I Verdena sono l’anello di congiunzione tra la scena rock alternativa italiana dei primi anni ’90 e le nuove leve degli anni Zero, hanno attraversato a distanza di sicurezza tutta la faccenda trap e it-pop e oggi rimangono una delle poche certezze della musica italiana. Nonostante oltre 25 anni di attività e sette album sul groppone, hanno saputo mantenere un’integrità e una credibilità senza paragoni, continuano a innovarsi e a suscitare un hype enorme nei fedelissimi fan che continuano ad aumentare e, soprattutto, ad avere bisogno di loro come il pane. Il nuovo album Volevo magia è in arrivo, è un’ottima occasione per ripassare tutta la loro discografia per farsi trovare pronti.
“Verdena” (1999)
Sarebbe un esercizio privo di senso valutare l’esordio discografico dei Verdena con gli stessi paradigmi con cui li consideriamo oggi. Questo principio è valido per qualunque band con una produzione che copre un raggio di quasi 25 anni, lo è in particolare per i Verdena, i quali hanno inserito progressivamente dosi di maturità e aggiunto strati di complessità alla propria musica di album in album, senza passare per rivoluzioni dalle fondamenta lungo il cammino. È il motivo per cui oggi possiamo considerare questo disco un vago embrione dei Verdena, all’epoca poco più che ventenni, ancora in piena sbornia grunge, sia negli outfit che nei riferimenti.
Chitarre distorte e timidi assoli, testi un po’ troppo elementari, ascoltare oggi Verdena per chi all’epoca era un adolescente e l’ha consumato nella propria cameretta suscita ricordi di acconciature e attitudini imbarazzanti, di depressioni teen ingenue, ribellioni innocue e poco più. Fatta eccezione per un piccolo revival del singolo di successo Valvonauta – riproposta anche dal vivo negli ultimi tour – la track list risulta oggi trascurabile per chi non è in vena di nostalgia. Restano leggendarie le apparizioni su MTV dell’epoca, da recuperare assolutamente per chi non le conoscesse già a menadito.
“Solo un grande sasso” (2001)
Ho sempre pensato a questo disco come una versione premium del precedente, come il secondo capitolo di un videogioco migliorato nella grafica e nei dettagli. Se Verdena, con tutti i suoi limiti, avrà sempre il pregio di aver lanciato la band verso il successo, questo disco con il senno di poi è quello tra tutti con un’identità meno definita e riconoscibile. O meglio, il tentativo è chiaro: fare un disco psych, che abbia come principale riferimento band come i Motorpshyco. Ma il risultato in alcuni casi è una eccessiva dispersione dei pezzi. Brani come Nova, Starless o Centrifuga, per esempio, pur essendo molto validi, superano abbondantemente i 6 o 7 minuti e si dilatano senza riuscire a sostenere l’audacia del tentativo.
Prodotto da Manuel Agnelli, a quel tempo in grande sodalizio artistico con Alberto Ferrari, Solo un grande sasso è un disco con un differente spessore qualitativo e una maggiore tridimensionalità dei pezzi, c’è anche la novità dei brani acustici, dell’utilizzo del mellotron e dei sintetizzatori, anche qui, in una forma embrionale rispetto a quanto vedremo in futuro. Non un brutto album, sia chiaro, ma forse quello meno cruciale e che ha retto peggio il passare degli anni.
“Il suicidio dei samurai” (2004)
Ecco il primo vero capolavoro. Il suicidio dei samurai rimane nell’immaginario di chi ha vissuto quegli anni uno dei più significativi dischi dell’alternative italiano di inizio millennio, che all’epoca (oggi si può dire) godeva di ottima salute. Con quell’iconica copertina gialla che si prende tutta la scena, così come è iconica la figura di Roberta Sammarelli che si scatena al basso durante i live più duri di quegli anni, rimane a tutti gli effetti l’unico disco dei Verdena con una track list perfetta, inattaccabile dalla prima all’ultima traccia, senza passaggi a vuoto né riempitivi. Ogni brano ha qualcosa da dire, qualche verso da citare o sul quale interrogarsi, qualche sorpresa dietro l’angolo. E soprattutto un’energia pazzesca che dal vivo consacra definitivamente i Verdena.
Primo tentativo di autoproduzione della band, è un disco che gli conferisce quel suono aspro, ruvido, pungente, rozzo e tremendamente efficace che, pur nelle varie evoluzioni, continuerà a tornare come marchio di fabbrica. Probabilmente è qui che prende definitivamente forma il mito dei testi nonsense di Alberto Ferrari, il quale sarà costretto per sempre a tentare di dare una spiegazione a versi come “settembre ci porterà via con sé come una roccia che pende”, “sarò così onesto come se tu fossi il mare”, “getto le ultime molecole contro di te”, una delle caratteristiche più divisive dei Verdena, che negli anni diventerà una firma d’autore inimitabile e ineguagliabile.
“Requiem” (2007)
Se dovessi scegliere un solo disco per far conoscere i Verdena a chi non li ha mai ascoltati, sceglierei questo, senza ombra di dubbio. Qui c’è tutto, o perlomeno buona parte, del repertorio passato e futuro della band. Chitarre brutali e distorsioni, psichedelia, lunghe divagazioni, brani matrioska, ma anche dolci ballate, pianoforte, riverberi e pezzi acustici. Mi rendo conto che potrebbe essere considerata un’hot take, ma probabilmente questo è il miglior disco dei Verdena nel complesso. Sebbene gli album successivi riserveranno picchi più alti, qui c’è una chiarezza nelle idee e una compattezza negli intenti che a mio avviso rimangono ineguagliati. Un disco oscuro, abissale, tetro come quegli anni, che però non lesina slanci romantici.
Trovami un modo semplice per uscirne è un brano che solo un pazzo potrebbe spodestare da un ipotetico podio dei migliori brani dei Verdena. Ma come non amare Don Callisto, Non prendere l’acme, Eugenio o Il Gulliver, capolavori assoluti che sono a tutti gli effetti brani fondanti della credibilità dei Verdena. Ci sono poi anche i singoli Muori Delay, Caños e Angie che fecero in qualche modo breccia anche nel pubblico meno avvezzo o che considerava inaccessibile la band bergamasca, pur mantenendo intatta l’identità della band che in quegli anni si esibì su un palco di fatto mainstream come quello del Primo Maggio, ma anche in contesti palcoscenici come lo Sziget, dove le band nostrane hanno sempre fatto un’enorme fatica ad imporsi. Probabilmente Requiem è sottovalutato (ammesso che lo sia) perché sconta la pena di essere esattamente a metà tra i primi Verdena, quelli tutti chitarre tanto cari ai fan della prima ora, e quelli più sfaccettati, colorati e al contempo pop e sperimentali che conosciamo oggi.
“Wow” (2011)
L’opera immane, l’atto di profondo amore nei confronti del proprio mestiere di musicisti e verso i propri fan. Wow è l’apogeo creativo dei Verdena, lo sforzo più grande in termini artistici, di ricerca della varietà del sound e di complessità di produzione. Tuttavia, come tutti (o quasi) gli album doppi, inevitabilmente presta il fianco a qualche passo falso o riempitivo. Ce li ha persino il White Album, ce li può avere anche Wow con le sue 27 tracce. Un disco non a caso beatlesiano, eccessivo, pazzamente libero, che plasmerà in maniera indelebile l’identità dei Verdena e la percezione del pubblico nei loro confronti. Questo album rappresenta una chiave di volta della produzione della band, l’ingresso nel nuovo decennio, un profondo rinnovamento in termini stilistici e nei canoni estetici. È anche il disco in cui Luca Ferrari, già fondamentale per il sound, si consacra come batterista eccelso, una vera e propria macchina che da qui in avanti sfoggerà delle prestazioni semplicemente fuori di testa.
Nel 2011 i Verdena sono di fatto dei veterani. Sono gli anni in cui si inizia a parlare della crisi delle riviste di settore, della crisi del mercato discografico, dell’avvento dei social nel nostro quotidiano e del digitale, di grandi cambiamenti anche generazionali nella scena musicale prima detta alternative e poi divenuta indie. Molte band che avevano avuto il loro discreto successo negli anni Zero di fatto spariscono, altre troppo grandi per implodere intraprendono percorsi molto diversi, come i Subsonica o gli Afterhours, che intensificano il rapporto con i propri fan ormai over 30. I Verdena rilanciano con un lavoro mastodontico che allarga il pubblico di riferimento, uscendo un po’ dalla reclusione della band di nicchia, solo per pazzi. Lo fanno a modo loro, con un singolo mefistofelico e indecifrabile come Razzi arpia inferno e fiamme, un brano etereo e folle, privo di una qualsivoglia struttura, men che mai di un ritornello, seguito da una ballata acchiappalike come Scegli me. I palazzetti iniziano a riempirsi di facce nuove e di nuovo giovani come ai tempi di Valvonauta.
Wow rimane anche uno dei dischi più malinconici dei Verdena, fatto di molti brani brevi e introspettivi che rappresentano un sottogenere perfettamente riconoscibile: Le scarpe volanti, Castelli per aria, Grattacielo, Canzone ostinata, Letto di mosche e infine Lei disse (Un mondo del tutto differente) forse sono tutti brani minori, ma che sono rilevanti perché hanno permesso alla band di rinnovarsi stilisticamente e aprire un canale fino a quel momento inedito ma al contempo perfettamente in linea con l’immaginario così connotato come quello dei Verdena. Non una cosa da nulla per una band al quinto disco.
“Endkadenz vol. 1/vol. 2” (2015)
Sebbene questi due album siano stati pubblicati a distanza di circa otto mesi l’uno dall’altro e vivano di vita propria, ritengo più opportuno trattarli come un unico album doppio, vista l’evidente continuità nel sound tra i due dischi e l’unica radice produttiva. Prima un po’ di contesto: in Italia nel 2015 siamo in piena wave it-pop. Sono gli anni del successo di Mainstream di Calcutta e di Fuoricampo dei Thegiornalisti, sono anche gli anni in cui si inizia a parlare un po’ più di frequente di trap, mentre tutta una nuova leva si apprestava a prendersi la scena e ad occupare le radio e le classifiche come probabilmente le generazioni precedenti, come quella dei Verdena, non avevano mai potuto o voluto fare. È però anche l’anno di Die di Iosonouncane, il miglior album italiano del decennio, il quale all’epoca si sperava fosse l’inizio di qualcosa e invece mi sa proprio che oggi possiamo appurare quanto ne fosse la fine. I due Enkadenz escono dunque in questo panorama, del quale, come al solito, i Verdena se ne infischiano, andando dritti per la loro strada un po’ fuori dal mondo. Il risultato sono due ottimi dischi – il Vol. 1 decisamente migliore del secondo – nel quale è presente forse l’unico brano che regge il confronto con un capolavoro come Stormi del già citato Iosonouncane, ovvero Puzzle.
Proprio come Wow, i due Endkadenz sono album generosi, sperimentali, ricchi di idee. D’altra parte però i passi falsi sono in leggero aumento, lo schema dà segnali di ripetitività. Non di certo privo di piccoli capolavori che entrerebbero dritti in un immaginario best of, qui la vera novità è rappresentata dalle escursioni battistiane di brani come Nevischio, Contro la ragione, Dymo o Identikit che conferiscono ai Verdena uno spessore di maturità ulteriore, che apre scenari interessanti per quello che ascolteremo in futuro. Per quanto sia un discorso che lascia il tempo che trova, il risultato sarebbe stato molto diverso se si fosse scelto di riassumere tutto in un unico disco che lasciasse spazio solo ai brani più convincenti e pronti, sono una decina in tutto.