Prima del debutto al Circo Massimo ieri pomeriggio alle sei Renato Zero ci si presenta con la solita verve e qualche acciacco: «La colpa non è mia: è di quer fijo de ‘na mignotta del mio ginocchio». Nel corso della serata l’articolazione in questione conoscerà una sua rivincita, permettendo al Maestro di ondeggiare – se non piroettare – al ritmo di trentadue brani e sette ospiti, per tre ore di fila. Se tutto andasse secondo i piani lo stesso avverrebbe per altri cinque concerti, fino al 1° ottobre. Ma per adesso Renato si concede mettendosi a nudo – o, nella fattispecie, in tuta da ginnastica – e l’umanità che esprimerà sul palco è pari almeno alla teatralità di cui si ammanta dietro le quinte.
Questa sera non avranno luogo i fasti renatiani che avevamo prefigurato dopo la conferenza stampa di aprile. Lo spettacolo sarà tanto celebrazione di Renato quanto del suo pubblico e della sua identificazione con Renato; senza retorica, senza che neanche un «Grandi!» suoni affettato o fuori posto. Pochi artisti come Zero possono permettersi di essere autoreferenziali riferendosi al prossimo o, almeno, ai presenti. Gli faranno ole di baci soffiati sul palmo delle mani. Risponderà con grandi sorrisi e loro: «Ma lo vedi che Renato ci ha il sorriso di mamma?».
Ogni sera sarà diversa dall’altra, con dei cardini fissi: «Sono quei brani che più di altri sono entrati nel quotidiano, nel cerimoniale dei battesimi, dei matrimoni».
Meno della metà dell’immensa distesa ellittica del circo romano è sezionata in una platea e un semicerchio di tribune. Non ci sono il solito pratone e i boschi di spettatori a perdita d’occhio, anche se sono comunque presenti in decine e decine di migliaia. C’è un’unica curva da stadio senza tifoseria avversa: solo ultrà anche nei posti autorità. I sedili, anche i più umili, sono numerati: «Allo stadio Olimpico non mi piace tanto [suonare] perché non riesco mai a capire chi è Iolanda e chi è Alfredo. E non ho mai nutrito simpatia per il circo Massimo: ‘n corridoio. Allora ho cercato un abbraccio in sei serate».
Non sarà uno spettacolo già visto. Ho cento persone in scena tra musicisti, ballerini e maestranze che si fanno notare. Le stesse maestranze a cui, infatti, subito strilla: «Silenzio o faccio sgomberare l’aula!», giacché questo incontro informalissimo con la stampa si svolge nel pieno di una mensa improvvisata per la crew. Fa il severo ma gli ridono gli occhi dietro la montatura nera e lucida come la zazzera, perché le lasagne cariche di sugo che i tecnici si portano dietro, in cerca di una panca adatta a un momento di calma prima della tempesta delle 21, sembrano per un attimo più interessanti di certe domande sulla Carrà o sul programma, con cui Zero giostra da stupendo affabulatore: «Io Raffaella non la metto in scaletta. Penso che non sia mai andata via, e che sia ancora all’Argentario. Sono andato a casa sua con Japino e abbiamo fatto la pizza con il solito lievito madre e ci siamo assicurati che in casa fosse tutto apposto, che fosse pronta a ricevere. Ci saranno omaggi a Mimì e a Gabriella Ferri. Ma il resto non ve lo posso dì perché sarebbe come svelare il segreto del ciambellone de nonna».
Gli si domanda come va l’Italia: «Mazzini ieri mi ha chiamato e mi ha detto che ha sbagliato tutto»; come affrontare la crisi: «Un italiano paga seicentomila lire al mese de corrente» (è quasi dolce calcolarlo a parole sue, così convertito, quel valore atroce). «Il pubblico de stasera si è misurato coi disagi e cerca il conforto per rimanere a galla». «Canterai Bella Ciao?»; «Non posso cantarla perché all’epoca non ero ancora nato e il pappagallo, se non è abbastanza istruito, non fa bene il suo mestiere».
Il Maestro compare alle nove in punto sul palco che è scenografato come una torta nuziale sui cui vari piani siedono i cinquanta elementi dell’Orchestra Filarmonica della Franciacorta diretta da Adriano Pennino, e che però non presenta figurine coniugali sulla sommità: deve essere perché alla base c’è quel cantante genuino ma solenne, un po’ operistico e molto operativo – sacerdotale com’è nel primo abito, una talare nera bordata di bianco – a presentarci un plot twist: questa volta l’officiante si è fatto prendere la mano e vorrebbe sposare tutti gli invitati, non tra di loro, ma a sé.
Le altre “tolette” di Renato saranno tutte coloratissime (salvo l’ultima, che riproporrà il bianconero della prima; solo, al negativo) e cambieranno a turni serrati che durano il tempo di due e tre canzoni. Conosceranno l’intera gamma dello spettro luminoso, così che Zero sarà una sorta di prisma umano firmato Margiela. Ma è evidente che quell’arcobaleno sartoriale compaia sul palco sia per allietarci che per ricordarci, tra le pieghe, per contrasto, che Winter is coming; e questo sì climaticamente – i parametri vitali delle sorcine più accalorate a stento riescono a bilanciare l’umidità dell’80% di questa notte romana di fine settembre che sembra già inizio novembre – ma anche un po’ politicamente – poiché questo concerto di apertura di un lungo tour chiude, di fatto, una delle campagne elettorali più brevi e meste che molti di noi ricordino, e certamente l’unica in un secolo che potrebbe riconsegnare il Paese che vide nascere, un giorno di settembre, l’estro iridescente di Renato Fiacchini ai lugubri disvalori che diedero la morte all’astro della democrazia.
È uno Zero programmaticamente chapliniano quello che vediamo performare (certo ci aiuta a decifrarlo il fatto che a un certo punto proietti un film di Chaplin, mentre siede a una panchina, accanto a un lampioncino). Bombetta e malinconia ben calcate sulla testa, non sfoggia più i costumi eccentrici che lo hanno reso il più grande provocatore della scena musicale italiana, ma completi classici nel disegno e fluo nelle tinte, come se Charlot e The Mask avessero cresciuto un loro figlio adottivo in via di Ripetta; gli manca solo un bastone da passeggio da far roteare ma non certo l’ironia nel presentare, ad esempio, Fabrizio Moro (che canta con lui Il caos): «Basta vedere sempre il nonno col nonno, il bimbo col bimbo, la moglie con… non si sa. Prendete me e Fabrizio Moro, rappresentante di una Roma che ha subìto e subisce tanto. I signori hanno tanto da imparare dai coatti. Io, nato nella nobiltà del centro e poi scaraventato nella coattitidine della Montagnola, conoscendo entrambi i mondi, ne so qualcosa di trasversalità!».
Le sorprese, lungo la vasta scaletta, non sono poche. Per Siamo eroi, straordinario inno al revanscismo degli ultimi in chiave post-epica, arriva Jovanotti donchisciottesco e fanciullesco a un tempo: «S’è chiamato Jovanotti perché sapeva che sarebbe rimasto sempre un giovanotto. Te possino». Per Inventi vengono riesumati i Neri per caso, che si fanno perdonare col solito talento quel naming oggi tanto più infelice rispetto ai tempi dei loro esordi.
C’è anche Panariello che fa Zero e Zero che, per fortuna, non fa mai Panariello. E c’è un primo momento elettronico spinto in cui un video clip di Morgan che, a mo’ di dj, mette su una versione techno di Chiedi di me con tanto di corpo di ballo che si scatena. Ma Morgan, sul maxischermo, ha un bel cercare di mitigare l’asprezza del synth con gesti cuoriformi delle mani giunte: le sorcine più navigate non gradiscono l’approccio.
Più avanti lo stesso Morgan, rivelandosi in carne e ossa sul palco, ha però il merito non trascurabile di proiettare ulteriore luce sulla natura della categoria dello spirito più cara a Renato: la “zerofollia”, alla base della quale c’è tradizionalmente la combo tra la sensazione di aver subito qualche grave torto dalla vita e il saperlo superare con un pizzico di stramberia. Morgan è perfettamente nella parte dello zerofolle sinistrato quando duetta con Renato cantando a squarciagola, tenendolo stretto, Amico; ripartendo, tra l’altro, proprio dal ritrovamento di quella fiducia nel prossimo duettante che sembrava aver smarrito per sempre a causa del notissimo affaire Bugo. Il Maestro, che tiene molto a non lasciare sottintesi, spiegherà: «Morgan ha pagato di persona i suoi errori e ha un grande attaccamento ai valori. Morgan sei un grande amico: non perdiamoci di vista».
Il secondo pezzo a cassa dritta – Mi vendo remixata come pezzo dance commerciale (nomen omen) – sembra essere più gradito o comunque meglio compreso del primo, visto che le tribune cominciano a scricchiolare seriamente sotto i colpi delle sneaker che anche le sorcine meno atletiche hanno deciso di indossare, come se stessero andando in palestra, e questa sera non solo per l’anima.
Qui non c’è il pubblico che allo stesso Circo Massimo abbiamo visto per Tommaso Paradiso (madri che simulavano di accompagnare le figlie) o, più di recente, per i Måneskin (figli che ostentavano di accompagnare i padri). La sorcineria – che non è fandom ma culto comunitario – a differenza di altre religioni non fa proselitismo in una particolare direzione dell’albero genealogico. Al concerto di stasera tutti sembrano aver accompagnato tutti: vi si sono portati a vicenda.
Una volta che Renato intona «Resisti. Fammi sentire che esisti!» e il pubblico ruggisce «Ti amo!», improvvisamente la sorcineria ci sembra il migliore manuale d’amore per chiunque volesse provare a riprendersi una buona volta il popolo italiano. Quando arriva il momento per I migliori anni e un telo color acquamarina avanza tra le prime file della platea, ci torna in mente una cosa che ci aveva detto prima il Maestro: «Ho lavorato molto e ho trascurato molte cose, come mari azzurri e prati verdi. Pe dilla tutta non so nuotare e non so sciare. Ma è stata la musica a darmi tutti i prati e i mari che volevo».
Renato Zero che canta e balla al Circo Massimo per tre ore a settantadue anni suonati (ma, per fortuna, ancora tutti da riarrangiare) è insomma un elogio della buona manutenzione in un’epoca che non ripara niente ma rottama tutto e tutti più facilmente e più velocemente rispetto al ritmo produttivo di nuove incarnazioni del talento, con la conseguenza che tra le numerose voci del deficit da cui siamo afflitti – non ultima – c’è anche quella di icone pop che non ci scoppino tra le mani come botti puntualmente fallati di un perenne Capodanno, ma che rimbombino nel tempo come rintocchi di campana che a ogni onda sonora ci sbatacchiano l’anima; scuciono e ricuciono storie collettive e vicende personali; e che, in ultima analisi, ci rendono più sopportabile il vivere nella relativa miseria cui siamo destinati o, più in assoluto, l’esistere.