energia e una rabbia positiva in certi brani, penso per esempio all’apertura di I’ll Make You See God, che mi riporta molto più degli ultimi dischi ai tempi di Gentlemen e Black Love.
Mi piace l’espressione “rabbia positiva”. La rabbia c’è sempre, con l’età e l’esperienza forse ho imparato a dirigerla verso altri obiettivi che non siano me stesso. Non scriverò mai canzoni politiche, non ne sono capace e non mi piace l’idea, ma guarda il mondo là fuori: come fai a non provare rabbia? È una merda molto più di quanto non fosse non solo negli anni ’90, ma anche solo dieci anni fa. La pandemia, la guerra, l’inquinamento, il cambiamento climatico, questo Paese assurdo in cui un branco di vecchi uomini bianchi dice alle donne quello che devono fare col loro corpo… è un mondo sempre più desolato, che non riconosco più. Quindi sì, la rabbia c’è, ma ci sono anche le altre ispirazioni che puoi trovare nel mio songwriting da sempre. Il sesso, la passione, le recriminazioni, l’amore, la violenza, che sia quella vera o quella dei sentimenti.
A proposito di amore e recriminazioni, mi incuriosisce il testo di Domino & Jimmy. Sembrerebbe racchiudere in poche strofe la definizione di “legame tossico”. Chi sono i due personaggi del brano?
Due che non riescono a smettere di amarsi, ma si sentono perduti dentro il loro amore. Sai chi sono, in realtà? Sono la coppia di My Curse trent’anni dopo. Anche per questo ho voluto che a cantare ci fosse Marcy Mays. Era da tanto che volevo di nuovo averla su un nostro disco, ogni tanto ci scherzavamo su io e lei al telefono. Questa è stata l’occasione giusta.
Ritornando proprio a certe vecchie canzoni degli Afghan Whigs, oggi alcuni testi possono fare un effetto diverso rispetto a venticinque o trent’anni fa. C’è una sensibilità diversa, e spesso anche la messa in scena di personaggi o comportamenti discutibili viene giudicata a volte in modo fin troppo letterale. È un problema che ti poni?
Ci sono canzoni di quel periodo, parlo di Congregation o di Gentlemen, che per tanto tempo non sono riuscito a cantare, ma non per il motivo a cui alludi tu. Era perché mi procuravano ricordi spiacevoli, mi facevano tornare in mente certi aspetti della mia persona che ho lasciato indietro. Poi ci ho fatto pace, e adesso sono canzoni come la altre. Ma ho capito il senso della tua domanda. La risposta sta nella frase che hai usato: messa in scena. Se io faccio parlare un misogino in una mia canzone, non significa che quel misogino sia io né che faccia propaganda alla misoginia. Ma c’è un altro punto, che è ancora più importante: come ho detto prima, il destinatario unico di quella rabbia e di quella brutalità ero io. I testi che scrivevo erano contro di me.
Cosa ascolti in questo periodo? C’è qualcosa che hai scoperto recentemente che ha influenzato la scrittura dei brani del nuovo disco?
Ascolto tantissime cose, ma ciò non significa che abbiano avuto un influsso sulle canzoni che scrivo. Quel periodo è finito, e d’altra parte niente potrà più avere su di me la stessa influenza che ebbero quando ero giovane la Stax e la Motown, il soul di Philadelphia, il punk o gli Hüsker Dü. Ascolto per piacere personale, per aprirmi la mente, per educarmi. Sono diventato ultra-appassionato di stazioni radio in streaming, specialmente europee. Ascolto un casino Berlin Community Radio, emittenti francesi di elettronica o hip hop di cui non so neanche pronunciare il nome, stazioni jazz, radio che passano solo r&b di Memphis. Nessun limite di genere, mi piace spaziare e perdermi tra le suggestioni musicali, le playlist, i mixtape. La black è sempre una grande passione, penso che ci sia molta innovazione nell’ambito della musica nera, uno come Kendrick Lamar è incredibile… ma va bene tutto, da un trio jazz europeo a una band psichedelica texana a dei cantanti soul greci.
Ti saresti mai aspettato trent’anni fa di veder finire una canzone degli Afghan Whigs in un videogioco (I’ll Make You Se God, nella soundtrack di Gran Turismo 7)?
Ah ah, ma figurati. Non ho mai toccato un videogioco in vita mia. Ma ho degli amici che lavorano nel team della PlayStation. La cosa è divertente, mi piace. E poi ben vengano questi utilizzi della musica in altri contesti, sono delle opportunità da non buttare via. Guarda cosa è successo a Kate Bush con Stranger Things. Dio che canzone, Running Up That Hill, quando andavo al liceo ne ero pazzo.
Un saluto al tuo amico italiano Manuel Agnelli, in chiusura?
Hi Manuel, you rule! Che tipo fantastico. Pensa che ci siamo conosciuti durante un matrimonio a Las Vegas. Una volta mi aveva invitato da lui per un paio di concerti e mi sono fermato per sei mesi. Un grande talento e una persona squisita. Poi ho saputo che ha messo in tv una t-shirt con il logo della mia catena di bar e un’altra con scritto “Who the fuck is Greg Dulli?”. Come potrei non volergli un bene dell’anima?