La scena che segue resterà nella storia di Sanremo. È il dicembre 2018 e il vincitore di Sanremo Giovani, che sta per essere proclamato, accederà di diritto alla categoria big del Festival 2019. Sul palco ci sono tutti i concorrenti schierati, tra cui uno stralunato Mahmood: regge tra le mani il premio della critica, che si è appena meritatamente guadagnato con Gioventù bruciata. Pochi secondi dopo, Fabio Rovazzi annuncia che Mahmood è anche il vincitore assoluto della serata, e che gareggerà tra i big a febbraio. A quel punto il nostro eroe sgrana ancora di più gli occhi, si guarda intorno come a dire «Ma chi, io?», avanza barcollante di un passo e, mentre Pippo Baudo si complimenta con lui, si lascia andare a una muta esclamazione che il microfono non coglie, ma la telecamera sì, perché il labiale è perfettamente leggibile: «Porca troia!». Flash forward a qualche mese dopo: la sua Soldi vincerà il Festival di Sanremo, si classificherà seconda all’Eurovision Song Contest, verrà certificata quadruplo platino e diventerà una delle hit radiofoniche più suonate dell’anno, in Italia e non solo.
Nel documentario che porta il suo nome – diretto da Giorgio Testi e scritto da Virginia W. Ricci, sarà al cinema da oggi per i prossimi tre giorni – Mahmood spiega meglio ciò che ha generato in lui cotanto stupore: tradizionalmente il premio della critica è percepito come una sorta di “premio di consolazione” da assegnare a chi non vincerà, quindi era ormai convinto che tutto fosse perduto. Ed essendo che era già la sua seconda volta a Sanremo Giovani (la prima era stata nel 2016 con Dimentica: era approdato su quel palco attraverso Area Sanremo, il concorso che garantisce la possibilità di partecipare al Festival anche ad artisti senza produzione o etichetta), temeva che una nuova sconfitta significasse la fine della sua carriera. Alle delusioni ci era abituato: nel 2012 aveva partecipato anche a X Factor ed era stato scartato, ripescato e poi eliminato di nuovo, in quanto considerato dai giudici non ancora pronto per il mercato discografico. Ma più in generale, racconta sua mamma nel film, le sue espressioni e la sua mimica facciale non sono una posa: ogni volta che gli capita qualcosa di bello, ogni volta che qualcuno riconosce il suo talento, è genuinamente stupito. Quasi basito, a tratti. Ed è probabile che spontaneità e candore siano proprio il motivo per cui è così facile riconoscersi in lui e nella sua musica: a chi di noi underdog non è capitato di cascare dal pero di fronte al miraggio di una gioia ogni tanto?
Il documentario ripercorre la vita di Mahmood, fin dall’infanzia in una famiglia a tratti enorme e a tratti minuscola. Suo padre, egiziano, scompare dalla scena quando è ancora un bambino, lasciando che sia solo la madre a crescerlo, con tutte le difficoltà economiche e pratiche che una giovane madre single emigrata dalla Sardegna può avere in una metropoli come Milano (Soldi parla proprio della relazione complicata con il genitore assente: «Quella scena è uno degli ultimi ricordi che ho di mio padre, mi ha fatto dubitare che ci fosse dell’interesse sincero nei miei confronti», dice). Per fortuna, però, la famiglia materna è grande e accogliente, tredici tra fratelli e sorelle e decine di cugini e cugine, e anche gli amici di vecchia data sono talmente numerosi che sentirsi soli non è una possibilità. Le persone che hanno fatto parte della sua vita intervengono spesso e con grande entusiasmo, rendendo il film un ottimo scorcio sulla sua quotidianità e sul percorso che ha intrapreso fin qui, ma non svelando grandi verità nascoste o retroscena inediti: fedele alla sua indole riservata, Mahmood preferisce che a parlare sia la musica («I suoi malesseri non li racconta, io li ho scoperti tutti dalle canzoni», dice sua mamma). Le interviste a colleghi, musicisti e amici e i vari contributi d’archivio sono intervallati dalle immagini delle sue esibizioni live, in particolare quelle dell’ultimo tour europeo, e vederlo sul palco spiega più di mille parole. Appena sale in scena e si ritrova davanti a un pubblico, si rianima: il ragazzo timido e introverso sparisce, per lasciare spazio all’artista eclettico e trascinante che ha saputo andare oltre gli stereotipi del pop melodico italiano, convincendo anche i più testardamente ottusi che è giusto e normale che due ragazzi cantino d’amore e di brividi guardandosi negli occhi, perfino nella tradizionalista cornice dell’Ariston.
La gavetta di Mahmood, nonostante la sua giovane età, è stata lunga e tortuosa: le scuole di musica, i concorsi per nuovi talenti, X Factor, i primi passi come autore di canzoni altrui… Prima che arrivasse a firmare un contratto discografico e a capire che sarebbe riuscito a mantenersi con la musica – perché giustamente, per chi non ha mai navigato nell’oro, prima dei sogni di gloria c’è il pragmatismo – ce n’è voluto di tempo. Per non parlare di tutto il tempo che ci è voluto per trasformarsi nell’artista dei record, che ha vinto ben due Festival di Sanremo prima dei trent’anni. Ogni delusione o momento complicato, però, ha contribuito a farlo crescere e a dargli nuova linfa, tanto che tutti gli intervistati assicurano che oggi il loro amico / parente / collega è ancora più empatico di quanto già non fosse in precedenza. È soprattutto questo che emerge dal documentario: la sua grande umanità e semplicità, prima ancora della creatività. Tratti caratteriali che gli hanno permesso di costruirsi un’estetica e un immaginario, ma non un personaggio, perché per Mahmood non vale la pena di nascondere la persona che c’è dietro.
Il trailer: