Tutto ebbe inizio cinque anni fa, quando Jeff Bezos tuonò: «Voglio il mio Game of Thrones». E, consapevoli della tendenza alla grandeur di mister Amazon, a Prime Video probabilmente hanno pensato: «Go big or go home». Dove go big vuol dire acquisire i diritti sull’universo e i personaggi di J.R.R. Tolkien, e cioè la madre di tutte le saghe fantasy (e quindi anche delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, come ha spesso dichiarato pure lo stesso George R.R. Martin). 250 milioni di dollari e passa la paura, peccato che ancora non sapessero bene cosa farci con tutto quel ben di Dio.
Intanto però il fantasy, che GoT aveva elevato a genere prediletto della Peak Tv, ha preso una mazzata proprio dai suoi alfieri, i creatori del Trono di spade David Benioff e D. B. Weiss, che lo hanno messo al tappeto con l’ultima, malandatissima stagione. Quel finale messo insieme alla bell’e peggio in realtà ha solamente aumentato la fame di un pubblico già infiammato (pardon). Segue la Danza delle Piattaforme, ansiosissime di trovare un degno erede della serie più amata, premiata e importante della contemporaneità. C’hanno provato TUTTI, ma alla fine i veri contendenti si riducevano a due: la madre dei draghi HBO e Prime, aka nella Terra di Mezzo ndo cojo cojo.
Mentre la prima produceva un prequel – Blood Moon starring Naomi Watts – e poi lo stoppava perché «mancava della profondità e della ricchezza dell’originale», la seconda lasciava l’investimento (e l’ansia di migliaia di tolkeniani di ferro) in mano a J.D. Payne e Patrick McKaydue. Chi, direte voi? Ecco, sostanzialmente due tizi il cui unico lavoro precedente era un prima bozza non accreditata di Star Trek: Beyond. Poi l’intuizione di HBO: «C’abbiamo i draghi, usiamoli!», tradotto: vai col prequel su Casa Targaryen e compagnia fiammeggiante. E di pari passo, dall’altra parte, LA notizia: Gli anelli del potere sarebbe stata la serie più costosa di sempre, con un budget di un miliardo di dollari. Una cifra che da un lato rassicurava e dall’altro terrorizzava.
Arriviamo alle uscite, pure queste programmate ad hoc per uno scontro a fuoco: il 21 agosto la première di House of The Dragon registrava un record (anche rispetto a Game of Thrones) di 10 milioni di spettatori (solo durante la messa in onda in prima serata) e faceva crashare HBO Max (per circa 3mila spettatori che – ironicamente – stavano utilizzando device Amazon per lo streaming). Gli anelli del potere arrivava il 2 settembre con più di 25 milioni di spettatori nel giorno del rilascio, la più grande prima di Prime.
Confesso che il ritorno nella Terra di Mezzo mi spaventava a morte, poi ho visto le prime due puntate e ho tirato un – pur sempre timido – sospiro di sollievo: «Forse ce la possiamo fare». Ma dopo la terza ho mollato tutto, per poi riprendere qualche giorno dopo un po’ controvoglia. Era palese fin da subito che Prime giocasse per lo spettacolo, con scenografie pazzesche e computer graphic clamorosa. L’effetto era un po’ quello “meraviglia” dei film di Peter Jackson, vedi la sequenza in cui Galadriel fugge da un mostro marino o quella in cui gli elfi scalano un muro di ghiaccio a strapiombo. Pure una scena più “modesta” come l’ingresso di un orco in una casa (girata à la Jurassic Park dal regista di Jurassic World – Il regno distrutto, Juan Antonio Bayona) era tecnicamente da manuale. All’inizio anche i personaggi promettevano bene, a partire da una Galadriel giovane e feroce guerriera interpretata da Morfydd Clark (che poi però ha perso incisività, male da subito invece l’elfo soldato Arondir – Ismael Cruz Córdova – che ne deve mangiare di cereali sottomarca per avvicinarsi anche solo lontanamente all’inespressività, sì, ma pur sempre figherrima del Legolas di Orlando Bloom). E va bene la maestosità visiva anche un po’ fine a se stessa, tra battaglie epiche e panorami del mondo fantastico creato da Tolkien, ma chiunque avrebbe capito che l’irresistibile pelopiedi Nori (Markella Kavenagh) e gli adorati nani capitanati da re Durin IV (Owaine Arthur) e dalla moglie Disa (Sophia Nomvete) erano il cuore della storia. Anziché usare la loro empatia e sincerità for the win, McKay e Payne hanno costruito la stagione intorno a un mistero abbastanza noisetto che con quella vivacità cozzava pure, ovvero quale personaggio si sarebbe rivelato essere Sauron. Insomma quel budget monstre poteva essere speso meglio: a fare i fenomeni con un miliardo di dollari son capaci tutti, ma l’abilità di capire come si raccontano le storie invece da tutti non è.
Citofonare Casa dei Draghi, che – puntata dopo puntata – ha assorbito la lezione di GoT: fare di necessità virtù, aka se devo stringere la cinghia sul budget, mi soffermo sui personaggi. Di più: uso un’intera stagione per mettere basi solide alla storia che voglio raccontare. In origine Il trono di spade aveva usato una certa dose di “non lo famo ma lo dimo” (cit. Boris 4), evitando di mostrare tutte le premesse – Robert Baratheon che guida una ribellione contro il re folle Aerys Targaryen e Jaime Lannister che lo uccide per salvare i Sette Regni – per andare subito al sodo della storia, House of The Dragon invece ha scommesso sull’esatto opposto: ha scelto di raccontare gli snodi principali che hanno portato alla Danza dei Draghi, e cioè la guerra civile tra i sostenitori di Rhaenyra e quelli di Aegon II Targaryen, che vedremo – appunto – nella seconda stagione. E, per mostrare quei fatti salienti, ha corso un rischio enorme, programmando salti temporali ogni volta che la narrazione diventava forte e cambiando ripetutamente i volti del cast (tutti notevoli, nessuno escluso) man mano che i personaggi crescevano. Ad ancorare tutto però ci sono due figure femminili da tragedia greca, la stessa Rhaenyra Targaryen (prima Milly Alcock, poi Emma D’Arcy) e Alicent Hightower (prima Emily Carey, poi Olivia Cooke), e la loro sottilissima dinamica di nemiche/amiche. E quindi la scrittura, i personaggi e le loro relazioni. Mettici un cattivo(?) tormentato e hot (il Daemon di Matt Smith), incesti, antiche profezie (sì, QUELLA profezia) e, ovviamente, i draghi: il gioco è fatto. A differenza di GoT qui i soldi c’erano eccome, da subito, ma lo showrunner Ryan Condal li ha spesi intelligentemente, perché ha iniziato a costruire una struttura precisa dietro le fiamme. Così le sequenze spettacolari starring i draghi, come l’apparizione di Rhaenys in sella a Meleys all’incoronazione di Aegon II o il volo di Luke e Arrax braccati da Aemond e Vhagar nel bel mezzo di un temporale, non sono semplice ostentazione, ma ricchi complementi al turbinio dei protagonisti e, spesso, momenti essenziali di avanzamento della trama. Per ora, nell’autunno caldissimo della Danza delle Piattaforme, non c’è riuscito nemmeno il patrimonio tolkeniano a bruciare (pardon) la formula GoT. Un drago per domarli tutti, in attesa del secondo round.