È il 2 settembre 1997 ed esce il debutto di una band alternative rock chiamata Talk Show. Il singolo di traino, Hello Hello, ottiene un po’ di passaggi radiofonici, ma il disco si ferma alla posizione 137 della Billboard 200. Più avanti, in autunno, il gruppo apre per i Foo Fighters e gli Aerosmith, per poi sciogliersi, trasformandosi in una meteora nella storia del rock alternativo.
Sarebbe una storiella di poco conto, se non fosse che i Talk Show altro non erano che gli Stone Temple Pilots con Dave Coutts al posto del carismatico e tormentato cantante Scott Weiland. Gli STP in quel momento erano uno dei gruppi rock più importanti d’America, ma Weiland era alle prese con un grave problema di tossicodipendenza e i suoi compari erano stufi di avere a che fare con lui. Non avevano però capito che la loro etichetta non era minimamente interessata a un progetto senza Weiland. Lo spiega Coutts racconta: «Uno della Atlantic venne in studio quando il disco dei Talk Show era mixato. Non ha neppure chiesto chi fossi. M’è passato davanti e ha chiesto: “Quand’è che torna Scott?”. Manco aveva ascoltato l’album».
La Atlantic ha stanziato un budget risicato per i Talk Show, ha estratto un solo singolo per poi idimenticarsene. STP hanno poi riallacciato i rapporti con Weiland e hanno iniziato a lavorare a No. 4. Scott ha continuato a cantare negli STP a fasi alterne fino a due anni prima della sua morte, nel 2015. Ma Coutts, per mantenere la sua famiglia, ha dovuto trovarsi un lavoro estraneo alla musica. «Quando mi hanno detto che era finita, è stato come se mi avessero sferrato un pugno allo stomaco. Come ti riprendi da un colpo simile?».
Coutts è cresciuto a Long Beach, California. Finite le superiori ha fatto diversi lavoretti occasionali, ma passava le serate in sala prove con la sua band, i Ten Inch Men. Dopo essersi costruiti un buon seguito nella scena dei club californiani e avere suonato in tutta la East Coast, dieci anni di duro lavoro hanno dato i loro frutti: nel 1993, i Bon Jovi li hanno invitati ad aprire un paio di concerti. È stato l’inizio del percorso che ha portato Coutts fino agli Stone Temple Pilots.
Come hanno fatto i Bon Jovi a venire a contatto coi Ten Inch Men?
Avevamo ottenuto finalmente un contratto discografico e avevamo anche un paio di pezzi nelle colonne sonore di Hellraiser 3 e Dr. Giggles. Non so come si siano accorti di noi, ma ci hanno chiesto di aprire per loro a San Diego e poi a San Francisco. Quando ci hanno proposto di andare in tour europeo con loro in Europa, la nostra etichetta si è opposta. Non aveva i fondi necessari. Si parlava più o meno di 23 mila dollari da investire per farci suonare negli stadi con i Bon Jovi. La sera che l’ho saputo mi sono tagliato il codino di capelli e ho mollato il gruppo.
Quali erano i tuoi piani?
Non ne avevo. Ero stato in una band per dieci anni. La ragazza speciale con cui stavo mi ha detto che dovevo mettere la testa a posto. Scherzava, ma fino un certo punto. Così per un annetto ho lavorato nel ramo assicurativo. Un giorno, mentre sono al computer, il telefono squilla. Un mio collega dice: «Dave, è il manager degli Stone Temple Pilots, vuole parlarti». Ma va a cagare, gli rispondo. Sai, era un tipo a cui piaceva scherzare. Invece era davvero lui, Steve Stewart. «Stanno cercando un nuovo cantante perché Scott è in un momento difficile. Ti andrebbe di incontrarti col bassista, Robert DeLeo?».
Lo conoscevi già?
Avevo già incontrato Robert: gli STP avevano aperto per i Ten Inch Men prima che Dean DeLeo ed Eric Kretz entrassero in formazione. Allora si facevano chiamare Swing e hanno suonato prima di noi a Huntington Beach. Penso che Robert si ricordasse di me.
Quella telefonata deve averti sconcertato: loro in quel momento erano una delle band più importanti del paese.
E io ero un fan. Avevano appena pubblicato il secondo album, Purple, in radio passavano Vaseline e Interstate Love Song e io pensavo che stavano andando alla grande. Insomma, quella telefonata mi ha fatto impazzire di gioia.
Quando li hai incontrati ti hanno spiegato cosa stava succedendo nella band?
Mi sono visto con Robert, a casa mia. Non mi ha detto granché della situazione, ha parlato di problemi con Scott legati alla droga. Abbiamo ascoltato tutto il disco dei Ten Inch Men, lui prestava attenzione in particolare alla mia estensione vocale. Quando gli ho detto che la mia voce non somigliava affatto a quella di Scott mi ha detto: «Infatti, non vogliamo che canti come lui».
Ti hanno mai parlato di diventare il nuovo cantante degli STP o era chiaro che si trattava di un progetto diverso?
Era palese che si trattava un progetto parallelo. Non volevano uscire col nome STP perché volevano tenere in piedi la band in caso Scott si fosse rimesso in sesto.
Poi hai fatto un’audizione?
Sì, sono andato a casa di Robert a San Pedro. Sono arrivati Dean ed Eric, era la prima volta che li incontravo. Mi hanno chiesto di cantare, lì.
E ti hanno comunicato subito che avevi ottenuto il posto?
No, non mi hanno mai detto nulla del tipo: «Bene, sei assunto». Era più una cosa tipo: «Ok, adesso dobbiamo finire Tiny Music… Songs from the Vatican Gift Shop». Stavano ancora terminando di incidere quel disco degli STP. Poi, alla vigilia delle prove per il tour promozionale, Scott è uscito di scena. Una sera, all’improvviso, mi hanno telefonato. Ero in giardino, a casa, che facevo un barbecue e mi hanno chiesto: «Puoi venire subito a L.A.?». Li ho raggiunti e li ho trovati in una sala prove gigante, dove abbiamo iniziato a lavorare a dei pezzi, ma prima di quel momento non avevamo mai suonato o scritto insieme.
Sei accreditato fra gli autori di quasi tutti i brani del disco dei Talk Show: hai collaborato molto alla scrittura.
Sì. Mi avevano detto che erano pieni di canzoni pronte, ma non era vero. Io ho scritto la musica di Wash Me Down, ho mostrato gli accordi a Dean, che l’ha poi risuonata uguale nel disco. L’assolo però non è farina del mio sacco: è fatto con lo slide ed è molto bello. Mie sono musica e parole di Morning Girl e metà della parte strumentale di End of the world. Poi direi che ho scritto almeno il 30% dei testi.
Ti sentivi sotto pressione?
Costantemente. Era difficile fare proposte. In fondo dovevo scrivere per gente che aveva venduto 18 milioni di dischi: c’era un bel po’ di pressione.
Quanto avete impiegato a incidere l’album, dopo che i pezzi erano pronti?
Un paio di mesi.
Però è rimasto nel cassetto per un bel po’. Come mai?
Loro volevano tornare in tour con Scott. Dopo avere registrato dei demo ho atteso circa otto mesi. Poi hanno voluto fare preproduzione, a cui è seguita un’altra pausa. Dopo abbiamo inciso il disco, si sono presi un’altra pausa e finalmente è uscito.
Quando avete finito l’album dei Talk Show, loro sono andati in tour con Scott. In quel momento hai mai pensato che avrebbero abortito il progetto per continuare con gli STP?
Direi di sì. Mi frullavano in testa tantissimi pensieri.
Nel periodo intercorso fra le registrazioni, nel 1996, e la pubblicazione dell’album, nell’autunno del 1997, l’industria discografica ha subìto un grosso cambiamento. Sono arrivati gli Hanson e le Spice Girls e MTV ha iniziato ad abbandonare la programmazione di gruppi rock. Pensi che questo abbia penalizzato il disco?
Non credo. Ho idea, semplicemente, che l’etichetta non volesse promuoverlo. Nel disco c’erano molte canzoni buone. Avrebbero potuto pubblicare un secondo singolo usando Peeling an Orange e sarebbe andato molto bene. End of the World era un bel pezzo, così come John. Avrebbero potuto farci girare un altro video. Ma volevano che tornasse Scott… ed è esattamente ciò che hanno ottenuto.
La band era delusa dalla mancanza di supporto dell’etichetta?
No. Penso che tutti volessero solo tornare a suonare negli stadi.
Parliamo del tour. Vi siete esibiti in qualche club prima di partire?
No, nessun concerto di riscaldamento. Abbiamo subito suonato da supporto in posti più grandi, ma non stadi: una via di mezzo. Le prime date sono state in apertura ai Foo Fighters. Io dicevo ai ragazzi: «Perché non facciamo qualche concerto di rodaggio nei club, prima di salire su quei palchi davanti a tantissima gente che non ha idea di chi cazzo sia io?». E loro: «Ma no, partiamo in tour con Dave Grohl». Non sapevo come comportarmi: non volevano che io fossi una copia di Scott, ma neppure che fossi me stesso. In più nel tour erano bandite droghe a alcol: è stata durissima, perché a me avrebbe fatto bene spararmi due shot di tequila prima di cantare davanti a gente per cui ero un perfetto sconosciuto. Ma non si poteva. Anche il tour con gli Aerosmith è stato così. Ormai mi ero abituato alla sobrietà, ma non era molto divertente. Con un po’ di tequila in corpo ti viene più spontaneo fare un po’ di spettacolo, ma da sobrio mi limitavo a eseguire le canzoni cercando di non stonare. Era quasi come un lavoro.
Prima del tour avete concordato di non fare pezzi degli STP?
Sì, ma alla fine della nostra John di solito facevamo una porzione di Trippin’ on a Hole in a Paper Heart. Una volta abbiamo invitato in tizio sul palco a cantare Vaseline, ma faceva schifo e Dean mi urlava: «Vai a levargli il microfono!».
Verso la fine del tour dei Talk Show, Dean ha parlato col Los Angeles Times: «Per me è difficile aprire per gli altri. È deludente. Diciamolo: tutti vengono per gli Aerosmith, nessuno per i Talk Show o per tre quarti degli STP. E non è bello trovarsi in questa situazione dopo aver pubblicato tre dischi di successo. Onestamente, forse non ero pronto per questa cosa».
Già (sarcastico). Ancora una volta era colpa mia, no? Nel corso del tour ho avuto sentore di alcuni malumori, tipo «Dave non ha tenuto bene il palco». Ve lo dico io perché Dave non teneva bene il palco: perché, cazzo, era sobrio. E nessuno sapeva chi fosse. Dunque era tutta colpa mia perché non facevo dei cazzo di balletti? Io so esattamente cosa è successo: l’etichetta voleva che Scott tornasse, dipendente dall’eroina o meno non importava. E Dean era abituato a fare l’headliner. Amico, se volevi essere headliner non dovevi chiamare me per incidere il disco. E poi anche gli STP, nei primi sei mesi dopo l’uscita dell’album di esordio, aprivano per gli altri.
A un certo punto hanno detto alla stampa che c’era un secondo album dei Talk Show in ballo. Te l’hanno mai comunicato?
Sono sicuro che l’abbiano fatto perché li ho sentiti raccontare le stesse balle quando hanno chiamato Richard Patrick per gli Army of Anyone e quando hanno preso Chester Bennington negli STP.
Ti hanno detto che era tutto finito dopo l’ultimo concerto dei Talk Show nel 1997?
No. Mi hanno invitato a casa di Robert, ma sapevo che era finita e infatti ho portato con me dei vestiti che mi aveva prestato Dean. Sono arrivato e ho detto: «Ecco, tieni Dean». E loro: «Vieni di là, guardiamo un video». Sono entrato nella stanza della tv e volevano farmi vedere dei video degli STP con Scott, prima che la band diventasse famosa. Penso volessero mostrarmi che lui aveva un’ottima presenza sul palco. Ma non mi hanno detto: «Sei fuori». Mi hanno comunicato: «Non vogliamo più continuare coi Talk Show». E io: «Ok ragazzi, è stato bello conoscervi». Sono uscito e ho guidato fino a casa.
Hai poi ascoltato il disco successivo degli STP o ti sei messo tutto alle spalle?
Ho letto un po’ di interviste e ho sentito alcuni pezzi. Ma da allora non ho più ascoltato un loro disco per intero.
Quando hai parlato con loro l’ultima volta?
Ho parlato con Robert più o meno cinque anni fa al telefono, verso Natale. Ci siamo mandato un po’ di vecchie foto di quando eravamo bambini e ci siamo scambiati delle foto dei nostri figli.
Quindi i rapporti sono civili.
Non più (ride). Ho fatto una stupida intervista con un tizio e lui ha scritto tutte le cose negative che ho detto sul loro conto, ma senza contestualizzarle. L’intervista è uscita e Robert mi ha mandato un messaggio con un punto interrogativo e basta. E poi non l’ho più sentito.
Ti sei scusato?
No. Le mie non erano bugie. Solo che le cose che dici nelle interviste, quando finiscono sulla pagina nero su bianco, sembrano peggio di quello che intendevi. Quando ho letto il pezzo ho pensato: «Ci faccio una pessima figura. Sembro così astioso nei loro confronti. Ma non lo sono».
Non dev’essere facile ora, per loro, andare in tour senza Scott.
Jeff Gutt, il nuovo cantante degli STP, ha tutta la mia solidarietà. Ha una voce bellissima, ma non vorrei essere nei suoi panni. Forse per lui è leggermente più facile perché Scott purtroppo non c’è più e quindi può stare sicuro che gli altri non hanno modo tornare con lui.
Quando sei andato in tour con loro, tutti si aspettavano di vederlo tornare.
Mi tiravano cose sul palco. Alla Roseland Ballroom, quando abbiamo aperto per i Foo Fighters, mi hanno lanciato veramente di tutto.
Che piani hai per i prossimi anni?
Vorrei continuare a registrare. Solo che ormai non si fanno più soldi coi dischi, a meno che tu non sia Taylor Swift o un artista country enorme, quindi è uno spreco di denaro. Non posso continuare a dire a mia moglie «voglio fare un altro disco» perché lei mi risponde «non possiamo andare in vacanza, invece?». Mi piacerebbe che da qualcuna delle mie canzoni nascesse qualcosa. Ci sono tantissimi show su Netflix per cui c’è bisogno di musica. Mi piacerebbe se qualcuno mi dicesse: «Dave, possiamo usare questo tuo brano?». Sarebbe una buona cosa.
Se ti capitasse di incontrare uno degli STP, cosa gli diresti?
«Come stai?». Non so cos’altro potrei dirgli. Magari lo abbraccerei. Loro ora fanno le loro cose. So che Robert dovrebbe incidere un disco solista, ma so anche che non mi chiamerà. E non m’importa.
Tradotto da Rolling Stone US.