Boris è tornato. La serie più importante della tv italiana dal 26 ottobre è approdata con una nuova stagione, la quarta, su Disney+, nel catalogo Star. Aspettavamo da così tanto tempo (12 anni!) questo momento che adesso che lo stiamo vivendo non sembra del tutto reale, come in un sogno. Tanto, tantissimo infatti è cambiato dal 16 aprile del 2007, quando questo progetto scritto e ideato da Mattia Torre, Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo fa il suo esordio su Fox. Tanto per cominciare non esiste più Fox; lo scenario politico, che allora era dominato dal berlusconismo rampante, ha lasciato il posto al tecno-sovranismo meloniano alimentato dalla retorica populista dei social; sono cambiati i protagonisti di quelle indimenticabili tre stagioni e sono cambiati anche i loro spettatori e la modalità di fruizione televisiva. con l’avvento delle piattaforme di streaming video rese possibili dalla diffusione di internet “per tutti”; last but not least, Mattia Torre, autore cardinale e grande monologhista, e Roberta Fiorentini, indimenticabile interprete della greve e avvinazzata assistente alla regia Itala, nel 2019 hanno permanentemente traslocato nell’altrove.
Molti erano dunque i dubbi riguardanti un comeback che rischiava di trasformarsi in un’operazione nostalgia, uno sterile esercizio di stile, addirittura per qualcuno un progetto “cash grabber” che capitalizzava il grande amore per una serie cresciuto esponenzialmente negli anni. Ebbene, basta la visione della prima puntata di Boris 4 per fugare ogni paura e far tacere anche i detrattori più incattiviti: il cast al completo, dopo aver affossato definitivamente la fiction della tv generalista stile Un posto al sole, torna per un ambizioso progetto in linea coi tempi che stiamo vivendo, una rilettura della vita di Gesù prodotta dalla SNIP, la So Not Italian Production di Stanis La Rochelle, e commissionata da una potentissima piattaforma di streaming i cui executive americani seguono religiosamente le linee guida tratteggiate dal non meglio precisato “algoritmo”.
È su questa geniale dicotomia boomer vs. algoritmo che si snodano gli otto episodi, non prima però di affrontare la scomparsa di Itala, un po’ come l’inizio della stagione 6 di Peaky Blinders rendeva omaggio a Helen McCrory. Solo che qui siamo in Italia, questo è Boris, e quindi il risultato è prevedibilmente e adorabilmente “a cazzo di cane”. Un altro tributo al compianto sceneggiatore del trio originale Torre (che non sveleremo qui) arriva alla fine dell’episodio, ed è un momento così poetico e struggente nella sua imprevedibilità metatelevisiva che per trattenere le lacrime bisogna avere una discarica abusiva nella terra dei fuochi al posto del cuore.
Torna il solito cast in stato di grazia, sicuramente più vecchio ma in cui ogni partecipante riesce ancora in maniera inarrivabile a dare corpo a personaggi fallaci, imperfetti, cialtroni e sopra le righe ma assolutamente veri, realizzando affreschi memorabili e sorprendentemente aderenti nella loro esagerazione al reale (nel mio minuscolo ho lavorato per vent’anni su set milanesi e romani per la generalista e le piattaforme e posso candidamente confermarlo). Ritroviamo dunque il regista Ferretti (Francesco Pannofino), eternamente combattuto tra la volontà di realizzare un prodotto qualitativamente rilevante e la sua naturale pulsione alla monnezza tipica della fiction pressapochista italiana; la megalomania narcisistica di Stanis e Corinna (Pietro Sermonti e Carolina Crescentini), che ora sono anche produttori oltre che attori (cani in entrambi i casi); il trafficone incompetente Lopez (Antonio Catania), che irrora la produzione con liquidi dalla provenienza molto dubbia; Alessandro (Alessandro Tiberi), lo stagista vessato nelle prime tre stagioni che ora è diventato l’untuoso e imbelle responsabile della piattaforma, sempre schiavo ma di qualcun altro; il direttore della fotografia cocainomane Duccio (Ninni Bruschetta), che dopo un periodo a Bollywood adesso è un asceta zen che comunque non ha perso il vizio; torna anche Biascica (Paolo Calabresi), la cui violenza coatta ora non può più trovare sfogo sulle maestranze più deboli a causa delle rigide linee guida comportamentali e le policy di diversity e inclusivity (un concetto che continua a sfuggire a tutti costantemente negli episodi) imposti dalla piattaforma; Arianna (Caterina Guzzanti) invece è la solita àncora di salvezza, unico baluardo di abnegazione e professionismo che separa la riuscita del progetto dalla débâcle totale.
Al cast fisso si aggiungono i guest che hanno contribuito non poco allo status mitologico delle precedenti stagioni: Mariano, che ha abbandonato i deliri religiosi e ha abbracciato una psicopatia armata ancora più pericolosa, è interpretato dal solito titanico Corrado Guzzanti, l’unico in grado di farti scoppiare dal ridere semplicemente dicendo la parola “pepperoni!”. Anche Giorgio Tirabassi riveste i panni stropicciati del brutale Glauco, regista e direttore della fotografia maneggione sempre pronto a manipolare gli attori per il proprio personale tornaconto.
Il ritmo è alto e non ci sono cedimenti, nel corso delle otto puntate che raccontano i travagli e le sgangheratezze della vita da set in perfetto stile Boris tra comparse improponibili, scenografie raffazzonate, scioperi delle maestranze, capricci degli attori incapaci, sceneggiature scritte con la mano sinistra mentre si sta seduti sul cesso e tormentoni ormai entrati di diritto nel patrimonio linguistico italiano (“cagna maledetta”, “smarmella”, “dai dai dai!”). E se la ricerca della battuta e dell’effetto comico rischia di essere a tratti eccessiva, sono molte le scene destinate a diventare paradigma comico, come il classico espediente del “lo dimo” (ovvero attori che raccontano gli eventi ed evitano alla produzione di doverli girare per schivare sanguinosi gonfiamenti di budget e giornate ancora più lunghe).
Boris 4 è imperdibile perché è lo stesso Boris di sempre: una serie che racconta uno spaccato di un mondo professionale ma che a un livello più profondo racconta con grande sensibilità e acume (come solo Fantozzi prima di lui) le dinamiche relazionali, la difficoltà nel comunicare, la precarietà, l’arrivismo untuoso e la voglia di riscatto che sono temi universali. Non è un caso che il libro dedicato alla serie, scritto da Gianluca Cherubini e Marco Ercole e uscito per Biblioteka lo scorso anno, si intitoli Siamo tutti Boris. Tutti tentiamo di stare a galla, ci raccontiamo fregnacce, ci impegniamo, crolliamo, abbiamo sussulti d’orgoglio e alla fine ce la portiamo (quasi) sempre a casa. Ed è coffee break, signori!