Valeria Bruni Tedeschi, nel suo cinema, ha sempre raccontato quello che conosce. I castelli, le famiglie di lusso, il mestiere d’attrice e autrice, i lutti, i tradimenti, le preghiere alla Madonna anche se la Madonna non c’è. La mamma (magnifica) era quella vera, e così i sentimenti, i risentimenti, il lato buffo e quello tragico della vita. Il suo cinema apparentemente piccolo è però diventato enorme. Per capacità di trasfigurazione, di rendere universale il minuto, lo specifico, l’intimo che forse si può svelare solo se lo si fa così, senza pudore.
Forever Young – Les Amandiers (nelle sale dal 1° dicembre) è forse il film più minuto, specifico, intimo di tutti. E anche, insieme, quello più trasfigurato, più universale. Perché racconta la giovinezza – quella dell’autrice, quella di tutti – che è un’età più lontana rispetto alle recenti stagioni (ri)messe in scena nel Castello in Italia e nei Villeggianti. E la giovinezza è, per forza di cose, esaltata, idealizzata, parafrasata, rivissuta secondo la memoria e la nostalgia dell’oggi.
Forever Young racconta gli anni di formazione teatrale della giovane Valeria (qui però si chiama Stella, ed è interpretata dalla prodigiosa Nadia Tereszkiewicz) al Théâtre des Amandiers di Nanterre diretto, negli anni ’80, dal grande Patrice Chéreau (Louis Garrel). Una specie di Saranno famosi intellò dove una giovane compagnia di aspiranti attori (il cast è strepitoso, una di quelle cose che in Italia sarebbero impossibili) si ama e si odia, perché hai preso lei e non me, io voglio il ruolo del protagonista mica il servo muto, e via così, le passioni, le pulsioni, la vocazione e il destino di essere scelti o scartati, dal teatro e dalla vita adulta.
Stella/Valeria vive sempre in un castello, è la ricca che deve continuamente negoziare il suo talento con il privilegio, ha il fuoco cosiddetto, trova un collega che diventa un amore (Sofiane Bennacer), impara a stare al mondo, in quel mondo in cui per la prima volta è uguale a tutti gli altri. Forever Young è forse il film più “di sinistra” di Bruni Tedeschi. Di sicuro quello registicamente più complesso, tra Cassavetes e Assayas (splendido il lavoro dell’operatore Julien Poupard). E il più disperatamente (neo)romantico, anche in quanto omaggio a un modo di fare teatro (e poi cinema) che sembra perduto. Era solo (?) quarant’anni fa, ma gli Amandiers sembrano vecchissimi, il ‘900 sembra vecchissimo – e ovviamente bellissimo.
Il mio lavoro è come prendere una scala e andare su un altro pianeta, mi disse una volta Valeria. Un pianeta dove vigono leggi completamente diverse dalle nostre. Si devono dire le parolacce, mostrare le vergogne, i segreti, le paure. Tutto questo lì è benvenuto, mentre nella nostra società è sempre compresso, represso. Ma ci sono altre leggi che vanno rispettate, continuava Valeria: non ho il diritto di non amare i miei personaggi e i miei attori. Se non li amo, su quel pianeta vado in prigione.
Valeria i suoi personaggi li ama tutti, e li critica, li umilia, perché costantemente critica e umilia sé stessa. Critica le fragilità borghesi, ma pure i conformismi artistici, l’insincerità verso noi stessi e gli altri, la posa, le gabbie in cui ci chiudiamo per paura di libertà. Ci sbatte tutto davanti, senza pudore appunto, e senza mai dirti: così è giusto, così è sbagliato. È solo vita.
Forever Young è il film di una grande autrice che rivive collettivamente, come a teatro, il suo romanzo di formazione. Un film che insegna a diventare grandi, anche se lei forse grande non lo è ancora diventata, e lì sta l’eterno gioco, l’eterna, lucidissima simulazione. È l’ingresso nel mondo, il momento esatto. Il regista che, prima che la sua attrice entri in scena, le poggia una mano sulla schiena. Dà solo un colpetto. Vai, ora tocca a te. Il palco – tutto il mondo – adesso è tuo.