Disney+
Misteriosi omicidi a Manhattan. La serie “made in Disney” che rinverdisce il giallo à la Woody Allen ( che oggigiorno è innominabile: vergogna!) è un tenerissimo omaggio al Novecento: una coppia di commedianti âgé di razza (Steve Martin e Martin Short, a cui tiene testa una sempre più matura Selena Gomez), i tributi alla “vecchia” New York tra gli show di Broadway e un umorismo alla Fran Lebowitz, e new entry extralusso come Shirley MacLaine (dove c’è un “appartamento”…). Intrattenimento puro e che altro non vuole essere, ma confezionato con la massima classe possibile. E la capacità di parlare a un pubblico trasversalissimo. Una delizia, punto.
14
Netflix
C’è chi dice che, dopo la prima fulminante stagione, la hit Eighties di Netflix sia sempre un po’ la stessa pappa. Che vuol dire tanto sci-fi à la Spielberg, un po’ di horror à la Stephen King e il sempre caro fu all’algoritmo coming of age. Il quarto capitolo (diviso in due parti) non fa eccezione. Ma squadra che spacca non si cambia, magari si mescolano gli elementi diversamente. E si tirano finalmente (e benissimo) un po’ di somme su Sottosopra ecc, si aggiungono al mix ottimi nuovi personaggi (Eddie, sei tutti noi), si crea un cattivo da manuale (chapeau a Vecna/One/Henry, alias Jamie Campbell Bower) e si riporta in classifica, così de botto, Running Up That Hill di Kate Bush.
13
Netflix
Hollywood ha cercato di portare sullo schermo la serie a fumetti “definitiva” di Neil Gaiman praticamente dal momento in cui ha debuttato. Ma nessuno ci era mai riuscito prima d’ora perché The Sandman era tanto, troppo. Come si dice, “impossibile da adattare”. Poteva farcela solo Neil himself, ormai produttore presso le sue stesse opere. E in effetti la serie non poteva andare più vicino di così a dare vita alla fantasia dark di Gaiman. A partire dalla scelta sensazionale di Tom Sturridge, che pare nato per essere Dream, accompagnato da un super cast: dal Corinthian di Boyd Holbrook al Lucifero di Gwendoline Christie, dal John Dee di David Thewlis alla Johanna Constantine di Jenna Coleman. Certo, è una versione “per tutti” del capolavoro di Gaiman, ma le atmosfere sono impeccabili.
12
Netflix
Come si scrive la parole “fine” sullo spin-off di una delle migliori serie di sempre? Con un ultimo episodio che è ancora meglio della conclusione della serie originale. Pare incredibile se pensiamo quanto non ci sembrasse una buona idea fare un prequel di Breaking Bad. E invece. Chiudere “in bellezza” poi era una scommessa ancora più difficile, non solo per le vette raggiunte da Peter Gould e Vince Gilligan, ma anche perché c’era una cornice entro cui stare. E perché concludere Better Call Saul significava in qualche modo la fine di un mondo: quello di Breaking Bad. Gli showrunner, insieme a Bob Odenkirk, Rhea Seehorn e soci (con tanto di cameo di Bryan Cranston, Aaron Paul e Betsy Brandt), salutano non solo magnificamente, ma nel pieno spirito di Better Call Saul e, insieme, di Breaking Bad. È finita un’epoca. E non poteva finire meglio di così.
11
Netflix
Date degli outsider a Tim e lui solleverà il mondo. E la serie sulla primogenita della famiglia Addams, con la sua essenza gotica e lo spirito da dramedy, era il materiale dei sogni del regista cult. Non è dunque una sorpresa che in Mercoledì sia tutto giusto (anche se magari un po’ già visto), tutto talmente burtoniano da essere burtonianamente scontato (pardon): non solo l’outcast, ma l’outcast che resta outcast pure nella scuola per outcast (ri-pardon). Ma Burton (e gli showrunner) sapevano bene che la scelta e il lavoro con la protagonista avrebbero “fatto” la serie. Così è stato. È nata una stella: Jenna Ortega. E ben oltre il balletto che ha infiammato TikTok.
10
Disney+
Prima di Paris Hilton e Kim Kardashian, c’era Pamela Anderson. E questa serie riconosce intelligentemente come il furto del sex tape più famoso di tutti i tempi – starring Pam e il marito, il batterista dei Mötley Crüe Tommy Lee – abbia trasformato la cultura della celebrità e dei media. Ma riesce anche a essere assurda e divertente, diretta con perfetti sprazzi di follia da Craig Gillespie (il regista di Tonya). Pam & Tommy riconosce il prezzo che Anderson ha pagato per la diffusione coatta di quel video, grazie alle interpretazioni di Lily James e Sebastian Stan (al netto di trucco, parrucco e, sì, protesi, QUELLE protesi), che riescono ad andare a fondo dei personaggi e a renderli umanissimi. Con James che va ben oltre l’ipersessualizzazione di Pam. E Stan che ci regala il dialogo più fuori di testa della stagione seriale.
9
Sky
Olivier Assayas prende il rifacimento per la televisione del suo film cult omonimo del 1996 (che era già una riflessione sui remake, quello di uno dei primi serial della storia, I vampiri di Louis Feuillade del 1915) e si sottopone a una sorta di autoanalisi professionale e personale. L’attrice protagonista è una star del grande schermo stavolta americana (anche se la sua interprete, Alicia Vikander, è svedese), che finirà quasi per combaciare con l’eroina in tutina nera che dà il titolo alla “serie nella serie”. Un’occasione meta che più meta non si può per riflettere sul cinema e, in definitiva, su sé stessi, in un cortocircuito tra i più seducenti visti di recente.
8
Netflix
The Queen se n’è andata, Harry e Meghan hanno fatto il patatrac. Insomma: la monarchia inglese sta attraversando tempi durissimi. Ma era già successo negli anni ’90, con il divorzio tra Carlo e Diana. Ed è proprio quegli anni horribili che racconta la quinta stagione della serie by Peter Morgan, la più massacrata di tutte. Ingiustamente (sì, ok, Dominic West sarà anche troppo belloccio per interpretare Carlo, ma andiamo oltre), perché mai l’aspetto pubblico si era tanto sovrapposto alla sfera più intima dei royal, tradotto: è impossibile raccontare qualcosa di già raccontatissimo. E però The Crown lo fa ancora una volta meravigliosamente tra scrittura, décor e cast tutto. Ai detrattori: dai, dove lo trovate un altro gioiello (sorry) così? God Save Jonathan Pryce.
7
Sky
Attesissimo, sì, ma sempre con una certa circospezione, come si conviene a ogni prequel di cult che rispetti. Memore della formula GoT, alla fine però House of the Dragon ha distrutto il diretto concorrente, Gli anelli del potere, in tre dracarys. Come? 1) ha usato un’intera stagione per mettere basi solide alla storia che voleva raccontare (e che vedremo nella seconda stagione), rischiando anche parecchio, con salti temporali e cambi nel cast; 2) ha portato sullo schermo grandi personaggi (ancorando tutto alla dinamica nemiche/amiche di Alicent e Rhaenyra) e trovato attori ancora più “grandi” che li interpretassero; 3) ha capito che i draghi non potevano essere solo ostentazione di effetti digitali, ma dovevano diventare ricchi complementi al turbinio dei protagonisti e punti essenziali di avanzamento della trama. Sempre grazie per il Daemon di Matt Smith.
6
Sky
Era difficile bissare il successo (soprattutto mediatico e culturale) della miniserie di maggior successo dell’annata passata. Invece Mark White fa centro un’altra volta. La seconda stagione di The White Lotus si trasferisce in Sicilia, tra machismi mai sopiti e ossessione sessuale che travolge tutti quelli che ci mettono piede. E parte apparentemente a rilento: in realtà nelle prime puntate apparecchia una tavola che si scoprirà imbanditissima, fino a un finale che mescola tragedia e commedia con la sapienza del grande melodramma. La satira politica e umana è precisissima, il cast da applausi (oltre alla “solita” Jennifer Coolidge, monumentale nell’ultimo episodio, menzione speciale al veterano F. Murray Abraham e all’irresistibile Aubrey Plaza). E se le nostre giovani connazionali (Simona Tabasco e Beatrice Grannò) non sfigurano, a true star is born in tutto il mondo: Sabrina Impacciatore. So proud.
5
Apple TV+
Gli “Slow Horses” sono membri dell’Intelligence britannica caduti in disgrazia, per un motivo o per un altro: per questo a ognuno di loro è stato affidato un lavoro umiliante e inutile nella speranza che si licenzi. Capite bene che la premessa della serie (tratta dai romanzi di Mick Herron) è già bellissima così. Mettiamoci anche una trama da thriller perfettamente bilanciata con la commedia inaspettata degli outcast dai quali non ci si aspetta nulla e che cercano di risolvere la situazione. Ciliegina sulla torta, la splendida interpretazione di un grande attore drammatico a cui di solito non è permesso essere divertente quanto dovrebbe: il premio Oscar Gary Oldman. Ed è subito instant cult.
4
Disney+
Ormai pensavamo che The Mandalorian e Baby Yoda fossero il massimo che l’universo di Star Wars era in grado di regalarci. E forse ci saremmo felicemente accontentati. Poi è arrivato Andor, uno spy-movie fatto serie nella galassia lontana lontana, e tutto è cambiato. Lo show non porta solo sullo schermo l’origin story di Cassian Andor (from Rogue One with love), ma anche il durissimo racconto di come la Ribellione sia stata costruita su sacrifici, compromessi e atrocità. I personaggi che circondano Cassian sono ancor più vividi e carismatici di Andor stesso (interpretato da un sempre ottimo Diego Luna) e la costruzione del mondo by Tony Gilroy e soci è stupefacente. Se facessimo una classifica dei migliori episodi, il decimo (l’evasione dalla prigione) starebbe di diritto tra i più potenti dell’anno.
3
Apple TV+
Il punto di partenza sci-fi è semplice ma geniale allo stesso tempo: i dipendenti di una società possono sottoporsi a una procedura di “scissione” che separa i ricordi del tempo trascorso in ufficio dalle memorie della vita privata, trasformando essenzialmente ogni persona in due individui diversi che condividono un corpo. Un po’ extravaganza sci-fi à la Charlie Kaufman, un po’ thriller paranoico Seventies e un po’ satira sul capitalismo, la serie rende letterale, inquietante e insieme godibilissima la lotta per l’equilibrio tra casa e lavoro nel XXI secolo. E prende vita grazie alla mano sempre più sicura e creativa di Ben Stiller alla regia (Escape at Dannemora) e alle superbe interpretazioni di Adam Scott, Britt Lower, Patricia Arquette, Tramell Tillman, John Turturro e Christopher Walken.
2
Sky
Tra le cose che Euphoria cattura meglio c’è la sensazione che nell’adolescenza tutto abbia un peso iperbolico: si va dal toccare il cielo con un dito all’armageddon. Ecco, quel sovraccarico sensoriale è un po’ la cifra preferita di Sam Levinson, dopo le concessioni minimaliste dei due speciali girati in era Covid. Nella seconda stagione torna tutto fortissimimamente “euphorico”, pirotecnico, visivamente ipnotico e splendido, A complemento di un’onestà brutale (al punto che c’è chi si è indignato, vabbè) nella sua visione nichilista dell’adolescenza, ma anche di una grande empatia nei confronti dei suoi protagonisti, su tutti di nuovo la tossica in perenne ricaduta Rue, che Zendaya rende ancora una volta irresistibile, ma pure la Cassie di Sydney Sweeney (è nata un’altra stella). Lo sguardo sulla Generazione Z non è mai stato così straziante e magnifico insieme. Al punto da diventare fenomeno di costume.
1
Disney+
The Bear può gasarvi a bomba e, contemporaneamente, farvi rischiare l’infarto. Sì, funziona COSÌ bene. Pare di essere bloccati, con Carmy e gli altri, nel beef sandwich shop della famiglia Berzatto, in quella cucina inadatta dove tutto si rompe costantemente, gli animi si scaldano ogni due per tre e il cibo non è MAI pronto per l’arrivo dei clienti: è tutto troppo intenso, troppo scomodo, troppo crudo, TROPPO. E per questo assolutamente imperdibile e catartico. Nello scontro epico tra il rigore dello chef convertito a paninaro e la faciloneria di chi i panini li fa da una vita, alla fine quelli davvero stressati siamo noi, continuamente devastati dall’ansia, ma anche da ogni altra emozione – buona o cattiva – che attraversi il locale. Oltre che comprensibilmente ossessionati dal bravissimo, fighissimo, pazzeschissimo Jeremy Allen White e dai suoi capelli.