Non vuole essere chiamato maestro, ma «semplicemente Enzo». Re della world music made in Naples, uno che nella sua vita ha conosciuto un pezzo di gotha della musica che conta a livello internazionale, Enzo Avitabile ha portato in giro un suono nuovo, ha reso pop e masticabile per le masse un qualcosa che (forse) avrebbe faticato a sradicarsi da una zona precisa dell’Italia. Invece dai quartieri popolari di Napoli le radici si sono ramificate in tutto il pianeta.
La nuova radice è Il treno dell’anima, progetto con feat di Ligabue, Edoardo Bennato, Speranza, Rocco Hunt, Giuliano Sangiorgi (che canta nel dialetto grecale salentino), Guè, Boomdabash, Biagio Antonacci e Jovanotti. Ne parliamo con l’artista che, nel corso della carriera, ha fatto incetta di riconoscimenti e collaborazioni.
Enzo, possiamo definire questo lavoro il tuo primo disco pop?
In realtà più che scegliere le sonorità, ho scelto amici storici che, ahimè, sono anche delle star della musica pop. Durante il lockdown sono stati sempre cordiali, con ognuno di loro ho una storia, ma volta per volta ho chiesto di lasciare una testimonianza della nostra amicizia, della nostra arte.
E…?
Mi sono abbandonato a questo suono suonante, come direbbe Carmelo Bene.
Ok, ma come ti sembra il risultato, che disco è?
Molto rilassato. Mi andava di fare qualcosa in italiano, visto che la prima parte della mia vita l’ho passata a incontrare tutti quelli della scatola magica.
Scatola magica?
Il jukebox di Scampia.
E chi c’era in questa scatola magica?
Tina Turner, James Brown, Afrika Bambaataa, Randy Crawford e chi più ne ha più ne metta. E poi c’è da fare anche un discorso.
Quale?
Con Afrika Bambaataa facemmo Street Happiness, un brano tra hip hop e una hit internazionale. Lui venne a Scampia, io andai nel Bronx e gettammo un ottimo seme per il dopo, il rap napoletano. Uno di questi è pure mio nipote, Ntò dei Co’Sang, poi c’è stato Luchè. Ho avuto questa sorta di militanza culturale con loro, ma ci ho collaborato anche con Rocco Hunt, Guè Pequeno.
Quindi, dopo questa tua prima parte della vita che è successo?
Coi Bottari abbiamo messo in atto una disamericanizzazione per intraprendere qualcosa che ci rendesse riconoscibili, di mio, di nostro, girando tutto il mondo. Abbiamo cambiato il modo di suonare e iniziato con il calendario aperto: oggi a Londra, domani a Copenaghen e poi Rionero Vulture, Agadir, Capocastello, e così via…
Bellissimo.
È stata una scelta di diffusione che mi ha aiutato tanto. Non si poteva rendere possibile una cosa dipendente unicamente dal successo dei dischi. Anche se i numeri del periodo degli album di world music, Salvamm ‘o munno, Black Tarantella, che vinse la seconda Targa Tenco dopo Napoletana, Sacro Sud e Lotto infinito, mi hanno permesso di incrociare De Gregori, Battiato e Pino Daniele. Black Tarantella si apre con Pino che canta in napoletano.
Non si riesce a starti dietro…
Sembra caotico il tutto, ma il mio suono nazional-mondiale ancora continua. I miei capisaldi: parola, suono, gesto e danza non potevano vivere solo per una canzone di successo, anche se Soul Express arrivò prima in classifica.
Quindi in top 10 ci sei finito.
Perché in quelle settimane i numeri uno non uscirono con i loro dischi, non c’erano album di Claudio e Antonello (Baglioni e Venditti, ndr).
E poi?
Gli incontri con la world music mi hanno dato la possibilità di incontrare Andrea Ragusa, il mio produttore dal 2000 e Jonathan Demme (premio Oscar per Il silenzio degli innocenti) che ha voluto realizzare il documentario Enzo Avitabile Music Life, nel quale si svelano aspetti che difficilmente sarebbero usciti fuori. Da quelle immagini il regista Edoardo De Angelis mi ha chiamat0 per il film Indivisibili.
Be’ quello è stato un successo, se non ricordo male…
Vinco due David di Donatello, due Nastri d’Argento e un Globo d’oro.
E poi?
Andiamo avanti in questo percorso, approfondendo la parte sinfonica e strumentale: lavoriamo con Pippo Delbono con opere come Orchidee e Vangelo, facciamo una cosa straordinaria con il Teatro San Carlo di Napoli e vinciamo il premio UBU e il Premio Morricone. A questo premio ci tengo particolarmente perché il maestro è nel cuore di ognuno di noi, una sorta di punto luce. Insomma, andiamo fuori dai generi, ci destrutturiamo: per me è importante suonare e rendere popolare un suono che non nasce dall’essere massificato. Ed ecco il disco in italiano Il treno dell’anima, che canto con piacere con amici come Ligabue. E mi piace questa cosa.
Ti avranno detto che è strano vedere il tuo nome associato a quello del Liga…
La gente mi chiedeva come mai, ma ti assicuro che senti la canzone Salvami e ti commuovi. Nella musica, come diceva Mozart, può accadere di tutto e la musica può fare tutto: può andare oltre immaginazione e confini che la nostra mente e le nostre abitudini possono dare.
Obiettivi di questo progetto?
Dare una bella vibrazione al cuore. Questo disco non ha altre pretese. E ci tengo a dire una cosa.
Cosa?
Che la musica napoletana è italiana. Io col napoletano ho voluto parlare di bambini soldato, di pedofilia, della guerra dei diamanti, di Paesi poveri e Paesi ricchi. Volevo posizionarmi nel mondo raccontando quello che succedeva, ma poeticamente. Ma prima di scrivere bisogna avere un progetto. Poi abbiamo i ritmi nostri, che arrivano della Grecia, quello imparato da James Brown, la poliritmica afroamericana del blues e del jazz che già di per sé è world music. Leroy Jones diceva che se non c’era il colonizzato e il colonizzatore, la musica africana e la musica celtica, non avremmo avuto il blues. La fusione ha creato il suono nuovo. Questo suono nuovo, su di noi, nasce mischiandoci con le sonorità del mondo come quelle di Khaled e Youssou N’Dour, un viaggio infinito, che non finirà mai.
Va bene tutto, ma questo come si innesta col nuovo disco?
Come posso essere sincero con l’incontro se non incontro la musica italiana? Accogliamo tutti e non accolgo il fratello della porta accanto? Quindi è bello che uno non si immagina me e Ligabue, ma quando lo senti cantare su quelle armonie napoletane e mediterranee, scopri il fascino di Luciano.
A proposito di Salvami, da chi vorresti essere salvato?
Dai pericoli che incombono sulla nostra vita.
Tipo?
Dalla guerra sicuramente, dai disagi e dalle sofferenze che causiamo anche noi. Essere salvato da quello che vediamo in tv. È come vivere un film di fantascienza.
Capito. Passiamo a un altro brano, Famm chiamm sete in cui si sente anche Bella ciao. Un modo per sottolineare la tua resistenza?
Ci sono canzoni, come l’inno di Mameli, che mi fanno pensare, inesorabilmente all’Italia, ai Mondiali, alla patria. Bella ciao è un brano bellissimo, significa speranza ed è uno dei più famosi pezzi di musica popolare italiana, anche se dicono derivi da zingari rumeni o dalla bassa Francia.
Che idea ti dà?
Della voglia di rialzarsi, di partecipare. Come direbbe il grande Gaber, partecipazione, esserci.
È un riferimento di colore politico?
Non tanto, anche perché di colori non ne vedo molti.
No?
Non ci capisco tanto, devo confessarti i miei limiti. Vorrei capire come votare. In questo senso Famm chiamm sete è un sos dell’uomo per ricordarsi che la vita è sacra e va rispettata.
A proposito di rispetto, in Simm’ tutt’uno duetti con Jovanotti. Nel brano si parla di salvare il mondo. Come vedi e interpreti le polemiche legate al Jova Beach Party?
Io ho partecipato alle date di Castel Volturno e non è che sia una zona tenuta così bene o così male, stava lì. Tutto quello che Jova e la sua organizzazione dice e ha detto di fare le ha fatte. Ti dico quello che ho visto e devo essere sincero. Poi, per l’amor di Dio, ci possono essere implicazioni diverse, posizionamenti diversi, ma io ho accettato l’invito di un amico consapevole di ciò che mi era stato detto.
La spiaggia, dopo i concerti in che condizioni versava?
La spiaggia era ripulita completamente, se poi ci sono implicazioni con conseguenze diverse, io non lo so. Io so solo che ho visto Castel Volturno, per la seconda volta nella mia vita, un luogo rinato: con giovani e tanta volontà di ripresa. Ho fatto il Jova Beach Party, ma quello che ci hanno catapultato sopra non riesco a capirlo. E sentirsi dire «Con chi vai?», «Con chi te la fai?», non mi sembra bello o giusto.
Effettivamente alcuni tuoi fan ti hanno sconsigliato di andarci.
Perché non dovrei fare una cosa con Jova? Riguarda solo il Jova Beach Party o in generale? Se è una cosa personale è un altro tipo di discorso. Il Jova Beach Party è super organizzato, il giorno dopo era tutto pulito. Se poi c’è altro, che diventa un inquinamento atmosferico, non lo so perché non conosco il territorio. Tra l’altro sono amico del proprietario del Koala Beach e mi ha detto che non c’è stato alcun problema. Se c’è qualcuno che pensa non debba andare con Jovanotti mi faccia un elenco.
C’è stata pure un’altra polemica…
Sì, io sono direttore artistico di Settembre al Borgo, a Caserta. Incluso nella kermesse c’è l’evento “Un Borgo di libri” curato da Luigi Ferraiuolo che ha invitato Roberto Saviano a presentare il suo libro. È naturale che, nell’accoglienza, si scattano foto, ma questo non vuol dire che io abbia tutte le convinzioni di Saviano e viceversa. Credo che la via del dialogo sia fondamentale. Il futuro sta nel dialogare e capirsi. Non è che l’accoglienza e la cordialità sia condividere per forza le idee dell’altro. Poi si vede dove stiamo arrivando.
E dove stiamo arrivando?
Alla guerra, perché la gente vive nella guerra. Se tu fai una cosa e questa cosa ti viene giudicata costantemente venendo offeso questa è la base della guerra: non c’è più dialogo, che non vuol dire andare sui social e rispondere.
Cos’è allora?
Lasciare che le nostre opere parlino di noi.
Con Guè duetti in Nessuno è figlio di nessuno. Chi sono i tuoi figli artistici e tu di chi ti senti figlio?
I miei padri sono i padri della parola sul ritmo come James Brown, Nusrat Fateh Ali Khan, Bob Marley. Quelli che dicono messaggiamo il ritmo e balliamo il messaggio.
Spiega un po’…
Marley intendeva che ballando si pensa e pensando si cambia. Sono molto vicino a questa visione. A Napoli si dice ‘o ritmo nun ce sape, ma ‘o ritmo ce sana (il ritmo non ci conosce, ma ci salva, ndr). Quante belle cose dici ballando, vivendo.
Abbiamo parlato dei padri. Ma i tuoi figli?
I miei figli sono quelli nati nel groove, le nuove generazioni che si sono mosse nella parola del ritmo anche se, come dice Carmelo Bene, in arte nessuno è padre a nessuno. Alla fine tutto questo è musica. Io voglio assimilare tutte le forme per dare vita a nuove forme che in realtà non hanno forma. Pare ‘na cazzata, ma nun è.
I tuoi discorsi sicuramente derivano anche dal percorso di fede che hai fatto. Sei ancora buddista?
Io nasco cattolico, poi Tina Turner mi avvicina al buddismo giapponese di Nichiren Daishonin. Poi in America, con Corrado Rustici e la moglie di Carlos Santana, ho iniziato a seguire la meditazione del cuore di Sri Chinmoy e ne sono diventato discepolo. Dopo la morte prematura di mia moglie Maria, rimasi con le mie due figlie, due ragazzine. Mi allontanai da tutto, non avevo voglia. Sri Chinmoy diceva di lasciare che il nostro mantra sgorghi dal cuore. A me veniva di fare il rosario e ho intrapreso un cristianesimo mio, in cammino, in cui ero libero di portarmi dietro riflessioni, considerazioni vissute nelle altre discipline. Oggi sono un cattolico libero di praticare come voglio. Ho recuperato fortemente la parte devozionale, quella in cui il popolo si prende confidenza col Signore, andando oltre la fede: a Napoli il miracolo non lo si chiede, lo si esige. San Gennaro l’ha da fa’ altrimenti sono cazzi. È una confidenza che si prende il popolo e spesso diventa anche teatro. Tutte le volte che non si è liquefatto il sangue di San Gennaro abbiamo avuto colera, turchi e carestia. Per questo dicono «me lo devi fare», è una complicità. Così come nel brano Don Salvatò è “colui che può” al quartiere Sanità come nel Regno di Dio. Mi piace umanizzare certe cose.
Passiamo a una domanda secca: chi ti ha deluso?
Di delusioni ce ne sono state tante. C’è stato qualcuno che mi ha dato il numero di telefono, dice di essere amico, ma non mi ha mai risposto.
Il nome?
Non lo dico perché lui non avrebbe il coraggio di ammetterlo, ma le persone così si riconoscono nella loro mimetizzazione.
Cioè?
Usano la propaganda.
Nel 2019 sei stato in gara a Sanremo, insieme a Peppe Servillo, col brano Il coraggio di ogni giorno.
Il festival mi piace tanto. Ma per anni mi sono fatto dichiarare ingestibile dalla mia casa discografica, la Emi, per non andarci.
Motivo?
Ai miei tempi dovevi fare il pezzo sanremese. Poi a partire da Bertoli e i Tazenda sono iniziate le prime brecce. Quando sono andato il direttore artistico era Baglioni e c’era una gran libertà di proposta. La stessa libertà che penso sia rimasta con Amadeus. Blanco e Mahmood sono stati inconsueti, c’è molta apertura artistica e musicale alle nuove proposte.
Ecco, tra le nuove leve chi ti piace e chi no?
C’è confusione tra giovane musicista e musica giovane. Il musicista più giovane a Napoli è Roberto De Simone che, ahimè, ha il contenitore più usurato (ha 89 anni, ndr). Noi quando parliamo di musica giovane non dobbiamo parlare del contenitore giovane.
Esempio?
Nei talent capita cantino di maniera cose di Tom Jones. C’è un contenitore giovane, ma il contenuto no. Meglio avere contenitori giovani con contenuti interessanti, come Blanco. Mi piace Mahmood che fece una cosa splendida alla Notte della Taranta, e poi Ultimo e Rocco Hunt. Lui è rivoluzionario nelle cose e fa hit che gli vengono naturali, ha un suo suono, come i Boomdabash.
Ma quindi non ti piacciono i talent?
I talent hanno tirato fuori artisti interessanti, Maria De Filippi lo ha dimostrato. Viva i ragazzi belli che fanno cose belle.
Cosa ti piacerebbe fare in futuro musicalmente?
Tornerò purosangue con i Bottari e Black Tarantella.
Come artista come ti definiresti?
Un inquieto, che ama gli incroci.