Da quando negli anni ’80 i videogiochi sono approdati nell’immaginario popular – infrangendo qualunque record di diffusione grazie all’arrivo del cabinato di Space Invaders, l’arcade sparatutto che ha cambiato per sempre le dinamiche del gioco contemporaneo – l’osmosi creativa fra videogame e altre forme artistiche è diventata inarrestabile. Dapprima è stato l’approccio narrativo a contrapporsi a quello meramente d’azione, passando dalle prim(itiv)e avventure testuali a quelle grafiche e facendosi ispirare dalla letteratura di genere: dal fantasy al crime, dalla fantascienza all’horror. Man mano che le capacità tecniche e le potenzialità hardware andavano crescendo, è stato invece il cinema a dettare la strada, suggerendo soluzioni sempre più ardite a sviluppatori assolutamente consapevoli e talvolta perfino illuminati. Ma è con l’avvento del XXI secolo che il videogioco ha potuto fieramente rivendicare un ruolo di eccezionale rilevanza nella classificazione della creatività, proponendosi come decima forma d’arte e come strumento per comprendere i cambiamenti del nostro tempo.
È in questo contesto che si inserisce “Play – videogame arte e oltre”, la mostra che indaga i videogiochi al fine di riconoscerne i profondi impatti nella società contemporanea, una forma d’arte in cui convivono e trovano nuova enfasi differenti linguaggi e interazioni. Non è un caso che a ospitare l’iniziativa sia stata La Venaria Reale, il complesso monumentale (e Patrimonio dell’Umanità Unesco) situato alle porte di Torino, che ha dedicato l’intero programma del 2022 al tema del “gioco”. Ogni sala della mostra è dunque diventata una lente attraverso cui guardare le nuove espressività artistiche, i nuovi linguaggi, la creatività, la politica, ponendo il videogioco al centro di questo interessantissimo mosaico. A indirizzare il visitatore sono innanzitutto le esplicite influenze dei grandi maestri del passato – come De Chirico, Hokusai, Kandinskij, Warhol – sulle estetiche di videogiochi come Ico, Monument Valley, Rez Infinite e tanti altri. I paralleli sono qui evidenti grazie all’accostamento diretto fra opere classiche e digitali, in un’interlocuzione che non solo avvince l’utente ma restituisce autorevolezza alla pratica artistica di autori come Yoshitaka Amano (disegnatore di Final Fantasy), Yu Suzuki (padre di tantissimi videogiochi della Sega), Christian Cantamessa (autore delle narrazioni di Read Dead Redemption) e Andrea Pessino (che ha lavorato a God of War, Okami e Dexter). A questi è dedicata la Sala dei Maestri, mentre negli spazi denominati Play Homo Ludens è possibile ammirare la ricostruzione di quattro “ambienti”, fra cui una sala giochi giapponese degli anni Ottanta fino al futuro Metaverso. In poche parole, un piccolo paradiso per un nutrito gruppo di appassionati, che oggi nel mondo conta circa 3 miliardi di giocatori.
«Volevo fare una grande mostra sul rapporto tra videogiochi e arte», racconta Guido Curto, direttore del Consorzio delle Residenze Reali Sabaude, consapevole che i videogiochi sono strumenti di dialogo e di democrazia dal basso. «Circa un anno fa ho incominciato ad incontrare esperti del settore e, dopo aver conosciuto Fabio Viola, abbiamo progettato in tempi brevissimi una mostra molto intelligente e bellissima». Da allora è partito un appassionante lavoro legato al crossmediale, in cui si sono fatte convergere l’immagine statica, quella in movimento e la pratica interattiva. Play è dunque un’esperienza culturale a 360°, che nel videogiocatore contemporaneo spalanca memorie e sinestesie legate a esperienze di gioco e di interazione emotiva. «Oggi la sceneggiatura non lineare domina le nuove esperienze interattive», spiega il curatore Fabio Viola, game designer, saggista e fondatore del collettivo artistico Internazionale TuoMuseo. «Mi piace definire il videogioco come il luogo in cui siamo costantemente chiamati a prendere decisioni e questa epica aiuta a comprendere gli elevatissimi tassi di coinvolgimento. Si tratta di storie aperte in cui le scelte del giocatore influenzano il proseguo dell’esperienza fino ad alterarne i finali».
«Nel saggio di Huizinga Homo Ludens (1938) è racchiuso tutto il senso della nostra mostra», chiarisce Curto. «Il gioco è una attività che fa crescere l’intelligenza dell’uomo, sviluppando capacità logiche, intuitive, mettendoci in grado di crescere senza nuocere agli altri, anzi di divertirci insieme agli altri. L’esatto opposto della Guerra». Ad accorgersi nel ruolo centrale del videogame nella cultura contemporanea ci hanno ben presto pensato la letteratura e il cinema, incrociando i linguaggi e creando un vero e proprio immaginario, letteralmente capace di formare più di una generazione. All’evoluzione delle narrazioni e delle estetiche del gioco elettronico è corrisposto un crescente interesse verso gli autori e lo studio delle dinamiche, portando a una gloria retroattiva per i padri dei grandi classici attraverso serialità televisiva, fiction, saggistica, documentari. Una vera scalata dal basso, la cui destinazione naturale è proprio la mostra Play. «L’obiettivo è far dialogare il videogioco con le nove forme d’arte già “istituzionalizzate”», prosegue Viola. «Per estetiche, grammatiche, valori, visioni del mondo i continui raffronti presenti in mostra aiutano a comprendere come, paradossalmente, il videogioco possa essere considerata una meta forma d’arte. Se da una parte i videogiochi attingono spesso al repertorio artistico del passato (De Chirico ha ispirato ICO, la Grande Onda di Hokusai è in dialogo con Okami, i primi cartoni animati degli anni ’20 sono ispiratori di CupHead), nella sala PlayArt il rapporto si ribalta, mostrando come i grandi artisti del presente ormai attingono pesantemente agli immaginari ludici per i loro film, statue o NFT. È il caso del padre della video arte Bill Viola, co-autore del videogioco The Night Journey, o dell’artista digitale Clapis con NFT che richiamano il mondo dei tamagotchi, o ancora il collettivo AES+F il cui gruppo di statue è ispirato al videogioco Half Life».
Il videogioco, dunque, può considerarsi anche una fondamentale porta di ingresso verso altre forme di arte, in primis per la narrativa classica e l’arte visuale. Tantissimi sono i titoli ispirati a grandi opere del passato, così come numerosi sono gli esempi di grande storytelling realizzato tramite l’avventura digitale. Eppure in Italia esiste ancora un forte gap rispetto alle possibilità educative del gaming, in parte a causa di un tessuto scolastico/formativo talmente legato ai programmi ministeriali da rendere complicato lo sviluppo di percorsi educativi trasversali. «Forse da noi prevale ancora un certo puritanesimo di matrice crociana», suppone Curto, «e tutto ciò che non è Poesia non è Arte. Ma sia sotto il profilo narrativo, sia per gli aspetti estetici i videogiochi sono le più attuali e democratiche forme d’arte». Ciò che sembra ormai superato è invece quel divario generazionale che ha condizionato in passato il giusto approccio alla modernità ludica, causando incomprensioni o addirittura mistificazioni rispetto alla rivoluzione che il videogame stava portando nelle case di tutto il mondo. «Dopo decenni di stereotipizzazione», spiega Viola, «in cui il videogioco è stato percepito come pura forma tecnologica e, nella migliore delle ipotesi, come un passatempo, oggi è entrato nella quotidianità delle persone, contribuendo a generare nuovi linguaggi, immaginari e forme di socialità. Ed ecco che i videogiochi sono diventati supporto curriculare nei percorsi scolastici con titoli come Minecraft, strumenti aziendali sotto il cappello della gamification, supporti medicali come Endeavor RX per la sindrome da deficit dell’attenzione, ma anche volano per riscoprire storie, espressioni artistiche e contenuti di un passato più o meno remoto. Viviamo in un “secolo del gioco” e tutti noi, giocatori e non giocatori, siamo invitati a diventare game designer del mondo che ci circonda».