Che Tiziano Ferro fosse diventato un classico lo sapevamo già, gliel’ha pure detto Jovanotti. E quando diventi un classico in Italia, vuol dire che sei una presenza famigliare nella vita delle persone, anche se i tuoi dischi non hanno più la carica innovativa d’una volta. Il mondo è nostro non è l’album migliore di Ferro, ma ne ribadisce lo status di classico non solo grazie a canzoni che sembrano riassumere una carriera, dall’inizio anti-italiano in stile R&B al boom arci-italiano dovuto alle ballatone. Ma anche per la varietà degli ospiti, da Roberto Vecchioni a thasup, che sembrano cingere Ferro in un abbraccio multigenerazionale. È anche il disco dei 40 anni d’un cantautore che sembra pacificato: e sono contentissimo, per citare la nostra cover story. (CT)
Willie Peyote ha un dono: l’economia della parola. È un artigiano della metafora capace di forgiare versi sintetici ma lucidissimi, perfetti per affondare le unghie nel contemporaneo e denunciarne le storture in maniera credibile (un esempio? “I soldi non esistono, sono numeri su un display, ma spesso stabiliscono anche il valore di chi sei”). Pornostalgia, il sesto album del rapper from Porta Palazzo, è essenzialmente questo: un j’accuse che si esaurisce perfettamente nello spazio di 35 minuti. C’è la politica e ci sono gli interrogativi, c’è il dubbio imperante, c’è la solita critica a un’industria musicale cinica e impazzita, ci sono metafore calcistiche nazionalpopolarissime ma ricercate e, più di tutto, c’è il tentativo di nobilitare il concetto del Fare schifo, tanto caro agli Skiantos. Good game, Willie. (GLS)
Intortare (cioè sedurre) delle fanciulle con queste canzoni sembra oggi incredibile, ma in anni nei quali la politica era una fede di certo funzionavano. D’altronde, Francesco Guccini è da sempre uno che ci seduce con le sue storie in musica e anche stavolta ci riesce. In Canzoni da intorto (titolo scelto dalla moglie, non a caso) ci ha voluto intortare sull’importanza di certi valori che, piacciano o meno, hanno permeato la società e ora sono in via d’estinzione: la Resistenza con Morti di Reggio Emilia, i sacrifici partigiani con Ma mì e Sei minuti all’alba (che Jannacci dedicò al padre partigiano), l’anarchismo di Nel fosco fin dal secolo (che ha definito «la nonna della mia Locomotiva») e l’inno del movimento operaio Addio Lugano. Arrangiamenti e produzione ineccepibili. E la voce del Maestrone affaticata, ma che su questi brani risulta persino più aderente alle fatiche di una società verso la quale ha deciso di lanciare “come una cosa viva, a bomba contro l’ingiustizia” un album che resisterà alle incurie del tempo e della futura indifferenza. (GA)
Il 2020 è stato anche l’anno di Luchè: Dove volano le aquile (o DVLA, se preferite) è il disco che certifica la tanto agognata consacrazione nazionale che inseguiva da anni, liberandolo definitivamente dall’etichetta di cantautore partenopeo capace di intercettare unicamente gusti partenopei. Più di tutto, DVLA è un album spiazzante, che si pone in netta controtendenza rispetto al precedente Potere: melodie più studiate, una scrittura più affilata e intrisa di metafore, campionamenti inaspettati e almeno due hit diversissime tra loro, ma davvero grandiose: la furbissima No Love e la poetica Le pietre non volano, una lunga parentesi conscious (cinque minuti: un’infinità se consideriamo lo zeitgeist in cui siamo immersi) e impreziosita dal solito Marracash in stato di grazia. (GLS)
È la stagione d’oro dei producer album: una golden age inaugurata proprio da Night Skinny nel lontano 2019, che in era prepandemica (bei tempi, quelli) ci ha spiazzati con la pubblicazione dell’ottimo Mattoni. Il 2021 è stato l’anno di Mace e di OBE, il suo disco capolavoro, mentre l’anno che sta per concludersi è stato aperto da X2, il secondo progetto solista di Sick Luke. Tre anni dopo, Skinny ci riprova con Botox: una sorta di atto secondo di Mattoni, che ripercorre in toto quella formula (buttare nel calderone tantissimi artisti, anche parecchio diversi tra loro, uniti in combinazioni più che vincenti e messi alla prova su beat cesellati alla perfezione). Il risultato è un disco di grande mestiere. (GLS)
Edda sarà anche “morto”, come ci aveva spiegato nell’ultima intervista, ma di certo anche questa è una Illusion, come dal titolo del suo album. Gli undici brani sono infatti delle piccole perle di cantautorato, libertà di scrittura e produzione sapiente (nelle mani di Gianni Maroccolo). Parte con Mio capitano, un insieme di allucinazioni su tutte le ipocrisie in cui crediamo senza farci troppe domande (se le fa lui per noi). Passa all’invettiva sulle nevrosi familiari in Alibaba, all’irriverente Carlo Magno (che sfotte il politicamente corretto) e la giostra prosegue con saliscendi malinconici (Lia), serissimi divertissement (Signorina buonasera) e denunce sociali su carrillon autolesionisti (L’ignoranza). Edda è una spugna: assorbe il marcio che abbiamo intorno e lo risputa purificato attraverso il filtro di una voce angelica e straziante che brilla in tutta la sua potenza evocativa. (GA)
Il caro Cesare è sempre il caro Cesare e ogni anno in cui esce un suo disco è un anno felice. La ragazza del futuro è la sua settima fatica, un numero importante, onorato con 14 brani generosi e maturi, che è un po’ quello che si potrebbe dire di Cremonini in generale. Dentro ci abbiamo trovato tanti riferimenti, quello più evidente però è a Lucio Dalla, di cui Cremonini eredita la capacità di raccontare storie che mischiano nostalgia, storie d’amore, sguardo sul presente e soprattutto sul futuro. C’è poi la cura minuziosa del sound, forse più stratificato di quanto avvenuto finora, con archi, sintetizzatori e beat che si mischiano a tutto il resto, aggiungendo livelli inediti di complessità. La struttura antologica dei brani rende questo disco particolarmente evocativo e ricco di immagini e “scene” che lo rendono un ottimo film da ascoltare. Una certezza. (EV)
Se nel tuo album d’esordio ti puoi permettere di ospitare il meglio del giro, ovvero Marracash, Guè, Mahmood e Luché, significa che la scena rap ti rispetta, e molto. Per lo scugnizzo trapiantato a Rozzi è stato l’anno della consacrazione nazionale, un’impennata con il booster sull’industria musicale italiana che sa di rivalsa sociale. Una scrittura cruda e un flow sporco fino al midollo che riportano il rap nel suo luogo d’origine: la strada. (MB)
Se solo tutto l’it pop fosse così, il mondo sarebbe un posto decisamente migliore. Ariete, a soli vent’anni, ci regala uno spaccato di vita da Gen Z alle prese con quello che invece è sostanzialmente un mondo di merda, non solo per colpa di un certo it pop demenziale. I sentimenti che emergono sono soprattutto sconforto, disagio e presa a male, narrati tuttavia in chiave disincantata e leggiadra come la voce della giovane cantautrice. Alle collaborazioni e featuring di primissimo rango e ai dischi di platino si è appena aggiunta la partecipazione a Sanremo 2023. Una manna dal cielo per placare il nostro bisogno di roba fresca e novità all’altezza. (EV)
Che Ernia fosse un autore di spessore, be’, non era un segreto per nessuno – i riferimenti letterari erano evidentissimi già dai tempi di Come uccidere un usignolo, un omaggio esplicito al primo romanzo Harper Lee. Da questo punto di vista, Io non ho paura (titolo ammanitiano e libresco, tanto per cambiare) aggiunge poco: come da consuetudine, la scrittura è solidissima e raggiunge dei picchi lirici soprattutto quando Professione interseca il terreno della biografia (ascoltare Buonanotte per credere, se possibile senza piangere). Il grande salto in avanti, però, Ernia lo compie a livello di concetto: l’idea di dare forma a un raccoglitore delle ansie e dei timori di due generazioni è azzeccatissima, e lungo le 14 tracce l’ex Troupe D’Elite si rivela un cantore dell’Apocalisse più che credibile. Certo, le concessioni all’orecchio non mancano, dalla “Superclassico, Parte II” Bella fregatura alla “ottoottotreggiante” Weekend, fino alla nazionalpartenopeissima Acqua tonica, condita dal solito flow pirotecnico e proteiforme di Geolier (ma come fa?) ma, si sa, fa parte del gioco. (GLS)
Come lo canti il cambiamento climatico e l’eredità tossica (nel vero senso della parola) che lasceremo alle prossime generazioni? I Marlene Kuntz l’hanno fatto senza cedere alla tentazione dello slogan in un disco nato prevalentemente attorno a pianoforte e tastiere, pieno di sottigliezze nei testi e nelle musiche, frutto d’un processo aperto in parte al pubblico in alcuni borghi di provincia. “Il mondo brucia, e noi?”, chiede Cristiano Godano. Non c’è risposta, ma la domanda è ben posta in un album dalle atmosfere quasi oniriche, in cui le tessiture degli strumenti prevalgono sulle sfuriate rock d’un tempo. (CT)
Ci sono dei dischi di cui si può apprezzare la piena potenzialità solamente ascoltandoli dal vivo a un concerto. Radio Whitemary ne è l’esempio lampante; per goderselo bisogna poterlo ballare a volume alto, in mezzo alla gente, perdendosi nella produzione affillata e sui colpi ficcanti dei kick. Un lavoro che sta tra Moderat e Soulwax, tra Marie Davidson e Simian Mobile Disco. Bpm sostenuti, cassa dritta, canto in italiano. Tutto giusto, era qualcosa che mancava e di cui avevamo bisogno. (MB)
Da un punto di vista filosofico, Fabri Fibra è una sorta di Antonio Gramsci del rap italiano: nel contesto domestico, l’egemonia culturale dell’hip hop è (soprattutto) farina del suo sacco. Date le premesse, potrebbe crogiolarsi nei benefici della rendita di posizione, capitalizzare quello status pioneristico e inscalfibile che tutta la scena, a prescindere dal dato biografico, gli riconosce, pubblicare album fotocopia. E invece no: il decimo album Caos non è l’esercizio di autocelebrazione stantia che in tanti aspettavano. È il disco di un artista capace di mettersi in discussione, abbastanza umile da riporre parte delle proprie certezze nel dimenticatoio per provare a esplorare nuove sonorità e porsi in connessione con la sfuggentissima Gen Z (da questo punto di vista, il feat con Lazza e Madame nella title track è un ottimo esempio). Tarducci da Senigallia ha dimostrato che, nonostante il tedio che una carriera ultraventennale potrebbe legittimamente indurre, ha ancora tanto da raccontarci. (GLS)
L’avvento di thasup nel panorama italiano è stato un terremoto che ha rivoluzionato il modo di scrivere sia in chiave trap che pop. Forse qui non siamo al livello degli esordi (l’effetto wow si può aver una volta sola), ma che il ragazzo sappia scrivere hit è oramai chiaro a chiunque. Ci sono comunque un paio di momenti che da soli valgono l’intero ascolto: s!r!, con Lazza e Sfera Ebbasta, una sintesi perfetta dell’estetica thasup, e r()t()nda dove il trapper riesce a far cantare Tiziano Ferro di props, fake bro, joint e cash. (MB)
Per anni ci siamo lamentati della mancanza – in Italia (perché nel resto del mondo l’aria è molto differente) – di una donna giovane capace di costruire una personalità sonora e un’estetica internazionale. Poi è arrivata Ginevra, o meglio, è sbocciata. L’artista torinese, affiancata dalla produzione di Francesco Fugazza (già al lavoro con Mahmood, Meg e Nava), ha fatto un album intimo e ambizioso che riesce a far convivere il pop d’autore con suoni ricercati, come il campionamento di Nine degli Autechre presente in Oceano. Un diamante vero. (MB)
Inserire Kuni nei dischi italiani è solo una questione di forma anche perché provare a tracciare dei confini a questa mezz’ora di musica bellissima è quasi un crimine. Un lavoro meravigliosamente ambizioso che mescola immagini jazz, ambient, elettroniche e che vanta una serie di collaborazioni internazionali intriganti (Asa-Chang, Chester Watson, Jason Lindner, Pink Siifu). Cosa vogliamo dire a un disco che chiude con un brano che si intitola Se mi stacco da te, mi strappo tutto? (MB)
Indagine su un musicista al di sopra di ogni sospetto. La conduce la più figa fra le rock band italiane, alle prese con composizioni per il cinema di Ennio Morricone, alcune stranote, altre di straculto. I Calibro le suonano con la loro energia e qualche ospite, senza stravolgerle. Le «ricostruscono, reinterpretano, restituiscono». I Calibro dicono che quest’album e il secondo volume uscito pochi mesi dopo non sono tributi, ma partite a scacchi col maestro. Per chi ascolta è un viaggio in un modo di fare musica d’altri tempi, diretto ma anti-romantico, assieme colto e popolare, frutto d’un pensiero lucido. E insomma, Scacco al maestro è anche un’indagine sulla sparizione del Novecento. (CT)
È folle, ma funziona. Devono averlo pensato in molti quando, suppergiù due anni fa, hanno ascoltato Francesco Bianconi rifare Playa di Baby K per pianoforte e voce per il format Storie inventate. È stato altrettanto spiazzante sentire la canzone pubblicata ufficialmente come duetto: da una parte lui, quasi un simbolo della canzone d’autore serissima e vagamente ombrosa, dall’altra lei, reginetta dei tormentoni da spiaggia. Da quella versione spoglia e quasi severa Playa ne usciva trasfigurata e persino il testo diventava struggente. Succede anche in altre canzoni di Accade, che Bianconi rifà nello stesso stile. Alcune sono sue, prestate in passato ad altri, altre sono cover di vecchi e nuovi pezzi d’autore. Che bellezza: Accade ridà un po’ di fiducia nelle canzoni e anche nelle canzonette. (CT)
Enemy avrebbe potuto essere l’ultimo disco di Noyz Narcos, il capitolo finale di una storia di ordinaria follia iniziata quasi vent’anni fa da un sabba orgiastico chiamato Non dormire: una detonazione scellerata fatta di droghe sintetiche, satanismo, misantropia, quartieri criminali, pornografia, deliri lucidissimi e zombie. Alla fine, però, la voglia di tornare a raccontare Roma – e di farlo con la sua formula, disfunzionale e fieramente sottoproletaria – ha avuto la meglio. Il prodotto finale si chiama Virus, uno street album maturo che trasuda stile da tutti i pori. La novità è che l’immaginario horrorcore delle origini (al netto dell’attesissima Verano Zombie, Pt.3, s’intende) viene definitivamente accantonato: la sensazione non è più quella di immergersi nella visione di un film di Romero, assomiglia più a un tuffo nel pieno del neorealismo capitolino anni ’80, quello caligariano/dalessandriano per intenderci. E così, quando parte Uomo a terra, la prima traccia del disco, non ci ritroviamo a schivare cadaveri in decomposizione nel bel mezzo di un cimitero della Pennsylvania. L’atmosfera è completamente differente: passeggiamo sul lungomare di Ostia e siamo in piena astinenza, le pupille dilatatissime, il naso che gocciola e i lacci emostatici a riposare, come sempre, nelle tasche; soffriamo tantissimo, abbiamo bisogno di spararci in vena il prima possibile, ma l’amico stronzo ha deciso di sperperare tutti i fondi per comprarsi un gelato. Ci voleva lui, un coatto di Centocelle, per tornare a nobilitare il racconto degli accattoni. (GLS)
Caterina Barbieri è una delle artiste italiane più rispettate all’estero e il suo nome è oramai una consuetudine all’interno del circuito internazionale. In Spirit Exit, la maestra del modulare procede sicura nella sua ricerca allargando la propria palette sonora introducendo, prima di tutto, la voce, continuando così la sua sfida per la melodia impossibile. Un brodo sonico primordiale, un iper-ambient spaziale, un’occhiata sui confini dell’umano.(MB)
Nel punto di intersezione tra divino e terreno, c’è un ventiduenne della provincia di Padova che scrive come un consumato professionista. Un disallineato capace condurci per mano in un immaginario confuso, mistico e schizofrenico: dentro ritroviamo di tutto, dal profondo splatter di Dario Argento agli Evangelion di Hideaki Anno, fino all’esoterismo di Aleister Crowley e a quella desolazione “parrocchiale” tipica della provincia italiana. Si chiama Carlo Corbellini, ed è l’anima dei Post Nebbia. Il terzo album della band padovana, Entropia Padrepio – arricchito dalla curatela di Carlo Porrini, aka Fight Pausa – è essenzialmente questo: un esperimento di cristianesimo allucinato che si risolve nel tentativo di ricerca di un contatto con Dio. Una ricerca scandita dal paesaggio sonoro di un’industria decadente, fatta di suoni acidissimi, atmosfere liserghiche e nodi irrisolvibili. I Post Nebbia sono qui per restare. (GLS)
Il terzo album del rapper-pianista è anche quello della consacrazione, certificata dal superamento della soglia psicologica dei cinque milioni di ascolti su Spotify. Sirio è un disco sicuramente meno spinto rispetto ai lavori precedenti, più “educato” e consapevole. Un album pigliatutto che prova ad aprire la porta a un pubblico decisamente più pop, come suggerisce la presenza della coppia di produttori Takagi & Ketra. Questo tratto è più visibile che mai in Molotov, il brano che infesta i nostri feed da mesi, rielaborazione in pieno stile Lazza di quel synth pop portato alla ribalta da The Weeknd. La riedizione Concertos pubblicata a dicembre e la partecipazione a Sanremo 2023 proiettano il rapper in un’altra dimensione: fate attenzione, ora Lazza vuole piacere anche ai vostri genitori. (GLS)
Il primo disco da solista e anche il primo disco di inediti dal dopo X Factor per Manuel Agnelli portava con sé, inevitabilmente, un sacco di incognite e domande tipo: suonerà ancora bene senza gli Afterhours? Sarà invecchiato male? Si sarà rincoglionito a X Factor? Malfidati. Bastano un paio di minuti della prima traccia per capire che la stoffa è rimasta perfettamente integra e che tutto quello che segue sarà musica di ottima fattura. Un disco pianoforte-centrico come mai era stata in passato la musica di Agnelli e degli Afterhours, non privo però di chitarre distorte e cacofonie inquietanti che colano come rimmel impiastrato sullo sfondo. Dieci tracce erotiche, violente, energiche e a tratti persino ciniche. Non potevamo chiedere di meglio. (EV)
Si sarebbe tentati di scrivere: vedete com’è il pop fatto da una vera musicista? Lei sì che è brava, lei sì che è un’eccezione. Sottinteso: mica come quegli altri. Solo che Elisa con quegli altri ci fa musica, anche in Ritorno al futuro / Back to the Future. Il punto è che lei gioca in un campionato a parte e dei paletti che c’inventiamo noi snob se ne frega. Per lei la musica è evidentemente un’esperienza inclusiva, non esclusiva. Tanto più in questi due dischi. Per realizzarli, ha scelto d’aprirsi ancora di più alle collaborazioni, da quelle fighissime a quelle nazionalpopolari, e ha separato le canzoni in italiano (le più immediate) e in inglese (le più solide). Passa da cose melodicissime e italianissime in cui riesce a essere struggente e credibile a pezzi pop di caratura internazionale. Resta un passo indietro rispetto alle tendenze contemporanee, ma ne fa due avanti nella sovrabbondanza di stimoli musicali. Compone arrangia canta suona produce. Per poi sparire nella notte sullo skate, supereroina in abito lungo di Valentino. (CT)
E infine eccoci qui, in cima alla classifica, dove non potevano che esserci loro, quasi per diritto acquisito. Dopo sette lunghissimi anni di attesa – escludendo dal conteggio la colonna sonora strumentale del film America Latina – nel 2022 sono finalmente tornati i Verdena con un disco di inediti che riprende il filo del discorso proprio dove era stato interrotto nel 2015 (!) con il secondo volume di Endkadenz, quello un po’ meno riuscito dei due. Chiariamo subito una cosa: Volevo magia non è certamente il migliore album dei Verdena, non sta neppure nei primi tre della loro discografia, eppure tanto basta per battere la concorrenza in un panorama musicale italiano francamente stagnante che nel 2022 è stato avido di opere rilevanti, figurarsi di capolavori. Volevo magia è importante innanzitutto perché ha portato di nuovo in tour i Verdena, che è sempre una notizia meravigliosa, visto che le opere rilevanti e degne di nota nascono da una scena dinamica e in fermento, in cui i club e i locali sono frequentati tutte le sere e l’elettrocardiogramma non è piatto. E poi, pur con una serie di difetti, dovuti a una specie di overthinking (sette anni sono tanti per rimuginare su arrangiamenti e testi) causato forse proprio dal peso delle enormi aspettative, Volevo magia regala dei momenti altissimi di Verdena allo stato puro. Parliamo di pezzi come Certi magazine, Sui ghiacciai e Sino a notte, brani semi-acustici che citano a piene mani dal repertorio della band bergamasca, a tratti aggiungendo una passata di pop che non guasta. E poi ci sono macigni da un milione di tonnellate come Pascolare o riff evanescenti che sorreggono la scheletrica Cielo super acceso. Infine la piccola perla Nei rami che chiude il disco con il dubbio che si tratti del miglior pezzo tra tutti. Se è vero che manca qualcosa – un colpo di scena, un pezzo simbolico, un passo avanti nel loro personale percorso, come ci eravamo abituati a constatare finora – è altrettanto vero che non manca niente per farci gioire del più bel ritorno del 2022. Sempre grati ai Verdena. (EV)
Schede di Gianmarco Aimi, Mattia Barro, Giuseppe Luca Scaffidi, Claudio Todesco, Edoardo Vitale.