La verità di Sammy Hagar sui Van Halen
La saga dei Van Hagar in un’intervista senza reticenze: la rottura e la riconciliazione con Eddie poco prima della morte, il famigerato “muro” che nei camerini lo separava dallo «svitato» David Lee Roth, la possibilità di prendere parte a un grande tributo al chitarrista con tutti gli ex del gruppo. E il momento in cui s'è vergognato d'aver fatto parte dei Van Halen
Qualche tempo fa abbiamo parlato con Sammy Hagar del suo nuovo disco, Crazy Times, inciso a Nashville con la sua band, i Circle, e il produttore Dave Cobb. «È un concept. È il mio punto di vista su quel che è accaduto dall’inizio della pandemia».
Verso la fine dell’intervista si è finiti inevitabilmente a parlare del Van Halen e della possibilità di un concerto tributo a Eddie con tutti gli ex membri viventi del gruppo. Pochi giorni dopo ci è stato detto che Hagar voleva parlare nuovamente con noi: aveva molto altro da dire a proposito della band. «Penso sia giusto spiegare come mi sento», ha detto quando ci siamo risentiti. «Nel mio cuore non c’ più astio, né c’è nell’anima».
Alla fine abbiamo parlato dei Van Halen per più di un’ora. La conversazione ha toccato molti argomenti, dalla sua uscita dalla band nel 1996 alla rappacificazione con Eddie pochi mesi prima della dipartita, nel 2020. Ha anche rivelato che Irving Azoff, manager dei Van Halen fin dai primi anni 2000, lo scorso anno l’ha contattato per sondare la disponibilità per un’eventuale residency a Las Vegas col batterista Alex Van Halen, il bassista Michael Anthony e un chitarrista superstar. Al momento non ci sono piani concreti perché accada, ma Hagar spera di riavvicinarsi ad Alex, in un futuro prossimo, e ravvivare la loro amicizia. Ecco una trascrizione editata della conversazione.
Hai lasciato tu la band o sei stato licenziato?
Mi hanno licenziato. È stato Eddie a dirmi che avrei lasciato il gruppo. Era la festa del papà, le 9 di una domenica mattina. Il telefono ha squillato mentre ero ancora a letto con figlio nato da poco. «Hai sempre voluto essere un artista solista: bene, fallo», mi ha detto Eddie. «Dave sta tornando nella band». Sono schizzato fuori dal letto manco avessi visto un fantasma. Qualche improperio fra me e me l’ho lanciato. Ho chiamato chi gestiva la baracca, il manager, e gli ho chiesto: «Indovina cosa è appena successo?». E lui: «Oh cazzo. L’ha fatto? Ti ha telefonato?». «Sì». «Ti richiamo. Immagino tu voglia un’ottima buonuscita». Ho ribattuto: «Voglio sapere che cazzo sta succedendo. Non mi serve niente. Voglio solo sapere che cazzo succede». È andata così. Eddie non mi ha detto: «Sei licenziato». Ha detto: «Lasci la band. Te ne vai. Continueremo senza di te». Comunque sia, non è partita da me la cosa.
Sono certo che tu abbia sentito una certa affinità con Gary Cherone, visto che sei stato nella sua medesima situazione poco più di 10 anni prima. Non è stato facile per lui.
Provo molta simpatia nei suoi confronti. È una bella persona e ha molto talento, ma era l’uomo sbagliato nel momento sbagliato della storia dei Van Halen. Forse avrebbe potuto sostituire Dave nel 1985: ecco, allora la band era ancora molto carico. Ma quando è arrivato Cherone quel genere di musica e i Van Halen in genere, i fortissimi Van Halen, erano in declino per via dell’esplosione del grunge e tutte quelle altre cose. Insomma, per noi era finita. La stampa non parlava bene di noi, non andavamo su MTV e neppure in radio. Pessimo tempismo per Gary.
Parliamo del tour con David Lee Roth del 2002. È andato bene come speravi?
Sì e no. È stato un tour di successo e me la sono cavata molto bene, ma non ha funzionato come avrebbe dovuto perché Dave non ama il gioco di squadra. E ha trasformato tutto in un casino. Avrebbe potuto finire tutto con noi due in piedi, braccia al cielo, a dirci: «Ehi amico, ottimo lavoro. Facciamo una chiacchierata da fratelli». Era quel che volevo, ma non è accaduto. Invece ci ho ricavato una reunion. Non è stata la mia preferita, ma è andata così.
Ho letto articoli che dicevano che, durante quel tour, fra Dave e te le cose andavano talmente male che nel backstage è stata piazzata una parete per tenervi separati.
Sì, ma è dipeso dai tour manager e i production manager che si sono immischiati nelle nostre cose. Hanno fatto costruire quella barriera perché una sera siamo quasi venuti alle mani. Devono aver pensato: «Ok, dobbiamo tenerli separati. Questo tour sta andando troppo bene e non vogliamo che vada in malora per via di qualche causa legale». Così hanno piazzato una barriera fra i nostri camerini. Ma non era che del compensato tenuto in piedi da qualche asta: se uno avesse davvero voluto andare a prendere l’altro, bastava tirare un calcio.
Nel tuo libro hai raccontato molti dettagli sordidi sul tour di reunion dei Van Halen del 2004. Eddie era nella morsa dell’alcolismo e stava molto male. Hai qualche rimpianto per aver svelato queste cose?
Dopo quel tour ero così arrabbiato per quanto era successo che ho scritto tutto. Ed è tutto vero. Mi spiace, ora, ma solo perché chi legge il libro non potrà andare da Eddie e chiedergli la sua versione. Allora eravamo in rotta. Non ricordo che nessuno della sua cerchia abbia mai accennato a queste cose, anche se sono certo che tutti sapessero in quali condizioni versava Eddie. Non era un segreto.
Rolling Stone ha pubblicato un articolo su un tizio che aveva fatto amicizia con Eddie. Se si legge fra le righe, si nota che delinea il ritratto della stessa persona con cui avevo a che fare io. Avrei voluto sapere che stava così male, all’epoca: gli avevano asportato un pezzo di lingua, eppure andava dicendo di avere sconfitto il cancro e sosteneva di stare benissimo. Non dava ascolto a nessuno. Se qualcuno gli diceva «Ed, devi smettere di bere così tanto e devi mangiare qualcosa», lui rispondeva con un vaffanculo. Nessuno, nemmeno il fratello, riusciva a convincerlo. Scrivendo quello cose ho infranto la regola diciamo così dello spogliatoio. Eravamo come un club per soli uomini: «Niente esce da queste pareti. Quello che succede a Las Vegas, resta a Las Vegas». Solo che ero arrabbiatissimo e volevo raccontare la storia dal mio punto di vista.
Sembra proprio che quel tour sia stato un inferno per te.
Ci sono alcune cose che ora posso dirti e che non ho perso tempo a scrivere nel libro… Eddie era sempre scordato e suonava i pezzi così male che, a volte, non riuscivo a cantare. Era difficile tenere la giusta intonazione. Allora cercavo di seguire il basso, perché Mike era sempre perfetto: cantavo sulla linea di basso, ma il problema era che la chitarra di Eddie era altissima. Lui andava ai soundcheck e si assicurava che la sua chitarra fosse sparata a tutto volume. Insisteva sul fatto che la sua chitarra doveva essere estremamente alta. Solo che poi si sentivano solo la mia voce e la sua chitarra, così la gente pensava: «Cavolo, Sammy non sta cantando molto bene». Oppure, se c’era qualche buon musicista fra il pubblico, pensava: «Aspetta un secondo: Eddie non sta suonando poi così bene. Che succede?».
Hai parlato di quell’articolo di recente pubblicato su Rolling Stone. Eddie diceva che per te è tutta una questione di soldi, che hai usato la band per elevarti.
No. Quando Ed pensava queste cose non era lucido. Gli venivano fornite informazioni sbagliate, prendeva un sacco di droghe, beveva troppo ed era paranoico. Non era in sé e lo sanno tutti. Basta guardare le sue foto di quel periodo, online: era un disastro. Non era lucido e qualcuno lo manipolava. Io non penso solo al denaro. Ma alla fama e al successo sì: è quello che ho sempre desiderato. E una volta che li hai raggiunti ti devi chiedere cosa te ne farai. Devi usare la tua celebrità per illuminare la gente e portare consapevolezza. Questo mi interessa ed è sempre stato così.
Eddie ha detto di Michael Anthony: «Quando Hagar se n’è andato, è andato con lui invece di restare con Alex e me. È stato un tradimento, come quando Roth ci ha mollati. Non ci aspettavamo nessuna delle due cose».
Non è vero. Mike non ha lasciato i Van Halen: è stato rimpiazzato nella band dal figlio di Eddie, Wolfie, ed è venuto a saperlo leggendo i giornali.
Secondo Ed, però, Michael avrebbe lasciato i Van Halen quando ha iniziato a fare concerti con te.
Sì, ma l’ha detto perché non era lucido. Mike è stato ad aspettare con le mani in mano per cinque cavolo di anni. E poi ha iniziato a salire sul palco con la mia band come ospite speciale. È stato molto bello perché mi ha sempre fatto sentire a mio agio avere Mike lì con me, specialmente nel tour con David Lee Roth. Con Mike era più divertente suonare la roba dei Van Halen. Ancora oggi, coi Circle, proponiamo tanti pezzi dei Van Halen: in primo luogo perché c’è Mike nel gruppo e poi perché i Van Halen non esistono più. Quindi mi piace suonarli: sono stati una parte della mia vita, ho fatto parte di quella band per 11 anni.
Quando Dave è rientrato nel gruppo, loro hanno finto che io non fossi mai esistito. Hanno cancellato dalla memoria quei dischi che hanno raggiunto il numero uno, tutti i nostri successi. Quei 40 milioni di album venduti non erano mai esistiti. È una cosa stupida.
Comunque, della faccenda di Mike hanno dato la loro interpretazione. Ma nell’istante in cui lui avesse ricevuto la chiamata, sarebbe stato il primo a presentarsi da loro, come sempre. E lui lascerebbe immediatamente i Circle se, per ipotesi, i Van Halen lo chiamassero adesso. Mike non ha mai tradito nessuno. Diceva solo: «Vado a suonare e mi diverto un po’ con Sam».
Dimmi di come ti sei rimesso in contatto con Ed nei suoi ultimi mesi di vita.
È stato pazzesco. Avevo saputo da fonti fidate che era malato. Ogni tanto qualcuno mi mandava delle sue foto prese da Internet e non aveva un bell’aspetto. Così ho telefonato a Steve Lukather. Lui ed Eddie erano buoni amici. Gli ho domandato come stesse Ed. E lui: «Non molto bene». Così gli ho chiesto: «Per favore, gli daresti il mio numero di telefono e gli diresti di chiamarmi, se gli va? Mi piacerebbe parlargli. Non voglio nulla. Non sto cercando di mettere in piedi una reunion. Fidati di me». Dopo un po’ di tempo mi ha riferito di avergli passato il mio numero. Gli ho chiesto «Cos’ha detto?». E lui: «Che ti vuole bene, amico». Un giorno mi ha chiamato il comico George Lopez dicendomi: «Sammy, devi chiamare Ed: è davvero messo male, devi chiamarlo». Così gli ho detto: «Cazzo, ok. Io ho questo numero». Lui mi ha spiegato che non era più quello e mi sono fatto dare quello giusto.
Avevo detto ad altri di riferire a Eddie di chiamarmi, se si sentiva di parlare con me. Perché non volevo telefonargli io, ora che stava male, e magari sentirmi dire: «Vaffanculo stronzo, hai mollato la band». Avremmo finito per litigare. Non sapevo che pensasse in quel momento, visto che ci eravamo lasciati male. Ho chiamato George e gli ho detto: «George, voglio farlo». E lui: «Devi farlo, Sammy. Devi davvero farlo». Ho riattaccato e ho chiamato Ed: «Amico, come stai?». Mi ha risposto: «Resisto. Sono 15 anni che combatto con la malattia». Abbiamo parlato subito di come si sentisse. Non abbiamo cercato di sotterrare l’ascia di guerra o di scusarci. Gli ho detto: «È da molto che volevo parlarti. Ma non sapevo se fosse il caso. Ho chiesto a Lukather, ad Azoff, a tuo fratello…». E lui: «Perché non mi hai chiamato direttamente?». Al che ho risposto: «Questa è una bella domanda. Ti sto chiamando ora». Ci siamo fatti una bella risata. E lui: «Se vuoi parlarmi, basta che mi chiami». Mi è sembrato molto lucido e mi ha toccato molto quando mi ha detto di chiamarlo se volevo parlargli. Non l’avevo mai sentito così, prima.
Eddie era sempre stato un tizio dolce e modesto. Poi è impazzito… ha adottato un atteggiamento completamente diverso. Ma era lucido mentalmente. Credo che avesse fatto i conti con la malattia. Mi ha detto: «Sconfiggerò questa roba… credo di dover terminare le mie terapie, quest’anno, e magari l’anno prossimo possiamo vederci e fare un po’ di rumore». Io gli ho risposto: «Ed, non ti ho chiamato per questo, ma se vorrai sai che puoi sempre contare su di me per suonare insieme, amico mio».
Una settimana dopo, più o meno, ho iniziato a mandargli dei messaggi, a inviargli delle immagini divertenti e lui ricambiava: ci siamo sentiti spesso così, più o meno un paio di volte alla settimana. Quando all’improvviso ha smesso di rispondermi gli ho lasciato un messaggio vocale: «Ed, non ti ho più sentito. Non farmi preoccupare». Mi ha risposto: «Amico, sono appena uscito dall’ospedale. Mi era uscito un cazzo di tumore sul collo e hanno dovuto rimuoverlo». E io: «Voglio venire a trovarti, Ed. Cucinerò per te e ti farò una mega-spaghettata». Lui: «Ti faccio sapere quando». Quando vivevamo vicini, cucinavo spesso per lui. Gli ho anche detto: «Verrò da te, cucinerò per te e ci racconteremo quello che è successo nel frattempo, magari potremmo anche scrivere un pezzo insieme». Poi le comunicazioni hanno iniziato a diradarsi. Credo che l’ultima sia stata un suo messaggio che diceva: «Scusa se non rispondo. Sono in ospedale». Ho controllato ora: l’ultimo video che gli ho mandato è del 1° ottobre 2020. È morto quella settimana.
Deve essere stato un colpo durissimo.
Sì. Non credo di avere pianto così tanto da quando sono morti mia mamma e mio papà. Anche se sai che deve succedere, nutri sempre un po’ di speranza. Speri sempre nel miracolo. Eddie aveva soldi e fama, qualunque dottore al mondo avrebbe fatto di tutto per tentare di salvarlo. E quindi ovviamente ha avuto le cure migliori, ma non hanno funzionato.
Nelle e-mail pubblicate di recente da Rolling Stone, diceva di volere fare un grande tour con te, Dave e Michael. Wolfgang lo ha confermato in diverse interviste. Passerà alla storia come uno dei migliori tour che non sono stati fatti.
Che peccato eh? A onor del vero, il vero peccato è che Eddie Van Halen non sia più tra noi. Ma se l’avessimo fatto avremmo appianato tutto: i danni che ho fatto col mio libro, quelli che Ed ha fatto con i suoi comportamenti, i sotterfugi di Cherone, le reunion di Roth, le mie… sarebbe andato tutto a posto e avrei voluto davvero farlo. Tutti noi, insieme. So che se lo scriverai attirerà molti click, ma devo dire che c’è stato un momento in cui mi sono vergognato di aver fatto parte dei Van Halen.
Quand’è successo?
Sei o sette anni fa, quando erano in tour con Dave ed Eddie era ancora in pessime condizioni. Andavano in giro facendo un sacco di clamore come Van Halen e quando qualcuno mi diceva «Sei Sammy Hagar dei Van Halen» io rispondevo: «Ehi, ehi: solo Sammy Hagar. È sufficiente». Era quasi un marchio d’infamia, perché Ed stava facendo cose folli.
Passiamo al presente. Lo scorso anno Joe Satriani ha provato con Alex Van Halen e Jason Newsted. Joe ti aveva avvisato?
No, perché nei Van Halen è sempre tutto segretissimo. Scommetto che, appena ha varcato la soglia, gli hanno fatto firmare qualcosa: dico sul serio. Alex è una persona molto, molto riservata. Non so come faccia a tenere la bocca sempre sigillata. Potrei dire qualcosa di orribile sul suo conto, adesso, e lui non risponderebbe. Non fraintendermi: non ho nulla di male da dire sudi lui, voglio solo farti capire quanto sia testardo. È irremovibile.
Joe però me ne ha parlato dopo. Sapevo che era in ballo qualcosa, perché Irving Azoff mi aveva chiamato dicendomi: «Vorrei fare una residency a Las Vegas con te, Mike, Alex e un chitarrista superstar». «Tipo chi?». «Tipo Joe Satriani». Ho ribattuto: «Mi sembra che sia tipo i Chickenfoot con Alex Van Halen al posto di Chad Smith». La cosa non mi andava, per quanto voglia bene a Joe. Poi l’ho chiamato, Joe, e mi ha raccontato cosa era accaduto. Gli ho detto: «Jason Newsted? Chi ha avuto l’idea? Deve essere stato David [Lee Roth]». Azoff mi ha confermato che era stata una pensata di Dave. Perché non Mike? Probabilmente perché Mike, che è un mio grande amico, avrebbe detto: «Sì, lo faccio se c’è Sam». E poi, comunque, senza Eddie non esistono i Van Halen. Penso che Irving abbia bocciato la proposta, ma Dave ha voluto tentare lo stesso, scavalcandolo. Mi sorprende che Alex si sia spinto fin lì. Forse, da quel metodico che è, avrà detto: «Bene, vediamo com’è. Proviamo a vedere se funziona».
Se volessero fare una residency a Las Vegas o un tour con te, Alex e Mike ti interesserebbe?
Non un tour. Non mollerei ciò che sto facendo per una cosa del genere. Mi renderei disponibile per fare una prova e valutare il chitarrista più adatto. E Joe sarebbe il top. Ma, come ho già detto, sembrerebbe di vedere i Chickenfoot con Alex ed è un problema. Credo che sia la stessa cosa che hanno pensato quando hanno chiamato un bassista diverso da Mike, ma anche quello è stato stupido. Mi piacerebbe molto suonare con Alex, Mike e un grande chitarrista che non tenti di scimmiottare Eddie. Ci sono tanti chitarristi eccezionali là fuori. C’è Steve Vai, ma anche John 5, che è bravissimo.
Ma quindi ti piacerebbe l’idea di una residency breve a Las Vegas oppure propenderesti per un unico concerto di tributo?
Penso più a un weekend, o qualcosa di simile, con l’incasso in beneficenza. Non deve essere una cosa per farci della grana, ne ho in abbondanza. Per soldi non farei nulla che non mi va. E l’idea di essere nei Van Halen senza Eddie Van Halen non mi piace. In realtà sono del tutto contrario, ma mi piacerebbe suonare ancora con Alex e Mike, rifare quelle canzoni insieme. E se facessimo una residency o un tributo, dividere la scaletta al 50%. Per i fan dei Van Halen canterei anche le canzoni di Dave, che sono grandi pezzi. Certo, i testi non mi rappresentano adesso come adesso, ma vale la stessa cosa per Rock Candy o Bad Motor Scooter.
A questo punto credo che preferirei sentire te che canti Ain’t Talkin’ ’bout Love piuttosto che Dave. Non riesce più a cantare.
Anche a me sembra che sia così. Ma in ogni caso penso che sarebbe una follia fare qualcosa con il nome Van Halen senza Eddie. Mi piacerebbe fare un tributo, se Dave lo volesse, in cui lui canta dieci dei suoi brani e io dieci dei miei. Sarebbe bello farlo con Alex e Mike e magari un gruppo di chitarristi che si avvicendano. Guarda cosa ha fatto Dave Grohl per Taylor Hawkins: è stato uno degli eventi più grandi della storia del rock, a livello dei primi Farm Aid e del Live Aid. Si potrebbe fare qualcosa di simile anche per Ed.
Perché non chiami Alex e gliene parli?
Gli ho lasciato molti messaggi, ma non a proposito di questo.
Quand’è stata l’ultima volta che gli hai parlato? Durante l’ultimo tour del 2004?
Sì, alla fine del tour. L’abbiamo chiuso ad Albuquerque, dove Eddie ha dato di matto. A fine concerto Irving Azoff mi ha preso e mi ha detto: «Sali in auto e sparisci da qui». Dovevamo prendere un volo tutti insieme per tornare a casa, ma Irving ha visto cos’era successo e ha prenotato un altro aereo per me, mia moglie e il mio tour manager. Stavo scendendo dal palco e mi sono sentito afferrare da qualcuno che mi diceva: «Cammina, esci di qui, adesso, vai». Sapevano che sarebbe scoppiata una lite perché Ed era stato aggressivo durante il concerto. Avrei voluto pestarlo. In quel momento Alex è venuto da me, mi ha dato un grosso abbraccio e mi ha detto: «Ti voglio bene amico. Grazie. Fai attenzione e fai buon viaggio». È stata l’ultima volta.
In quel tour Wolfie era un ragazzino. Gli parlavi?
Sì, ma non moltissimo. Quando ha fatto il suo primo disco gli ho dato moltissimo supporto e lui è stato altrettanto carino con me. C’è molta cordialità, ma non del tipo «Ehi, vediamoci!». Wolfie mi fa impazzire. Pensa a cosa ha fatto a Londra nello show per Taylor Hawkins: quando ha suonato quella roba di Eddie è stato eccezionale, cazzo. La sua bravura mi stupisce ogni volta. Ha lo stesso talento del padre: sono un po’ come Jason e John Bonham. E gli rendo il grande merito di non cercare di essere Eddie. Ecco, adesso farò una dichiarazione: se mai ci fosse un tributo con Alex, Mike, Dave e me, con Wolfie che suona le parti di Eddie, allora si potrebbe chiamare la band Van Halen, ma per un istante solo. Wolfie sarebbe pazzo a mollare la sua vita, la sua carriera e la sua creatività per fare l’imitatore di suo papà. Ma per un istante sarebbe fantastico.
Giusto per fare chiarezza: quando ti ha chiamato Irving Azoff per esporti l’idea di quella residency a Las Vegas?
Fammi ricordare… è stato più o meno sei mesi fa. Forse un mesetto prima che la notizia delle prove di Alex e Dave con Satriani e Newsted arrivasse alla stampa.
E da allora non si è mosso nulla?
Irving ha detto: «Alex non è ancora pronto a fare qualcosa. È ancora in lutto».
In cuor tuo credi ci sia ancora una chance?
Penso di sì. Ma non è certo una delle mie priorità.
Di recente, rispondendo a una domanda su un eventuale show di tributo, Roth ha detto: «Io sono quello che ha inventato il nome della band. Stai parlando di un tributo a me?».
(Ride sonoramente) Eccolo! (Ride ancora di più) Dovrei iniziare a seguire Roth, sono sicuro che mi farebbe ridere un sacco. Oh mio Dio, che tipo! Ma che cazzo… immagina se avessi detto io una cosa del genere. Io ero nella band e ho scritto delle canzoni con Eddie, come ha fatto anche lui. La Warner, quando mi sono unito al gruppo, ha anche accennato all’idea di ribattezzare la band Van Hagar. Ma Eddie ed io abbiamo detto «No, no, no. Questi sono i Van Halen». Quindi sono entrato nei Van Halen. Immagina se andassi in giro a dire cose del genere: non lavorerei più. Come fa Dave a passarla liscia dicendo queste stronzate? Che cazzo di svitato.
Se dovessi sentire Alex al telefono oggi, cosa gli diresti?
Quello che mi diceva sempre lui. Gli direi: «Alex, non è che col passare degli anni diventiamo più giovani». Ogni volta che ci siamo visti per una reunion oppure siamo tornati in studio mi faceva: «Sam, non diventiamo più giovani». Glielo direi, poi ci faremmo una gran risata e ci metteremmo ad aggiornarci su di noi. Non parlerei di lavoro per iniziare, non sarebbe una mia priorità. Vorrei sapere come sta. Alex è un tipo molto gentile. Ma è un duro. È olandese: è come un tizio del 1700, una persona integerrima, all’antica. È chiuso, ma ha un cuore enorme. E probabilmente questo è il motivo per cui è così chiuso.
I fan desiderano moltissimo questo show di tributo. Sarebbe catartico, una chiusura del cerchio.
Sono d’accordo. Credo sia necessario.
Tradotto da Rolling Stone US.